L’amore in Spinoza

La forza che unisce individuo, natura e divino

 

 

 

 

L’amore, secondo Spinoza, è un affetto che si radica profondamente nella nostra capacità di comprendere e interagire con il mondo. Nel suo capolavoro, Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico (1677), lo definisce come «gioia concomitante con l’idea di una causa esterna». Spinoza, quindi, colloca l’amore tra gli affetti, quelle modificazioni della mente che aumentano la nostra potenza di agire. L’amore non è un semplice sentimento individuale, ma un’esperienza relazionale che ci rende più vivi, più attivi e più immersi nella realtà. Esso si manifesta come un movimento verso l’alterità, guidato dal desiderio, che il filosofo concepisce come una tensione naturale verso ciò che ci completa e ci arricchisce.
Nell’Etica, Spinoza attribuisce all’amore una dimensione virtuosa, fondata sulla comprensione profonda degli altri e della realtà divina. Egli distingue tra vari tipi di amore, a seconda del livello di comprensione coinvolto. Alla base dell’amore vi è la volontà, intesa non come arbitrio individuale, ma come una forza creativa che esprime la nostra essenza. Nella Parte III dell’Etica, Spinoza spiega che il nostro conatus, lo sforzo intrinseco di ogni essere di perseverare nel proprio essere, genera gli affetti, tra cui l’amore. La volontà, quindi, non è un’entità separata, ma il principio dinamico che ci spinge a costruire relazioni autentiche con gli altri e con il mondo.
La comprensione degli altri è centrale nell’amore spinoziano. Gli esseri umani, essendo parte di un unico ordine naturale, possono comprendere e amare gli altri riconoscendoli come espressioni della stessa sostanza divina. Questo amore, quindi, non è solo un atto di connessione individuale, ma un riconoscimento della nostra interconnessione universale.

Un aspetto fondamentale del pensiero di Spinoza è il legame tra amore e socialità. Nella Parte IV dell’Etica, il filosofo afferma che il bene supremo degli esseri umani risiede nella capacità di vivere in armonia con gli altri. L’amore diventa, quindi, il principio sostanziale per la costruzione di relazioni sociali positive. Spinoza scrive che «il bene supremo degli uomini consiste nel fatto che essi possano vivere in concordia e che uniti formino, per così dire, un’unica mente e un unico corpo».
L’amore, quindi, non è un sentimento egoistico o possessivo, ma una forza che promuove il bene comune, rafforzando i legami tra gli individui. Le relazioni sociali si sviluppano in base agli affetti e l’amore rappresenta l’apice di questa dinamica. È un principio che consente agli esseri umani di esercitare la loro socialità in modo armonico e virtuoso, costruendo una società basata sulla comprensione e sulla collaborazione.
Per Spinoza, non esiste una gerarchia tra le diverse forme di amore. Questo principio si basa sulla sua concezione monistica, secondo cui tutto ciò che esiste è espressione di una sostanza unica, Dio. Ogni forma di amore è una manifestazione di questa sostanza e non può essere valutata in termini di superiorità o inferiorità.
L’amore per un individuo, l’amore per la natura e l’amore per Dio sono tutte espressioni di una stessa forza vitale che permea l’universo. Questa prospettiva elimina la separazione tra amore terreno e amore spirituale, riconoscendo l’unità fondamentale di tutte le cose. Come afferma nella Parte V dell’Etica, la vera beatitudine consiste nella conoscenza e nell’amore di questa unità, che ci libera dalle passioni e ci permette di vivere in armonia con l’ordine eterno della natura.
L’amore, pertanto, non è un ideale astratto o un fine da raggiungere, ma una virtù inalienabile che si realizza nella relazione con gli altri e con il mondo. È una forza che ci spinge a comprendere gli altri, a costruire legami autentici e a riconoscere la nostra appartenenza a una realtà infinita. La forma più alta è l’amor Dei intellectualis (amore intellettuale di Dio), che rappresenta la massima espressione di amore. Questo amore non è una passione mutevole, ma una conoscenza adeguata della sostanza unica, Dio, che Spinoza identifica con la Natura (Deus sive Natura). Amare Dio, quindi, significa riconoscere l’ordine eterno e necessario della realtà e vivere in accordo con esso. Tale amore intellettuale non è un’esperienza mistica o trascendente, ma una forma di comprensione razionale e profonda che ci lega alla natura e agli altri esseri umani. In questa prospettiva, amare Dio equivale a comprendere la perfezione e l’unità della natura, accettando la nostra partecipazione a un ordine universale.
Amare, per Spinoza, significa vivere pienamente la nostra natura, riconoscendo l’unità di tutto ciò che esiste. L’amore è al tempo stesso una forza sociale e un principio conoscitivo, che ci guida verso una libertà autentica, fondata sulla comprensione razionale e sull’armonia con il tutto. Nell’amore si riflette l’essenza stessa dell’etica spinoziana: la ricerca della libertà attraverso la comprensione e l’unità con il mondo.

