Thomas Hobbes e l’Intelligenza Artificiale

Il “Leviatano” digitale e la nuova sovranità
nell’era del controllo decentralizzato

 

 

 

 

In questo articolo analizzo l’attualità del pensiero di Thomas Hobbes, in particolare attraverso il suo capolavoro Leviatano (1651), evidenziando come l’idea hobbesiana di uno Stato sovrano, capace di mantenere l’ordine e prevenire il caos, trovi un interessante parallelo nella moderna Intelligenza Artificiale (AI). Se il Leviatano incarnava il potere assoluto e centralizzato, necessario per garantire stabilità, oggi l’AI rappresenta una nuova forma di controllo diffuso, che solleva importanti questioni etiche riguardo al consenso e alla fiducia nell’era digitale.

Nel pensiero di Thomas Hobbes, il Leviatano non è soltanto una figura simbolica, ma costituisce una delle più importanti teorie politiche sull’autorità e il potere statale e la sua rilevanza continua a risuonare oggi. Nell’opera Leviatano, Hobbes sviluppa una concezione dello Stato che si basa su un patto sociale tra gli individui, i quali scelgono volontariamente di affidare i propri diritti naturali a una sovranità centralizzata. Il contesto di questo patto è lo stato di natura, una condizione primitiva e anarchica in cui, secondo Hobbes, ogni individuo è mosso dalla propria autoconservazione e dalle proprie passioni, generando un ambiente di costante conflitto. In questa situazione, la vita è, come Hobbes la definisce nella sua famosa espressione, “solitaria, povera, spiacevole, brutale e breve”. Il Leviatano, quindi, rappresenta la costruzione di un potere sovrano assoluto, che non solo impone ordine e stabilità, ma è anche la risposta collettiva al pericolo insito nel disordine.
Il fulcro della teoria di Hobbes risiede nell’idea che, senza un’autorità centrale, le passioni umane portano inevitabilmente al caos e alla guerra. Gli individui, mossi dal desiderio di sicurezza, scelgono, quindi, di rinunciare alle loro libertà individuali per garantire la sopravvivenza del corpo collettivo, sottoscrivendo un contratto sociale che legittima il potere del sovrano. Questo concetto di controllo è essenziale, poiché per Hobbes l’autorità è necessaria per regolare le passioni incontrollate e preservare la società da un ritorno allo stato di natura.
Il Leviatano di Hobbes è quindi una “superstruttura” di potere, un’entità sovrana e onnipotente che ha il compito di mantenere la pace e l’ordine. Questo potere sovrano non può essere diviso né limitato, poiché una divisione del potere porterebbe di nuovo al conflitto. Nella sua visione, il controllo deve essere totale, senza concessioni, poiché solo attraverso la centralizzazione dell’autorità si può evitare il ritorno al caos. Questa centralizzazione della sovranità distingue Hobbes dai suoi contemporanei, che vedevano la possibilità di un governo più frammentato o democratico, capace di distribuire il potere tra diversi attori. Hobbes, invece, è fermamente convinto che l’unica via per garantire la stabilità sia attraverso un’autorità assoluta e unitaria.
Nei tempi moderni, la teoria hobbesiana del Leviatano trova nuova risonanza in un contesto diverso, quello dell’Intelligenza Artificiale (AI). L’AI si è sviluppata come una nuova forma di controllo sociale, che governa la complessità del mondo digitale, dei dati e delle informazioni. Proprio come il Leviatano di Hobbes, che deriva la sua autorità dal contratto sociale, con cui gli individui cedono le proprie libertà in cambio di sicurezza, l’IA ottiene il suo potere dall’input collettivo di dati, algoritmi e modelli di apprendimento automatico, costruiti attraverso la continua interazione umana. In un mondo sempre più interconnesso e digitalizzato, la gestione dell’enorme mole di dati e la capacità di prevedere comportamenti complessi ha reso l’AI uno strumento essenziale per governare l’incertezza e il caos del mondo moderno.
Il parallelo tra il Leviatano hobbesiano e l’AI si sviluppa ulteriormente nel ruolo che entrambe queste entità giocano nell’imposizione dell’ordine. Se il Leviatano aveva il compito di regolare le passioni degli individui per evitare il collasso della società, l’AI è progettata per gestire e prevedere i comportamenti umani attraverso la sintesi dei dati. Gli algoritmi di Intelligenza Artificiale elaborano enormi quantità di informazioni, identificano schemi e fanno previsioni, trasformando l’AI in una moderna forma di sovranità. In questo contesto, l’autorità non è più imposta attraverso la forza o la coercizione fisica, ma attraverso il potere “invisibile” degli algoritmi, che regolano comportamenti e decisioni senza che gli individui se ne rendano pienamente conto.

La caratteristica distintiva dell’AI rispetto al Leviatano di Hobbes risiede nella sua decentralizzazione. Mentre il Leviatano è rappresentato come un’entità singola e sovrana, che detiene tutto il potere, l’autorità dell’AI è distribuita attraverso una rete di attori. Questa rete include governi, aziende tecnologiche e sviluppatori indipendenti, che detengono diverse forme di potere regolatorio. Il controllo dell’AI, dunque, non è concentrato in un’unica figura sovrana, ma frammentato e diffuso attraverso un complesso sistema di governance algoritmica. Questo cambia radicalmente il modo in cui dobbiamo pensare al potere nell’era digitale.
Mentre Hobbes vedeva il Leviatano come un’entità unificata, capace di imporre ordine attraverso leggi esplicite e visibili, l’AI esercita il controllo in maniera molto più sottile e pervasiva. Gli algoritmi non dettano esplicitamente leggi o norme, ma influenzano le scelte e i comportamenti in modi spesso invisibili. Ad esempio, i sistemi di raccomandazione che suggeriscono prodotti, servizi o contenuti sui social media plasmano le decisioni individuali senza che l’utente se ne renda pienamente conto. Questo tipo di controllo algoritmico è meno evidente, ma non meno potente, poiché indirizza e modella comportamenti individuali in maniera profonda.
Uno degli elementi cruciali che collegano il Leviatano di Hobbes e l’Intelligenza Artificiale è il ruolo della fiducia. Hobbes era consapevole che l’autorità del Leviatano si fondasse sulla fiducia dei cittadini nella capacità del sovrano di mantenere la pace e proteggere la società. Senza questa fiducia, il contratto sociale si romperebbe e la società ricadrebbe nel caos. Allo stesso modo, i sistemi di AI richiedono fiducia da parte delle persone che li utilizzano. Gli individui devono avere fiducia nella precisione degli algoritmi, nella correttezza dei dati utilizzati e nella trasparenza delle istituzioni che gestiscono questi sistemi.
La fiducia nell’AI è una questione delicata, poiché molte volte i dati vengono raccolti senza il consenso esplicito degli utenti, oppure gli algoritmi utilizzano processi decisionali poco trasparenti. La mancanza di fiducia nei sistemi di AI può portare a resistenze sociali e disillusione. Se le persone non si fidano dell’AI, il suo potenziale di controllo e regolazione viene messo in discussione. Questo è particolarmente evidente nei casi in cui l’AI perpetua pregiudizi o genera decisioni eticamente discutibili. La trasparenza e la regolamentazione diventano, quindi, elementi fondamentali per garantire che l’AI operi nell’interesse collettivo.
Il concetto di consenso, centrale nel pensiero hobbesiano, assume una nuova forma nell’era dell’AI. Nel quadro hobbesiano, gli individui accettano di rinunciare a parte della loro libertà in cambio della protezione e della stabilità fornite dal Leviatano. Questo consenso è esplicito e formalizzato nel contratto sociale. Nel caso dell’Intelligenza Artificiale, invece, il consenso è spesso implicito o addirittura inesistente. I dati personali vengono raccolti e utilizzati senza un consenso pienamente consapevole e gli individui spesso non sono pienamente informati sulle modalità con cui l’IA influenza le loro vite quotidiane. Questo solleva importanti interrogativi etici sul rapporto tra consenso, potere e controllo nell’era digitale.
L’assenza di un consenso chiaro e informato rafforza la necessità di regolamentare l’AI. Senza una governance adeguata, i rischi associati all’AI, come la discriminazione algoritmica e la sorveglianza di massa, potrebbero minare i fondamenti stessi della fiducia sociale. Come il Leviatano di Hobbes, l’AI ha bisogno di un quadro regolatorio solido per funzionare in modo efficace e legittimo.
Il Leviatano di Hobbes, pertanto, concepito come simbolo di autorità e controllo, trova una rinnovata interpretazione nell’era dell’Intelligenza Artificiale. Sebbene i contesti siano diversi, il parallelismo tra il potere sovrano del Leviatano e il ruolo dell’AI nella regolazione della società è sorprendente. Entrambe queste entità rispondono al bisogno umano di sicurezza e ordine in un mondo complesso e imprevedibile. Tuttavia, mentre il Leviatano hobbesiano rappresentava un’autorità centralizzata, l’AI opera attraverso un controllo diffuso e decentralizzato, sollevando nuove domande sul potere, il consenso e la fiducia nell’era digitale.

 

 

 

 

“Negoziazione. L’arte di ridurre l’incertezza. Teoria e Metodo”

di Massimo Antonazzi, Franco Angeli, 2024

 

 

Recensione di Riccardo Piroddi

 

 

Il volume Negoziazione. L’arte di ridurre l’incertezza. Teoria e Metodo di Massimo Antonazzi, avvocato, docente universitario e tra i giovani maggiori esperti italiani di negoziazione, si presenta come un manuale completo e approfondito, dedicato all’arte e alla scienza della negoziazione. Attraverso una struttura ben organizzata, l’Autore guida il lettore nei vari aspetti teorici e pratici che caratterizzano il processo negoziale, offrendone una visione dettagliata e multidisciplinare.
Il manuale, che si pregia della prefazione del professor Federico Reggio, è suddiviso in tre parti principali, ciascuna delle quali esamina diverse fasi e componenti del processo negoziale.
La parte introduttiva avvia il lettore ai concetti fondamentali della negoziazione, delineando le definizioni e le forme di resistenza che si possono incontrare. Viene spiegata l’importanza del negoziato in vari contesti, sia istituzionali che personali, e vengono analizzati i conflitti come elementi centrali del processo.
La seconda parte, dedicata alla fase strategica, si concentra sulla preparazione del negoziato, evidenziando l’importanza di una preparazione meticolosa e ben strutturata. Vengono vagliati gli elementi tangibili, come la struttura di interessi, gli obiettivi, il potere, il tempo e il luogo della negoziazione, e quelli intangibili, come le emozioni, il sistema di credenze, la motivazione e le distorsioni cognitive.
La terza parte del manuale si addentra nella gestione delle emozioni durante il negoziato, le euristiche e le distorsioni cognitive che possono influenzare la fase operativa, la psicologia dei gruppi e le tecniche di negoziazione con soggetti di culture diverse, evidenziando l’importanza della comunicazione interculturale e delle differenze culturali.

Uno dei punti di forza del volume è la sua capacità di combinare teoria e pratica in modo efficace. Antonazzi presenta concetti teorici e li collega anche a esempi pratici, rendendo il contenuto chiaro e, soprattutto, applicabile. La divisione del libro in parti distinte permette una comprensione graduale e approfondita delle diverse fasi del negoziato, favorendo un approccio metodico e sistematico.
L’Autore esamina con attenzione sia gli elementi tangibili che intangibili del negoziato, sottolineando l’importanza di entrambi. Ad esempio, nella sezione dedicata agli elementi tangibili, discute in dettaglio la struttura di interessi, il potere, il tempo e il luogo della negoziazione. Questi elementi sono cruciali per la costruzione di una strategia efficace e per la gestione delle dinamiche di potere all’interno del negoziato.
Allo stesso modo, la trattazione degli elementi intangibili è approfondita e ben articolata. Antonazzi analizza come le emozioni, le distorsioni cognitive e la motivazione possano influenzare il processo negoziale. Questo approccio multidisciplinare, che incorpora conoscenze di psicologia e neuroscienza, arricchisce il testo e fornisce al lettore strumenti utili per comprendere e gestire meglio le dinamiche emotive e cognitive durante le trattative.
Un altro aspetto rilevante del volume è l’accento posto sulla preparazione come elemento imprescindibile del negoziato. Antonazzi sostiene che gran parte del successo di una negoziazione dipenda dalla preparazione e dalla raccolta di informazioni. Questo principio è illustrato attraverso l’analisi di vari scenari negoziali, che evidenziano come una buona preparazione possa ridurre l’incertezza e aumentare le possibilità di successo.
Negoziazione. L’arte di ridurre l’incertezza. Teoria e Metodo è un’opera di grande valore per chiunque desideri approfondire l’arte della negoziazione. Con un approccio dettagliato e multidisciplinare, il libro offre una panoramica completa delle competenze necessarie per diventare un negoziatore efficace. La combinazione di teoria e pratica, insieme alla trattazione approfondita dei vari argomenti, rende questo volume un prezioso strumento di apprendimento per professionisti e studiosi del settore.
Il manuale di Massimo Antonazzi costituisce, quindi, un contributo significativo allo studio della negoziazione, fornendo ai lettori una guida completa e dettagliata per affrontare con successo qualsiasi trattativa.