 

 

 

 

Al di là della morale

La guerra eterna che sorregge l’equilibrio della natura

 

 

 

 

L’equilibrio naturale non si fonda sulla pace, ma su un conflitto eterno e inevitabile che attraversa ogni aspetto della vita. La lotta per la sopravvivenza è inscritta nel cuore stesso della natura: è una dinamica primordiale, che si manifesta in ogni ecosistema, dalle savane africane alle profondità oceaniche, dalle foreste pluviali ai deserti più aridi. Prede e predatori, risorse limitate, competizione tra specie e persino tra individui della stessa specie: tutto ciò forma un intreccio di equilibri precari che, pur nel caos apparente, garantisce la stabilità e l’evoluzione del sistema naturale.
Questa guerra incessante, che può sembrare crudele agli occhi umani, non è priva di significato. Essa è, al contrario, la forza motrice che permette alla vita di rinnovarsi, adattarsi e persistere. Ogni sconfitta, ogni morte, contribuisce a creare spazio per nuove forme di vita; ogni lotta per il predominio plasma creature più resistenti, più adatte al loro ambiente. È un equilibrio paradossale, dove il conflitto è il pilastro fondamentale di una stabilità dinamica e fluida.
Tentare di moralizzare la natura, di applicare a essa princìpi etici e morali propri dell’essere umano significa non solo fraintenderla, ma rischiare di distruggerla. La natura non opera secondo i nostri concetti di “bene” e “male”. Le sue leggi sono amorali, non nel senso di un’assenza di etica, ma nel senso che l’etica stessa è estranea al suo funzionamento. Introdurre categorie morali nel sistema naturale equivale a voler piegare l’universo a regole che sono state concepite per un contesto specifico: la convivenza sociale umana.
Moralizzare la natura, ad esempio proibendo ogni forma di predazione o intervento umano, porterebbe al collasso dell’ecosistema. Impedire che i predatori caccino significherebbe favorire una crescita incontrollata delle popolazioni di prede, con conseguente devastazione delle risorse ambientali. Viceversa, eliminare le prede per proteggere alcune specie significherebbe affamare i predatori, rompendo l’equilibrio. È un sistema di interdipendenze complesso, che non tollera l’applicazione rigida di concetti etici umani.