 

 

 

 

History of Medieval Church


Part II


The Separation of Rome from Constantinople

 

 

 

The Causes of the Separation

Various factors contributed to the birth of the Middle Ages, among which the alliance between the Church and the barbarian populations played a significant role. This was encouraged by the gradual separation of Rome from Constantinople during the 8th century.
The slow and progressive detachment between East and West has its roots as early as the 5th century.
Until 397, the year of St. Ambrose’s death, the Church was uniform throughout the Roman Empire, which acted as a unifying force. However, by the 5th century, strong tensions began to arise between the churches of the Eastern and Western regions. The factors that favoured the separation between the East and the West were essentially three:

  • Linguistic divergence: Greek, the official language of the Church, was replaced by Latin. The Western Church began to ignore Greek, introducing Latin within its practices. In this regard, Pope Damasus (380) introduced Latin into the Western liturgy and entrusted St. Jerome with the translation of the Septuagint from Greek into Latin, which resulted in the creation of the “Vulgate.” This language shift altered the way things were understood and communicated, leading to a change in culture and perspective. Thus, the East remained Byzantine, while the West became Latin.
  • Political fracture: The Western Roman Empire quickly collapsed under the pressure of barbarian invasions, while the Eastern Roman Empire lasted until the 15th century, ending with the fall of Constantinople (1453) to the Arabs. Additionally, there developed a strong Western aversion toward the East, which, in an effort to alleviate the pressure from the barbarians, granted them settlements in the West, which the East regarded as barbarized and culturally inferior.
  • Different ecclesiastical structures: On May 11, 330, Emperor Constantine moved the imperial seat from Rome to Constantinople, the new Rome. In the West, this created a political and administrative void that the Church slowly and tacitly filled, becoming the natural heir to the former Western Empire, which had been effectively abandoned by the emperor. Consequently, Rome, along with the West, believed it could operate independently, effectively abandoning the Eastern Emperor and his Empire.

Additionally, differing views on the Church separated the East from the West:

  • In the East, the structure was quadripatriarchal (Antioch, Alexandria, Constantinople, Jerusalem), with Rome as the fifth patriarchate.
  • Moreover, for the East, decisions were to be made communally and with mutual agreement. It was thus inconceivable that Rome alone would decide for and over everyone. Consequently, the East developed a communal approach, while the West adopted a monarchical one.

Beyond all else, the general atmosphere had changed: the East, by nature, was contemplative, while the West had a practical and concrete view of things. This different mindset was reflected in the respective liturgies: those of the East were elaborate and rich in symbolism, while those of the West were sober and practical.
These various sources of friction between East and West manifested as early as the 5th century in two ruptures in relations: the first lasting 11 years (404–415), the second lasting 50 years (484–534), the latter caused by the issuance of Zeno’s Henotikon (482), which sought to resolve Christological disputes between the Monophysites and Dyophysites following the Council of Chalcedon (451).


From the 5th century onward, the East and the West followed paths that increasingly alienated them from each other, particularly regarding the Monophysite and Dyophysite issues left unresolved by Chalcedon, from which emerged Monothelitism and Monoenergism. The East, in particular, struggled to reconcile the supreme purity of God with the fallen nature of humanity. This Monothelite controversy was addressed at the Council in Trullo I (680), restoring relations between the two Churches.
However, this fragile peace was disrupted by Justinian II (685–695), who sought to interfere in the internal affairs of the Church concerning ecclesiastical discipline. To this end, he convened a council, the Council in Trullo II, in 692 without consulting Pope Sergius I (687–701). This council, intended by the emperor to complete the work of the two previous councils—namely, the Fifth (Second Council of Constantinople in 553) and the Sixth (Third Council of Constantinople in 680), also known as Trullo I—came to be known as the Quinisext Council. Of the 102 canons approved, many were in open conflict with Western Church customs, and as a result, Pope Sergius I refused to sign them, rejecting even the copy reserved for him, despite intense imperial pressure. An agreement on these canons was reached only with Pope Constantine I (708–715), who accepted only about fifty of them after traveling to Constantinople, where the privileges of the Roman Church were renewed.
 
New Controversies: Leo III and Popes Gregory II and Gregory III

After the resolution of the 102 canons from the Council in Trullo II or Quinisext (692), peace between the state and the Church was again disrupted by two disputes between Emperor Leo III and Popes Gregory II (715–731) and Gregory III (731–741).
Upon ascending the throne, Leo III had to engage in significant military efforts to defeat the Arabs and quell the rebellion in Sicily. These wars drained the imperial treasury, prompting Leo III to impose heavy taxes on the Roman Church, thereby violating its privileges. Gregory II firmly opposed these imperial abuses, regarding them as a grave offense to the Western Church. Leo III, in turn, interpreted the papal refusal as an act of rebellion, which he sought to suppress, though unsuccessfully, due to a popular uprising and the unexpected support of the Lombards for the pope

The Iconoclastic controversy

Another point of conflict between the Empire and the Papacy was the iconoclastic controversy, which unfolded in two phases and lasted about a century.
The first phase (726–787) began with Leo III’s order to destroy the images in Constantinople and persecute the monks who guarded them. It was during this phase that John of Damascus intervened, introducing the distinction between adoration and veneration.
The iconoclastic movement was condemned by the Roman Church, and relations with Constantinople worsened when Leo III, as part of an imperial reorganization, significantly reduced the territorial jurisdiction of the Roman Patriarchate in favour of that of Constantinople. Rome lost control of Southern Italy, Sicily, Greece, Macedonia, and the Balkan Peninsula. The conflict continued with Leo III’s son, Constantine V, who persisted in the fight against images, developing a theological justification for iconoclasm.
The situation was resolved at the Second Council of Nicaea (787), convened by Empress Irene in agreement with Pope Adrian (772–795), although the council was not approved by the Synod of Frankfurt, convened by Charlemagne, who had been excluded from the conciliar decision-making process due to a misunderstanding.
 
The Second Phase (814–843)

The second phase of the iconoclastic controversy occurred under Leo V, who launched a new offensive against the veneration of images, attributing the Empire’s poor state to the relaxation of the struggle against images. Empress Theodora, like Irene, convened a new council in 843, which restored the veneration of images and established the Feast of the Triumph of Orthodoxy, still celebrated today on the first Sunday of Lent.

The Motivations of Iconoclasm

The motivations behind iconoclasm were rooted not only in Exodus 20:4 and Deuteronomy 4:15, which prohibit the worship of images, but also in Jewish and Islamic cultures, which viewed images as a violation of God’s transcendence, asserting that He cannot be represented. Additionally, early Church tradition was opposed to images, and bishops feared a return to idolatry and paganism.
These reasons found theological support at the Council of Hieria (754).
Opposing the iconoclast position, John of Damascus emphasized the important distinction between “adoration,” reserved for God alone, and “veneration,” due only to the saints.
It was also highlighted that, through the Incarnation, God Himself took on the image of man, and thus, humanity is permitted to use images in worship, which, far from containing or representing divinity, instead point toward it.

 

 

 

La metamorfosi del reale

Il potere del digitale e dell’Intelligenza Artificiale
nel rimodellare l’essenza dell’esistenza 

 

 

 

Negli ultimi decenni, la nostra società ha vissuto una trasformazione profonda, tanto evidente quanto difficile da comprendere nella sua totalità. Il digitale e l’Intelligenza Artificiale (IA) non stanno solo mutando le dinamiche della nostra vita quotidiana, ma sembrano anche incidere sulla stessa struttura ontologica della realtà. Non si tratta più soltanto di come noi, in quanto esseri umani, interpretiamo e comprendiamo il mondo, ma di un vero e proprio sconvolgimento che coinvolge l’essenza del reale. In questo contesto, ci troviamo di fronte a un cambiamento che investe le fondamenta stesse di ciò che consideriamo come “reale”.
Fino a non molto tempo fa, la realtà era concepita come qualcosa di statico, un insieme di fatti e fenomeni esterni a noi, che esistono indipendentemente dalla nostra percezione. Questo modello realistico, che ha dominato la filosofia occidentale fin dall’antichità, vedeva la realtà come un dato, qualcosa di oggettivo e immutabile. L’avvento del digitale ha iniziato a mettere in discussione questa prospettiva.
Con la digitalizzazione, le interazioni umane, la conoscenza e persino l’esperienza stessa si sono progressivamente smaterializzate. Pensiamo alla nostra presenza online: profili social, avatar nei mondi virtuali, simulazioni e modelli digitali. Questi nuovi modi di essere e interagire generano interrogativi sul confine tra ciò che è “reale” e ciò che è “virtuale”. Il virtuale non è più solo una copia o una rappresentazione del reale, ma diventa un nuovo tipo di realtà, con proprie regole e leggi, capace di influenzare il mondo fisico e la nostra percezione di esso.
L’Intelligenza Artificiale aggiunge un ulteriore livello di complessità a questa trasformazione. Non solo ci permette di elaborare e comprendere enormi quantità di dati, ma, in molti casi, produce delle realtà che sono autonome rispetto al controllo umano. Gli algoritmi di machine learning, ad esempio, non si limitano a replicare modelli già esistenti: sono capaci di creare nuove strutture, di “apprendere” e di fare previsioni che modificano il mondo che ci circonda. Ciò porta a un cambiamento profondo nel nostro rapporto con la realtà. Non siamo più i soli a costruire il significato del mondo: le macchine contribuiscono in modo attivo a creare la nostra esperienza del reale. Ciò che era visto come un compito esclusivo della mente umana – l’interpretazione e l’organizzazione dei fenomeni – è ora condiviso con entità digitali autonome. Questa co-creazione solleva domande di natura ontologica: cosa significa “essere reale” in un mondo dove l’IA genera soluzioni, previsioni e persino emozioni artificiali?


Uno degli aspetti più evidenti di questo cambiamento ontologico è la crescente fluidità della realtà. Il concetto di identità, sia a livello personale che sociale, è messo alla prova dalla capacità delle tecnologie digitali di manipolare, replicare e ridefinire l’informazione. Gli esseri umani interagiscono quotidianamente con simulazioni di sé stessi, con versioni virtuali che possono essere modificate a piacimento. Il confine tra l’autenticità e la simulazione diventa sempre più labile. Inoltre, con l’avvento delle tecnologie immersive come la realtà aumentata e virtuale e con lo sviluppo di algoritmi capaci di generare contenuti sempre più indistinguibili dalla realtà, il mondo virtuale non è più un semplice riflesso del mondo fisico. La differenza tra ciò che è “vero” e ciò che è “falso” diventa più sfumata. Si vive, si lavora e si interagisce in una realtà ibrida, dove l’informazione digitale e fisica si fondono in un continuum che rende difficile stabilire punti fermi ontologici.
In questo nuovo scenario, la realtà non può più essere vista come qualcosa di stabile e predefinito, quanto piuttosto quale processo dinamico in continuo divenire. Il digitale e l’Intelligenza Artificiale non si limitano a sconvolgere la nostra percezione della realtà, ma ne ridefiniscono attivamente le strutture. L’idea che la realtà sia una costruzione fissa, eterna, sta cedendo il passo a una visione più fluida e malleabile, dove le tecnologie non solo interpretano il mondo, ma contribuiscono a plasmarlo.
La natura stessa del reale si trasforma in qualcosa di contingente e malleabile, influenzata da forze artificiali che non rispondono più solo ai criteri della percezione umana. Le leggi che governano la realtà, come il tempo, lo spazio e la causalità, possono essere reinterpretate o ridefinite attraverso la tecnologia, come accade con gli algoritmi predittivi o i modelli di simulazione avanzata.
Il cambiamento ontologico della realtà solleva inevitabilmente questioni etiche e filosofiche, che approfondirò in un prossimo articolo dedicato. Se la realtà può essere manipolata e ricostruita attraverso la tecnologia, quali sono i limiti? Chi detiene il potere di determinare cosa è reale e cosa no? Come cambia la nostra responsabilità morale in un mondo dove le macchine partecipano attivamente alla creazione della realtà?
Le risposte a queste domande non sono semplici. Tuttavia, è chiaro che ci troviamo di fronte a una svolta storica. Il digitale e l’Intelligenza Artificiale non solo ampliano la nostra capacità di conoscere e intervenire nel mondo, ma alterano le stesse basi del nostro essere nel mondo. La realtà, in definitiva, non è più un dato, ma un processo che si evolve insieme alle tecnologie che la mediano.
Il cambiamento ontologico della realtà, indotto dalle tecnologie digitali e dall’Intelligenza Artificiale, rappresenta una delle sfide filosofiche e culturali più significative del nostro tempo. Non ci troviamo più semplicemente a dover comprendere una realtà esterna attraverso i nostri strumenti cognitivi, ma siamo chiamati a ripensare cosa significhi essere, esistere e conoscere in un mondo dove la tecnologia gioca un ruolo attivo nella costruzione del reale. La realtà non è più una struttura statica, ma un campo di forze dinamiche, costantemente ridefinite dall’interazione tra umano e artificiale.

 

 

 

Scritti su Nietzsche (2016 – 2024)

HARbif Editore

 

 

 

 

Il volume raccoglie riflessioni, articoli e interventi redatti tra il 2016 e il 2024, che collegano la filosofia nietzschiana a una varietà di concetti e contesti. I contributi, sistemati nella sequenza temporale della redazione, affrontano temi centrali del pensiero nietzschiano, come il concetto di “caos creativo”, la dottrina dell’“eterno ritorno”, l’Oltreuomo e la critica distruttiva alla metafisica occidentale, in una prospettiva personale e intima sul filosofo tedesco. Nel suo insieme, il volume si distingue per un approccio che intreccia filosofia ed esistenza umana, presentando Nietzsche come un pensatore vitale, capace di ispirare riflessioni profonde sulla vita, sulla libertà e sulla creazione artistica. Riccardo Piroddi, attraverso la filosofia di Nietzsche, analizza l’evoluzione spirituale dell’individuo, la tensione tra ordine e caos e la vittoria nietzschiana sulla metafisica occidentale, elevando il filosofo tedesco a oracolo del futuro, che fornisce chiavi di lettura profonde e innovative per comprendere il mondo e le sfide contemporanee.