La morale, infatti, è una costruzione esclusivamente umana. È il risultato di millenni di evoluzione culturale, di tentativi di regolare la convivenza tra individui all’interno di società complesse. Essa nasce dall’esigenza di limitare i conflitti e promuovere la cooperazione, elementi necessari per il progresso e la sopravvivenza della specie umana. Tuttavia, la morale è limitata al contesto umano: funziona all’interno delle società, dove può essere negoziata, applicata e modificata. Fuori da questo ambito, la sua applicazione diventa complicata e spesso inappropriata.
Anche all’interno del mondo umano, la morale non è mai assoluta. È un sistema fluido, che richiede discernimento e contestualizzazione. Ad esempio, il principio di reciprocità, fondamentale per molte società, presuppone una condivisione di valori tra le parti. Dove questa condivisione manca, o dove la reciprocità non è possibile, la morale deve essere interpretata e adattata al caso concreto.
Quando si tenta di estendere la morale al di fuori del contesto umano, occorre farlo con estrema cautela. È possibile, ad esempio, introdurre norme che riflettano una sensibilità etica verso gli animali o l’ambiente, ma queste norme devono essere pragmatiche e specifiche. Evitare il maltrattamento degli animali da compagnia o ridurre la crudeltà gratuita nei confronti di altre specie può essere certamente un atto di responsabilità e rispetto. Tuttavia, questo non implica necessariamente il divieto assoluto dell’uccisione di animali, specialmente quando essa risponde a esigenze come l’alimentazione, la salute o il mantenimento dell’equilibrio ecologico.
Ad esempio, il dibattito sulla caccia è emblematico. Condannare la caccia indiscriminata e priva di necessità è una posizione eticamente valida. Tuttavia, la caccia regolamentata, finalizzata al controllo delle popolazioni animali per evitare squilibri ecologici, può essere un intervento necessario per garantire la sopravvivenza di interi ecosistemi. Analogamente, il consumo di carne può essere regolato e ridimensionato senza dover necessariamente arrivare a un’abolizione totale, che potrebbe avere conseguenze indesiderate sulle economie locali e sulle culture tradizionali.
Il rapporto tra morale e natura, pertanto, deve essere governato da un approccio pragmatico e consapevole. L’essere umano deve riconoscere che il mondo naturale funziona secondo logiche proprie, che non possono essere comprese o regolate attraverso il prisma ristretto dell’etica umana. Questo non significa che l’uomo debba agire in modo irresponsabile o incurante nei confronti della natura; al contrario, è possibile promuovere un’interazione rispettosa e sostenibile, basata sul riconoscimento dei limiti e delle necessità di entrambi.
La morale umana è una bussola preziosa, ma non universale. È uno strumento che deve essere usato con intelligenza e misura, senza cadere nella tentazione di imporre visioni assolute su una realtà che, per sua natura, sfugge a ogni semplificazione. La sfida sta nel trovare un equilibrio: preservare ciò che rende unico il nostro codice etico senza minare le leggi fondamentali che regolano la vita sulla Terra. Solo così potremo davvero vivere in armonia con il mondo che ci circonda.

 

 

 

 

 

Pippo Fava

La voce che non si spegne

1984 – 5 gennaio – 2025

 

 

 

C’era una luce particolare negli occhi di Pippo Fava, un luccichio che parlava di speranza, di coraggio e di amore per la verità. Pippo non era solo un giornalista, uno scrittore o un drammaturgo: era un uomo che aveva scelto di non voltarsi mai dall’altra parte. Nato a Palazzolo Acreide, una piccola perla nel cuore della Sicilia, portava dentro di sé la voce di un’isola tanto bella quanto lacerata, una terra intrisa di profumi e di contraddizioni, di natura rigogliosa e di ombre insidiose.
Fava amava raccontare storie. Non quelle levigate e convenzionali, ma le storie scomode, quelle che pochi avevano il coraggio di ascoltare e ancora meno di narrare. Con la sua penna graffiante e la sua voce appassionata, svelava i legami profondi e spesso invisibili tra la mafia e il potere, tra la corruzione e il silenzio complice di una società intimidita. Non scriveva per ottenere riconoscimenti o applausi, ma per smuovere le coscienze, per risvegliare quella voglia di giustizia che ognuno dovrebbe custodire nel proprio cuore.

Non era facile essere Pippo Fava. Ogni articolo pubblicato, ogni inchiesta portata a termine, era come una sfida lanciata al cielo carico di nuvole scure che gravava sulla sua amata terra. Sapeva che il prezzo della verità poteva essere alto, ma continuava a percorrere il suo cammino con determinazione quasi sacrale. Non si nascondeva dietro le parole, le usava come spade, affilate e precise, per colpire il marcio là dove si annidava.
Eppure, accanto alla fermezza del giornalista e all’ardore dell’attivista, c’era l’animo poetico di un uomo innamorato della vita. Pippo amava l’arte, il teatro, i volti dei contadini segnati dalla fatica e i colori intensi dei tramonti siciliani. Nei suoi scritti, nei suoi editoriali e persino nelle sue denunce, c’era sempre spazio per un tocco di umanità, per un sussurro di bellezza. Era un uomo capace di sognare un futuro luminoso, anche quando tutto intorno a lui sembrava volerlo soffocare.
La sera del 5 gennaio 1984, il rumore secco dei colpi di pistola strappò Pippo Fava alla sua famiglia, ai suoi amici, alla sua terra. Ma non riuscì a spegnere la sua voce. Perché Pippo non è morto quella notte davanti al Teatro Verga di Catania. Vive nei suoi scritti, nelle battaglie che continuano a ispirare, nella memoria di chi crede ancora che la verità non possa essere messa a tacere.
Pippo Fava è il simbolo di un’Italia che non si arrende, un’Italia che non chiude gli occhi davanti al male, un’Italia che crede nella forza della parola e nella dignità dell’uomo. La sua vita è stata breve, ma il suo coraggio e la sua integrità risuonano ancora oggi, come un’eco eterna, nelle strade della sua amata Sicilia e del mondo.