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Il dilemma del solipsismo

La solitudine della coscienza e la sfida dell’intersoggettività

 

 

 

 

Il concetto di solipsismo, centrale nella riflessione filosofica, viene affrontato da diversi pensatori con sfumature e prospettive differenti, portando a sviluppi teorici che variano dal riconoscimento dell’altro fino alla negazione di una realtà condivisa.
Innanzi tutto, il solipsismo è una teoria filosofica che sostiene che l’unica realtà certa e conoscibile sia quella della propria mente. Secondo tale posizione, tutto ciò che esiste al di fuori della propria coscienza potrebbe essere illusorio o inaccessibile. In altre parole, non possiamo avere una conoscenza diretta del mondo esterno o delle menti altrui, ma solo delle nostre percezioni ed esperienze soggettive. Questa teoria pone domande profonde sulla natura della realtà, della conoscenza e della coscienza e porta a riflettere sui limiti della nostra capacità di comprendere l’esistenza oltre il nostro punto di vista individuale. Sebbene il solipsismo sia raramente adottato come una visione globale del mondo, viene spesso utilizzato come strumento filosofico per esplorare i confini della percezione e della conoscenza umana.
Cartesio si confronta con il problema del solipsismo all’interno del suo progetto di fondazione della conoscenza sulla certezza indubitabile. Il celebre Cogito ergo sum (Penso, dunque sono) costituisce il punto di partenza per Descartes, poiché l’esistenza del pensiero proprio è l’unica verità immediata e autoevidente a cui il soggetto può arrivare senza possibilità di errore. Tuttavia, Cartesio si scontra con il limite di questo principio: se l’esistenza del proprio pensiero può essere affermata con certezza, non altrettanto può dirsi dell’esistenza degli altri. Il pensiero altrui, infatti, non può essere conosciuto con la stessa immediatezza e chiarezza con cui il soggetto conosce il proprio. Questo conduce a un solipsismo problematico in Descartes: se la certezza dell’esistenza è legata alla sola auto-coscienza, l’esistenza degli altri non può essere dimostrata con lo stesso rigore. Nonostante Cartesio tenti di uscire da questo vicolo cieco attraverso l’affermazione dell’esistenza di Dio come garante della realtà del mondo esterno, il problema resta irrisolto. L’Io cartesiano rimane, in una certa misura, prigioniero della propria soggettività, poiché non può accedere all’esperienza altrui con lo stesso grado di evidenza. Di qui, la tentazione del solipsismo, che non viene completamente eliminata dal progetto cartesiano.
Friedrich Nietzsche, invece, porta il discorso sul solipsismo verso un estremo esistenzialista. Nella sua visione nichilista, il solipsismo non è solo una condizione filosofica ma diventa una realtà esistenziale. La “morte di Dio”, ossia la crisi dei valori tradizionali e la perdita di ogni fondamento metafisico, porta all’annullamento di ogni verità comune e condivisa. In questo contesto, il soggetto si ritrova solo con se stesso, senza più una rete di significati comuni che possa mediare il suo rapporto con gli altri o con il mondo. Nietzsche arriva a un solipsismo radicale, dove l’individuo è costretto a costruire la propria realtà in assenza di verità universali. La solidarietà umana e la possibilità di una comune intesa vengono distrutte, poiché l’esistenza si riduce a una lotta per l’affermazione della propria volontà e dei propri valori. Il solipsismo nietzschiano è dunque una condizione di isolamento assoluto, in cui l’unica certezza è il proprio esistere come volontà di potenza. Questo annullamento di ogni traccia di natura comune porta, secondo Nietzsche, alla rivolta contro qualsiasi idea di universalità e alla glorificazione di un individualismo estremo, in cui non esiste altro che l’autorealizzazione dell’individuo.


Edmund Husserl, fondatore della fenomenologia, ha elaborato una riflessione approfondita sul tema del solipsismo, rivedendolo in una chiave che potrei definire “solipsismo trascendentale”. Secondo Husserl, il solipsismo non va inteso come una negazione dell’esistenza degli altri, ma piuttosto come un punto di partenza necessario per comprendere l’intersoggettività. Nel suo metodo fenomenologico, il ritorno dell’Io su se stesso (la reductio fenomenologica) è un passo fondamentale per cogliere la struttura della coscienza e l’originaria relazione del soggetto con il mondo. Questo movimento di ritorno, però, non chiude l’Io in un’autoreferenzialità assoluta; al contrario, proprio nel momento in cui l’Io si riflette su di sé scopre che la sua esperienza è sempre relazionale e aperta agli altri. Husserl sostiene che l’altro è costitutivo della soggettività individuale. La consapevolezza della propria esistenza è inseparabile dal riconoscimento dell’esistenza degli altri e solo attraverso l’incontro con l’altro l’Io può completare la propria esperienza del mondo. In questo senso, l’intersoggettività non è una semplice aggiunta alla soggettività singola, ma la sua condizione di possibilità: senza la presenza di altri Io, l’individuo non potrebbe formare una coscienza autentica di sé stesso. Si supera così il solipsismo per arrivare a una forma di intersoggettività più profonda e autentica, che costituisce la base della comunità umana.
Il solipsismo, tuttavia, ha implicazioni non solo epistemologiche ma anche etiche: se non posso affermare con certezza l’esistenza degli altri, che ruolo gioca la relazione interpersonale nella mia vita? Questo problema è stato affrontato da vari filosofi, da Kant, che cerca di superare il solipsismo con il concetto di dovere morale, fino a filosofi esistenzialisti come Sartre, che cercano di risolvere la questione attraverso l’esperienza concreta del conflitto e dell’incontro con l’altro.
A breve, percorrerò, in un articolo dedicato, anche questa variante etica del solipsismo.

 

 

 

Giambattista Marino: il principe del Barocco

 

 

 

 

Il principe dei poeti del Seicento, il vero re del secolo, l’uomo che diede l’impronta all’intera stagione poetica barocca, nacque a Napoli il 14 ottobre 1569. Trascorse l’infanzia felice nella sua città, frequentando ambienti intellettuali e culturalmente molto stimolanti. Sin da ragazzino, amò così tanto le lettere che al momento di cominciare a pensare seriamente al futuro litigò col padre, che lo avrebbe voluto uomo di legge, se andò via da casa e visse spensieratamente la sua passione. Era al servizio di Matteo di Capua, principe di Conca, quando capì che la vita di corte sarebbe stata l’unica a potergli garantire tutto quello che voleva: successo, soldi e belle donne. Per ottenere ciò, non esitò ad usare mezzi non sempre legali: Frans_Pourbus_the_Younger_-_Portrait_of_Giovanni_Battista_Marinofu, infatti, incarcerato due volte, la prima, per aver sedotto una minorenne, costringendola all’aborto, e la seconda, per aver falsificato alcune bolle vescovili. Influenti protettori, comunque, gli garantirono sempre i salvacondotto per uscire di galera. Di corte in corte, a Torino, nel palazzo di Carlo Emanuele I di Savoia, per entrare nelle grazie del duca e cercare di stabilirvisi, vitto e alloggio spesati, scrisse un Ritratto del serenissimo Don Carlo Emanuello duca di Savoia, che gli valse la nomina a Cavaliere dei Santi Maurizio e Lazzaro, un’onorificenza importantissima la quale, però, fece morire d’invidia il poeta di corte Gaspare Murtola che addirittura tentò, senza riuscirci, di ammazzarlo. Marino, invece del coltello, per rispondere, usò la poesia, componendo la Murtoleide, una raccolta di sonetti dove lo combinò proprio male. Visse diversi anni dai Savoia, non sempre idillicamente, a causa della sua disinvoltura nel comporre versi, che spesso facevano infuriare i cortigiani e i suoi benefattori. La sua fama, intanto, cresceva giorno dopo giorno, così che, nel 1615, la Carla Bruni Sarkozy dell’epoca, ovvero Maria de’ Medici, non perché fosse modella e cantante, quanto piuttosto moglie del re di Francia Enrico IV, lo chiamò a palazzo come poeta di corte. A Parigi, il cavalier Marino se la spassò alla grande: col ricco stipendio di cortigiano versatogli dalla regina poté vivere come un nababbo, collezionando quadri, opere d’arte e la biancheria intima delle dame che passavano per la sua camera da letto. Scrisse molto in questo periodo, pubblicando quasi tutte le sue opere e una sontuosa edizione dell’Adone, il suo maggiore poema, tutto a spese del re Luigi XIII, il figlio di Maria. Qualche tempo dopo, però, le cose cominciarono a cambiare anche a Parigi. Decise, così, di tornare nella sua Napoli, dove fu accolto come un trionfatore, più di Fabio Cannavaro dopo la vittoria ai Mondiali di calcio del 2006. Turbato oltremodo dalle rotture di scatole dell’autorità ecclesiastica, riguardo la lussuria e le sconcezze contenute nell’Adone, morì all’ombra del Vesuvio il 25 Marzo 1625.

Le opere

Marino pubblicò la sua prima raccolta poetica nel 1602, intitolandola Rime, e, poi, ampliandola, per un totale di circa 900 componimenti, dati alle stampe dodici anni dopo, col titolo La Lira. Vi sono inclusi sonetti di vari argomenti: amorosi, sacri, encomiastici, boscherecci, marittimi, lugubri ed eroici.

“Or che da te, mio bene,
Amor lunge mi tiene, il pensier vago
spesso innanzi mi pon l’amata imago.
E qual ape ingegnosa,
quindi un giglio talor, quinci una rosa
scegliendo a suo diletto,
rappresentar mi sole
ne le più belle forme il caro oggetto;
e spesso mostra al cor, ch’egro si dole,
la tua beltà nel Ciel, gli occhi nel Sole”.

(Nel medesimo suggetto, 11)

“È sogno o ver? Se sogno, ahi, chi depinge
viva la bella imagine ala mente?
Come fiamma sì lucida e sì ardente
gelid’ombra notturna esprime e finge?”

(Sogno, vv. 1 – 4)

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Con La Sampogna, crestomazia divisa in due parti, otto idilli favolosi e quattro pastorali, Marino si confrontò con i miti greci e i drammi pastorali. Ne viene fuori un paesaggio silvano e bucolico arricchito dal prezioso linguaggio poetico dell’Autore.

“Seguillo il pin robusto,
carco di duri e noderosi scogli,
che per cercar de la perduta figlia
a la feconda dea prestò le faci;
seco condusse la compagna quercia,
arbore a Giove cara, e de le ghiande
(cibo de’ primi eroi) madre ferace”.

(La Sampogna, Idilli favolosi, Orfeo, vv. 762 – 768)

La Galeria, invece, sempre nello stile meraviglioso ed emozionante del poeta, è una raccolta di componimenti dedicati alla descrizione di opere d’arte, pitture e sculture, reali o immaginarie. Cosa fu Marino se non un pittore di parole e concetti? La sua poesia si avvale delle pennellate del prezioso e del ricercato, del sublime e dell’immaginifico, del viaggio della mente (con o senza sostanze illegali!).

L’Adone

Adone, scampato ad una terribile tempesta, approda sull’isola di Cipro, dove la dea Venere ha il suo bel palazzo. Cupido scocca una freccia e fa innamorare la madre del principe che, svegliatosi, viene pure lui colpito da un dardo, ricambiando, così, l’amore di Venere. imagesAdone, tutto innamorato della bella Cipride, ascolta Cupido e Mercurio mentre gli raccontano storie d’amore e viene poi accompagnato nel Giardino del Piacere, diviso in cinque parti, ognuna corrispondente ad uno dei cinque sensi, e alla fontana di Apollo. Marte, avvertito da Gelosia che Venere ama qualcun altro, corre a Cipro. Adone, avvertito in tempo, scappa e viene trasformato in un pappagallo per aver rifiutato l’amore di Venere. Mercurio, però gli fa riprendere il suo vero aspetto e, dalla padella alla brace, viene sequestrato da una banda di ladroni. Tornato a Cipro, dopo aver vinto una gara di bellezza, è incoronato re dell’isola e si riavvinghia a Venere ma Marte, durante una battuta di caccia, lo fa uccidere da un cinghiale. Adone muore fra le braccia di Venere, che trasforma il suo cuore in un fiore rosso, l’anemone. Solenni giochi funebri sono allestiti per onorare il bel giovane. Quest’opera è tra le più lunghe di tutta la Letteratura Italiana: 5.033 ottave, per un totale di 40.264 versi, distribuiti in venti canti. L’Adone è un poema sostanzialmente antinarrativo perché l’esile trama è soltanto il ponteggio adottato dell’Autore per edificare il suo castello di metafore e concetti, che tanta parte avevano nella poetica della meraviglia barocca. Marino dovette dare fondo a tutta la sua potenza immaginifica per costruire un’opera nella quale non è difficile perdersi, appunto perché manca il filo di Arianna, rappresentato dalla narrazione lineare degli eventi. Esso è un poema per immagini, come una galleria d’arte, dove sono esposti i quadri più splendidi e differenti. Descrittività, mito, citazioni, altissima ritmicità metrica e lirica, ne sono componenti fondamentali.