Intervista di Enzo Biagi a Pippo Fava (1983)

 

 

 

 

 

Priamo e Achille

L’umanità che trionfa sull’odio

 

 

 

 

Era una notte di silenzi carichi e sospiri trattenuti, quando Priamo, re di Troia, decise di affrontare l’impensabile. Avvolto in un modesto mantello, quasi a voler dismettere il peso della corona, si fece strada attraverso il campo acheo, guidato solo da Hermes, il messaggero divino. Ogni passo lo avvicinava alla tenda del nemico più feroce, Achille, l’uomo che aveva ucciso suo figlio Ettore e ne aveva profanato il corpo, trascinandolo attorno alle mura di Troia.
Priamo era un re, un uomo schiacciato dal peso della guerra, che aveva perso quasi tutto, ma era soprattutto un padre. Per questo, in quell’ora così buia, trovò la forza di sfidare la furia del più temuto degli eroi, per restituire dignità a Ettore, il figlio caduto, il baluardo della sua città, la carne della sua carne.
Quando Priamo entrò nella tenda, Achille lo vide come un’apparizione. L’uomo, che fino a poche ore prima rappresentava il nemico più odiato, ora si presentava come un vecchio fragile, le spalle curve, gli occhi pieni di una supplica che nessuna parola avrebbe potuto contenere. Priamo si inginocchiò ai piedi di Achille, stringendo con le sue mani le ginocchia del guerriero.
“Ricordati di tuo padre, Achille”, disse Priamo. Le sue parole scossero l’animo del Pelide. Priamo non parlava come re, né come nemico, ma come un uomo che conosceva il dolore. “Anch’egli è vecchio, come me, e attende notizie di te. Ma tu vivi ancora. Tu puoi tornare da lui. Io, invece, sono qui a implorare la tua pietà per riavere il corpo di mio figlio”.

Quelle parole ruppero qualcosa dentro Achille. Il ricordo di suo padre Peleo, lontano e ignaro del destino del figlio, e di Patroclo, l’amico che la morte aveva portato via, riaffiorarono come un’onda che non si può fermare. Le sue mani, abituate a distruggere, ora tremavano. Per la prima volta, da quando aveva intrapreso la sua furiosa vendetta, sentì il peso di un’umanità che aveva cercato di reprimere.
Achille si alzò lentamente, il volto segnato dalla fatica e dal dolore. Fece cenno ai suoi uomini di preparare il corpo di Ettore, di lavarlo, ungerlo, rivestirlo con le vesti più nobili. Ogni gesto era un atto di riconciliazione, un tributo alla grandezza di Ettore e al dolore di Priamo. Era come se in quel momento Achille volesse restituire al mondo un frammento di ciò che aveva distrutto.
Mentre il corpo di Ettore veniva portato davanti a Priamo, il re si lasciò andare a un pianto inconsolabile. Le sue lacrime scesero silenziose, come pioggia che bagna una terra sterile. Achille, in piedi accanto a lui, osservava, e per la prima volta sentiva che il dolore dell’altro era anche il suo. La rabbia che lo aveva consumato sembrava scivolare via, lasciando spazio a un vuoto che nessuna vittoria poteva riempire.
Quella notte, nella tenda di Achille, il mondo sembrò fermarsi. Due uomini, separati da un abisso di guerra, trovarono un terreno comune nel dolore. Non c’erano più Achille il furioso distruttore e Priamo il re sconfitto: c’erano solo due esseri umani, fragili e spezzati, uniti da una consapevolezza condivisa. La vita, così cara e così fragile, era stata loro strappata da mani invisibili, mani di dèi capricciosi e di un destino ineluttabile.
Achille ordinò che Priamo fosse trattato con onore. Lo fece sedere alla sua tavola, lo fece riposare e per un momento sembrò che il guerriero e il re potessero essere semplicemente un figlio e un padre. Ma entrambi sapevano che quella tregua era solo un’illusione. Priamo sarebbe tornato a Troia con il corpo del figlio e Achille sarebbe rimasto nell’accampamento acheo, ancora prigioniero del suo destino.

L’incontro tra Priamo e Achille è uno dei momenti più poetici e malinconici dell’Iliade. Omero ci mostra che la vera grandezza di un uomo non risiede nella forza o nella vittoria, ma nella capacità di riconoscere il dolore altrui e di trovare una scintilla di compassione anche nell’oscurità più profonda. È un momento in cui la guerra si arresta, e l’umanità, per un attimo, trionfa sull’odio.

 

 

 

Buon compleanno, Maestro Leone!!!

Caravaggio e Sergio Leone: rivoluzionari delle loro arti

 

 

 

 

La storia dell’arte e del cinema è costellata di figure capaci di ridefinire le regole dei loro linguaggi, inaugurando nuove epoche creative. Michelangelo Merisi da Caravaggio e Sergio Leone appartengono a questa élite di innovatori. Il primo rivoluzionò la pittura tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento; il secondo, quasi quattro secoli dopo, trasformò per sempre il genere western cinematografico. Entrambi ruppero con le convenzioni estetiche del loro tempo, introducendo uno stile inconfondibile, che ha lasciato un segno permanente nella cultura visiva.

La rivoluzione pittorica di Caravaggio

Caravaggio, nato nel 1571, trovò nel chiaroscuro il mezzo per comunicare la profondità delle emozioni umane e la sacralità della realtà quotidiana. La sua arte si distinse per un realismo radicale, che suscitava scandalo e ammirazione. I suoi dipinti non idealizzavano i soggetti: li presentavano con una cruda autenticità, riflettendo la vita così com’era, senza filtri o compromessi.
Opere come La vocazione di san Matteo (1600) rappresentano un momento epocale nella storia della pittura. In questa scena, ambientata in una modesta taverna, Cristo si avvicina al futuro apostolo Matteo con un semplice gesto della mano. La luce divina, che taglia l’oscurità dell’ambiente, non è solo un elemento estetico, ma anche narrativo: guida lo spettatore verso l’istante della chiamata spirituale. Il volto di Matteo esprime incredulità e dubbio, un’emozione umana che trascende il dogma. Un altro esempio emblematico è La Madonna dei pellegrini (1604-1606), dove la Vergine appare scalza, accogliendo due fedeli altrettanto scalzi, segnati dalla fatica del cammino. Questo dettaglio suscitò scandalo tra i contemporanei, ma sottolineava il messaggio inclusivo di una religiosità vicina al popolo. Il martirio di san Matteo (1599-1600) e Giuditta e Oloferne (1603) sono capolavori che illustrano la capacità di Caravaggio di catturare il momento decisivo. Nel primo, l’azione si svolge come in un’istantanea cinematografica: l’assassino si appresta a colpire san Matteo, mentre la folla reagisce con terrore. Nel secondo, il contrasto tra la determinazione di Giuditta e il terrore di Oloferne è amplificato dalla luce che illumina i volti, lasciando il resto in penombra. Con Caravaggio, ogni dipinto diventa un microcosmo di emozioni umane, capace di trascendere il tempo e lo spazio.

Sergio Leone e la reinvenzione del western

Quasi quattro secoli dopo Caravaggio, Sergio Leone (1929-1989) applicò un approccio altrettanto rivoluzionario al western, un genere che negli anni Cinquanta sembrava aver esaurito la propria capacità di innovazione. Con il suo stile personale, il regista non solo reinventò il genere, ma lo trasformò in una forma d’arte epica e universale, capace di parlare al pubblico di tutto il mondo. Il viaggio rivoluzionario di Leone inizia con Per un pugno di dollari (1964), il primo capitolo della cosiddetta “Trilogia del dollaro”. Questo film, ispirato al giapponese Yojimbo di Akira Kurosawa, introduce un antieroe (interpretato da Clint Eastwood) lontano dagli stereotipi hollywoodiani. Il protagonista, soprannominato “l’uomo senza nome”, è un mercenario silenzioso, mosso più dall’istinto di sopravvivenza che da un codice morale eroico.
Con Il buono, il brutto, il cattivo (1966), Leone raggiunge l’apice della sua innovazione narrativa e stilistica. La sequenza finale, il famoso “triello”, ambientato in un cimitero diroccato, è un esempio magistrale di tensione cinematografica. Leone dilata il tempo narrativo con primi piani serrati sugli occhi dei personaggi, intercalati da inquadrature ampie dello spazio. La colonna sonora di Ennio Morricone, con il suo tema iconico, amplifica la drammaticità, rendendo il confronto un’esperienza quasi rituale.
In C’era una volta il West (1968), poi, Leone abbandona la narrazione episodica per una struttura epica. Il film è una meditazione sulla fine del West e sull’inevitabile arrivo della modernità, simboleggiata dalla costruzione della ferrovia. Henry Fonda, solitamente associato a ruoli eroici, interpreta Frank, un villain spietato, incarnando la complessità morale che Leone attribuisce ai suoi personaggi. Come Caravaggio, Leone utilizza la luce e l’ombra per costruire un’atmosfera carica di tensione. L’uso del paesaggio, combinato con il ritmo lento delle scene e i lunghi silenzi, crea un senso di grandiosità quasi sacrale, simile a quello delle tele del maestro lombardo.