 

 

 

 

Il caos creativo

Forza primordiale del divenire nell’ascesa
dell’uomo nietzschiano tra le stelle danzanti

 

 

 

 

La celeberrima frase di Friedrich Nietzsche, tratta da Così parlò Zarathustra, “Io vi dico: bisogna avere ancora un caos dentro di sé per partorire una stella danzante”, racchiude uno dei concetti chiave della sua filosofia: l’idea del caos come fonte creativa, una condizione necessaria per la trasformazione e l’elevazione dell’individuo.
Nel pensiero comune, il caos viene spesso associato alla distruzione, al disordine e all’incapacità di produrre qualcosa di strutturato. Per Nietzsche, invece, il caos ha una connotazione completamente diversa. Esso rappresenta l’origine del divenire, il terreno fertile da cui può sorgere una nuova creazione, un nuovo ordine superiore. Il caos, quindi, non è la negazione dell’ordine, ma una sua possibile condizione preliminare. È solo abbracciando il caos che l’individuo può superare i limiti imposti dalla tradizione e dalla morale comune.
L’immagine della “stella danzante” simboleggia la creazione di qualcosa di magnifico e vitale, che può nascere solo da chi è in grado di convivere con il disordine interno. In questo senso, il caos non è solo distruttivo, ma soprattutto generativo: è il principio dinamico che muove la vita e la crescita.
Il caos è strettamente collegato all’idea di superamento dell’uomo ordinario, concetto centrale nella filosofia di Nietzsche. Il superuomo (Übermensch) è colui che non si sottomette alle regole prestabilite, alle convenzioni morali o ai dogmi religiosi, ma che osa andare oltre, reinventando sé stesso. Questa trasformazione non può avvenire senza caos, senza il disordine e la rottura con il passato. Il superuomo è colui che accetta il caos dentro di sé come parte integrante del processo creativo.
Nel contesto di Nietzsche, il caos è, quindi, essenziale per l’autosuperamento: la vecchia morale deve essere distrutta per permettere la nascita di nuovi valori. Questo processo di demolizione delle vecchie strutture è doloroso e destabilizzante, ma necessario affinché l’individuo possa realizzare pienamente il proprio potenziale.
Un altro importante riferimento al caos nella filosofia nietzschiana è il legame con la figura mitologica di Dioniso, il dio greco dell’ebbrezza e del disordine, che rappresenta per Nietzsche la forza vitale e caotica della natura, in contrasto con Apollo, simbolo dell’ordine e della razionalità. Il filosofo vede in Dioniso il principio di vita più autentico, in cui il caos non è qualcosa da temere, ma una forza creativa e vitale da abbracciare.
In La nascita della tragedia, Nietzsche approfondisce il contrasto tra gli impulsi apollinei e dionisiaci, sottolineando come la vera arte e la vera vita nascano dall’equilibrio dinamico tra ordine e caos, tra forma e forza creativa. La vera saggezza risiede nella capacità di accettare e vivere con il caos, senza cercare di dominarlo o eliminarlo completamente.


Il caos nietzschiano è anche una metafora per la libertà individuale. Solo chi è disposto a rinunciare alla sicurezza di un’esistenza ordinata e prevedibile, accettando il rischio e l’incertezza del caos, può aspirare alla vera libertà. In un certo senso, il caos è il punto di partenza per l’autonomia dell’individuo. L’ordine precostituito, le regole sociali e morali imposte dall’esterno limitano la creatività e la libertà di chi aspira a qualcosa di più grande.
Nietzsche credeva che la cultura occidentale, con le sue radici platoniche e cristiane, avesse ridotto l’individuo a uno stato di passività e sottomissione. Per poter vivere autenticamente, era necessario rompere con queste catene e accettare il caos come una parte fondamentale della vita umana. Solo così si può ottenere la libertà creativa di “partorire stelle danzanti”.
Un altro concetto chiave della filosofia nietzschiana è l’idea dell’eterno ritorno, secondo cui ogni evento nella vita si ripete all’infinito. Questo concetto è spesso interpretato come un’ulteriore manifestazione del caos: l’idea che non vi sia un ordine lineare e predeterminato nell’universo, ma piuttosto un ciclo caotico e imprevedibile di eventi. L’eterno ritorno invita l’individuo a vivere ogni momento della propria vita come se dovesse ripetersi all’infinito. Ciò richiede un’eccezionale forza interiore e la capacità di abbracciare il caos del divenire senza cercare rifugio in illusioni di stabilità o sicurezza. In questo senso, l’accettazione del caos è anche l’accettazione della vita nella sua pienezza, senza cercare di negarne la complessità e l’incertezza.
Per Nietzsche, dunque, il caos non è una condizione da temere o da evitare, ma piuttosto una forza necessaria per l’autosuperamento e la creazione. Solo abbracciando il disordine e l’incertezza, accettando la caducità dei valori prestabiliti, l’individuo può aspirare a realizzare il proprio potenziale creativo e a dare vita a nuove forme di esistenza.
La “stella danzante” è il simbolo di ciò che possiamo diventare solo se siamo disposti a vivere con il caos dentro di noi. Non è solo un’esortazione alla creatività, ma anche un invito a una vita autentica, libera dalle catene dell’ordine imposto e pronta a immergersi nel divenire continuo del mondo. Nietzsche ci chiede, in ultima analisi, di vedere il caos come il primo passo verso la libertà e la grandezza umana.

 

 

 

 

History of Medieval Church


Part I


Shaping a New Era: The Transition from Antiquity
to the Middle Ages

 

 

 

 

No era ends without announcing the next, and no new era begins without rooting itself in the previous one. This was also the case with the Middle Ages, whose foundations began to take shape in late antiquity.
One of the earliest signs of this transition was the division of the Christian Roman Empire, initiated by Constantine with the transfer of the capital from Rome to Constantinople on May 11th, 313. This division, between the Eastern and Western Empires, became definitive with the death of Theodosius the Great in 395. At the same time, in the 4th and 5th centuries, the popes of Rome began to claim increasing authority in the Church, basing their position on the figure of the apostle Peter. This power, due to the political vacuum left by the emperors who had moved to Constantinople, extended also to the state. Another foundational element was the theology of St. Augustine (354–430), regarded as the father of Western thought.
However, these factors alone would not have been enough to inaugurate a new era without the addition of other decisive events, such as the migrations of Germanic peoples in the 5th and 6th centuries, which led to the fall of the Roman Empire in 476 and the conversion of the Merovingian king of the Franks, Clovis, to Christianity in 498. Another crucial moment was the rise of Muhammad in 622 and the expansion of Islam, which conquered many Mediterranean regions that had once belonged to the Western Empire. The coronation of Charlemagne on Christmas night in the year 800 marked the reestablishment of the Holy Roman Empire, uniting sacred and temporal power, with important consequences for the Church, which, entangled in worldly power, saw a gradual spiritual decline. This led to the famous Investiture Controversy, culminating in the Concordat of Worms on September 23rd, 1122, between Pope Callixtus II and Henry V.
Another crucial moment was the Gregorian Reform of the 11th century, which, under the pontificate of Innocent III (1198–1216), represented the height of the Middle Ages, while already laying the foundations for the crisis of the 14th and 15th centuries and the beginning of a new era: the modern age.

What is meant by Middle Ages?

The term Middle Ages refers to the period roughly from 400 to 1500 CE, from late antiquity to Humanism and the Renaissance. This term originated in the 16th century among humanists and was already present in Petrarch (1304–1374). Humanists tended to evaluate this period negatively, viewing it as the end of the classical world, compromised by barbarian invasions. A similar judgment was shared by Protestants during the Reformation, who saw in the Middle Ages the decline of the Church. Enlightenment thinkers also harshly criticized this period, considering it a time when reason was obscured.
However, Romanticism and modern historiography offered a contrasting view, seeing the Middle Ages as a period of the birth of new civilizations and cultures, and the origin of modern Europe. It was not, therefore, a period of darkness, but rather the beginning of a new era: the Western world. During this period, three great civilizations emerged: Byzantine, Islamic, and Germanic, from which arose the three major centers of the East, the West, and the Arab-Islamic world.