Due visioni rivoluzionarie

Sebbene separati da secoli e discipline diverse, Caravaggio e Sergio Leone condividono un approccio simile nell’arte narrativa. Entrambi si concentrano sull’essenza dell’azione e delle emozioni umane, ridefinendo la relazione tra i protagonisti e il contesto che li circonda. Le loro opere non sono semplicemente rappresentazioni estetiche, ma esperienze immersive in cui ogni dettaglio è carico di significato.
Caravaggio e Leone sono maestri nel catturare l’essenza di un momento decisivo, amplificandone l’intensità fino a renderlo universale. Caravaggio congela l’azione nel suo climax emotivo, come in Davide con la testa di Golia (1610), dove il giovane eroe tiene il capo mozzato del gigante con un’espressione che mescola vittoria, pietà e riflessione. La scena non celebra soltanto l’atto eroico, ma penetra la complessità psicologica del personaggio, rendendo evidente il peso morale della violenza. La luce drammatica, che illumina il volto di Davide lasciando in penombra il resto, accentua la tensione e invita lo spettatore a riflettere sul significato più profondo dell’evento.
Leone adotta una modalità espressiva simile, ma attraverso il linguaggio del cinema. Il suo montaggio dilatato e l’uso insistito di primi piani, in particolare negli sguardi, trasformano il tempo narrativo in un campo di battaglia psicologico. Nel celebre triello, ogni inquadratura diventa un frammento di tensione, mentre i personaggi si studiano e si preparano allo scontro. Qui, Leone non si limita a rappresentare il duello: lo carica di un simbolismo epico, in cui ogni movimento e ogni silenzio si accumulano in un crescendo emotivo che esplode solo nell’ultimo, fatidico istante.
Entrambi gli artisti mostrano una maestria unica nel focalizzarsi sull’attesa e sull’impatto emotivo, trasportando lo spettatore al centro della scena. Per Caravaggio, è l’istante in cui la luce divina sembra rivelare il dramma umano; per Leone, è il momento in cui il suono – o il suo assordante silenzio – anticipa l’inevitabile.
Caravaggio e Leone utilizzano il contrasto come elemento centrale per costruire tensione e drammaticità nelle loro opere.
Per Caravaggio, il chiaroscuro non è solo un espediente tecnico, ma un linguaggio narrativo. Nei suoi dipinti, come La vocazione di san Matteo (1600), la luce non si limita a illuminare i soggetti, ma guida lo sguardo dello spettatore verso il fulcro dell’azione. Qui, Cristo punta il dito verso Matteo, un esattore delle tasse, in un gesto che sembra divino e umano allo stesso tempo. La luce, proveniente da una fonte invisibile, separa il sacro dal profano, creando una tensione visiva che sottolinea il conflitto interiore del personaggio.
Leone applica una filosofia simile nel cinema, sfruttando i contrasti tra silenzio e suono, immobilità e movimento, per costruire sequenze di tensione estrema. In C’era una volta il West (1968), l’arrivo di Harmonica (Charles Bronson) è introdotto da un lungo silenzio, rotto soltanto dai suoni ambientali: il cigolio di una ventola, il ronzio di una mosca. Leone utilizza questi dettagli per creare un’atmosfera opprimente, che esplode nell’improvviso sparo. Il contrasto non è solo visivo, ma multisensoriale, amplificando il coinvolgimento dello spettatore.
Questa ricerca del contrasto trasforma le loro opere in esperienze drammatiche potenti, in cui ogni elemento – dalla luce alla musica, dai gesti ai silenzi – partecipa alla narrazione.
Caravaggio e Leone si distinguono per la loro capacità di rappresentare l’umanità in tutte le sue sfaccettature, evitando le idealizzazioni e abbracciando la complessità morale dei loro personaggi.
Per Caravaggio, santi e peccatori condividono la stessa condizione umana. In La conversione di san Paolo (1601), il futuro apostolo è rappresentato in un momento di vulnerabilità: caduto da cavallo, giace a terra con le braccia aperte, come se accettasse il peso della sua trasformazione spirituale. Non c’è traccia di idealizzazione: Paolo è un uomo comune, con il corpo robusto di un lavoratore e un’espressione di sgomento. Questo approccio, che sfidava le convenzioni religiose del tempo, evidenzia la tensione tra divino e terreno, tra grazia e fragilità.