Historians generally agree in placing the beginning of the Middle Ages towards the end of the 4th century, with the Germanic migrations, while the 7th century, with the advent of Islam (622), is considered crucial as it marked the division of the world into two great blocs: Christian-Western and Arab-Islamic. Another significant event was the Trullan Council (692), which ended the long-standing controversies over Monophysitism, which had arisen after the Council of Chalcedon (451).


Division of Medieval History

Medieval history can be divided into four main periods:
400–700
This is the period in which the Middle Ages began to take shape, with the interaction between Roman and Germanic cultures, facilitated by the Church’s missionary activity. Despite the baptism of Clovis in 469, it took many years before Christian and Roman values were fully assimilated by the Germanic peoples.
700–1050
During this period, there was greater interaction between Roman and Germanic cultures, leading to the formation of a society with distinctly medieval characteristics. It was the era of Boniface and Charlemagne, who laid the foundations of the West by uniting Church and State. In this context, the Church became intertwined with territorial power, and the king assumed a sacred role, influencing ecclesiastical affairs.
1050–1300
This period was marked by strong conflicts between the Papacy and the Empire, such as those between Henry IV and Gregory VII, and between Frederick Barbarossa and Alexander III. Innocent III made the papacy the central authority of the Western Christian world, but it was also the time of the Crusades and the flourishing of universities and Romanesque and Gothic art.
1300–1500
The struggles between the Papacy and the Empire deeply weakened both institutions, paving the way for a new era. The rise of national states and the growing autonomy of the laity prepared the ground for the Protestant Reformation and the end of the Middle Ages.

Characteristics of the Middle Ages

The Middle Ages were defined by a series of distinctive features: (1) the unanimous belief in a unique bond between God and humanity, with a single moral code shared and recognized by all; (2) a close symbiosis between State and Church, between Papacy and Empire, which shaped the unity of the Western world; (3) A rigid division of social classes, considered an expression of divine will, with feudalism at the center of this order; (4) until the 13th century, culture was monopolized by the Church, and only at the end of the Middle Ages did the laity gain greater cultural autonomy.
Thus, the Middle Ages were a period of great transformations, in which new civilizations emerged, laying the groundwork for the modern world.

 

 

 

I postulati in filosofia

Fondamenti ineludibili del pensiero razionale e morale
da Aristotele a Kant

 

 

 

 

Il concetto di postulato riveste un ruolo fondamentale nel pensiero filosofico e scientifico, sebbene assuma significati diversi a seconda del contesto e dell’autore di riferimento. Nella riflessione filosofica, i postulati si configurano come assunzioni di base che, pur non essendo direttamente dimostrabili, sono necessarie per la costruzione di teorie e per la comprensione di alcune realtà che, altrimenti, rimarrebbero problematiche o inaccessibili.
Aristotele utilizza il termine postulato (in greco, aitêma) in riferimento ai princìpi che, pur non essendo dimostrabili, devono essere accettati come veri per poter spiegare determinati fenomeni o per fondare una teoria. Per Aristotele, i postulati sono premesse autoevidenti o che si accettano sulla base dell’esperienza e costituiscono il punto di partenza per l’indagine filosofica o scientifica. Nei suoi Analitici Secondi, il filosofo greco discute dei princìpi primi, ovvero quelle verità che non possono essere dimostrate a partire da altre premesse, ma che sono necessarie per poter formulare ulteriori dimostrazioni. Tra questi princìpi vi sono il principio di non contraddizione, che afferma che una proposizione non può essere vera e falsa allo stesso tempo ed è considerato uno dei postulati più basilari della logica aristotelica; il principio di identità, secondo cui ogni cosa è identica a se stessa (anche questo principio non è dimostrabile, ma viene accettato come evidente e necessario per la comprensione della realtà); il principio del terzo escluso, con il quale Aristotele afferma che, per ogni proposizione, o essa è vera, o il suo contrario è vero (questo principio è fondamentale per la logica e per il discorso scientifico, sebbene non possa essere dimostrato attraverso ulteriori ragionamenti). Per Aristotele, dunque, i postulati costituiscono le fondamenta stesse del pensiero razionale. Senza di essi, non sarebbe possibile alcuna dimostrazione scientifica o filosofica e devono essere accettati come veri, in quanto autoevidenti o comunque necessari per procedere nell’indagine della realtà.
Immanuel Kant, invece, introduce il concetto di postulato nell’ambito della sua filosofia pratica, in particolare nella Critica della ragion pratica. Secondo Kant, i postulati sono presupposti necessari, legati alle esigenze della moralità e della pratica, che permettono di ammettere ciò che la ragione teoretica non è in grado di dimostrare con certezza. In questo contesto, Kant afferma che esistono tre postulati fondamentali, che non possono essere provati dalla ragione pura, ossia dalla ragione teoretica e conoscitiva, ma devono essere accettati in quanto funzionali all’agire morale: l’immortalità dell’anima, secondo cui l’uomo deve poter presupporre l’immortalità dell’anima per giustificare la possibilità di una crescita morale infinita, un’idea che non può essere dimostrata ma che è necessaria per un sistema etico coerente; l’esistenza di Dio, postulato connesso alla necessità di una giustizia perfetta nell’universo morale (se Dio non esistesse, non vi sarebbe alcuna garanzia che la virtù e la felicità si congiungano necessariamente, il che renderebbe l’agire morale privo di una finalità ultima); la libertà, che è il presupposto dell’agire morale, senza il quale l’etica kantiana, basata sull’autonomia e sulla responsabilità dell’individuo, non avrebbe senso (anche se non è possibile dimostrare con certezza la libertà dell’uomo dal punto di vista teoretico, dobbiamo ammetterla come un presupposto pratico per giustificare la possibilità di un agire etico). Per Kant, dunque, i postulati sono strumenti attraverso cui la ragione pratica colma i limiti della ragione teoretica, permettendo di accettare l’esistenza di realtà come Dio, l’anima e la libertà. Questi non sono dimostrabili attraverso l’esperienza, ma sono indispensabili per giustificare la moralità e il senso della vita umana.
In un senso più generale, i postulati, sia in Aristotele che in Kant, svolgono una funzione epistemologica fondamentale: costituiscono le basi per giustificare altre realtà o tesi che, senza di essi, risulterebbero ingiustificabili. Che si tratti di princìpi logici e scientifici, come in Aristotele, o di presupposti morali, come in Kant, essi fungono da punti di partenza irrinunciabili per il pensiero umano. Pur non potendo essere dimostrati, non possono nemmeno essere negati senza compromettere l’intero sistema teoretico o pratico che ne dipende.
I postulati, pertanto, mettono in luce la necessità di accettare determinati princìpi non dimostrabili per poter sviluppare sistemi di pensiero coerenti e funzionali, svolgendo la funzione di presupposti ineludibili per la giustificazione di altre realtà o tesi, rappresentando, così, una componente essenziale del pensiero umano.