Leone, allo stesso modo, rifiuta l’idea dell’eroe monolitico. I suoi protagonisti, come l’uomo senza nome o Frank in C’era una volta il West, non sono eroi o villain nel senso tradizionale, ma individui complessi, guidati da motivazioni ambigue. In Il buono, il brutto, il cattivo, il personaggio di Clint Eastwood incarna questa dualità: un cacciatore di taglie che, pur mostrando tratti di umanità, agisce principalmente per interesse personale. Leone utilizza questa ambiguità per decostruire il mito del West, trasformandolo in uno specchio delle contraddizioni umane.
Entrambi gli artisti comprendono che la vera drammaticità non nasce dalla perfezione, ma dalle imperfezioni: dai dubbi, dalle debolezze e dalle lotte interiori dei loro personaggi. Questa rappresentazione realistica rende le loro opere universali, capaci di parlare a generazioni diverse.
La capacità di Caravaggio e Leone di trasformare ogni elemento estetico e narrativo in un mezzo per raccontare storie profonde li accomuna come innovatori delle rispettive arti. Per entrambi, il realismo e la tensione non sono solo una scelta stilistica, ma un mezzo per sondare le grandi domande della vita: il sacrificio, la redenzione, l’ambizione e l’inesorabile trascorrere del tempo. La loro eredità, radicata nella drammaticità del momento, nei contrasti estetici e nella profondità umana, continua a influenzare artisti e registi di tutto il mondo, ricordandoci che l’arte, in ogni forma, è una ricerca incessante di verità.
Caravaggio e Sergio Leone hanno ridefinito i confini delle rispettive arti, trasformando le convenzioni in nuove forme di espressione. Le opere del pittore lombardo continuano a ispirare artisti e registi per il loro uso magistrale della luce e della composizione narrativa. Allo stesso modo, il cinema moderno deve molto al regista romano, le cui innovazioni stilistiche hanno suggestionato registi come Quentin Tarantino e Christopher Nolan.
Entrambi ci ricordano che l’arte, sia essa visiva o cinematografica, non è solo intrattenimento, ma una lente attraverso cui guardare la complessità dell’esperienza umana. Caravaggio e Leone, pur divisi da secoli, ci insegnano che rivoluzionare significa avere il coraggio di guardare il mondo con occhi nuovi e raccontarlo con una voce che non si piega alle convenzioni.

 

 

 

 

 

History of Medieval Church


Part VIII


The Investiture Controversy

 

 

 

 

The investiture controversy stemmed from two opposing ideologies: the imperial and the ecclesiastical. Under Constantine (313), the Church was elevated to the highest social and imperial dignity but was simultaneously integrated into the administrative and legal structure of the empire. From Charlemagne onward, the Church became an integral part of the empire, realizing Augustine’s dream of the “Regnum Dei” on earth. However, this integration rendered the Church subservient to the emperor, particularly under the Ottonian and German Henry rulers, who turned it into a vital instrument and foundation of imperial power. In serving the emperor, the Church betrayed its primary and intimate vocation and mission, which came from God. The Church’s moral stature was further degraded by struggles for the papacy, simony, and Nicolaism, all compounded by imperial theocracy, an untenable situation. Overturning this institutionalized reality, both de jure and de facto, was extremely challenging, as it required a transformation of the spiritual and moral climate that shaped the era’s culture and conscience. A decisive impetus came with the foundation of the Abbey of Cluny (910), which established over two thousand monasteries directly under the abbot of Cluny and thus the pope, removing them from imperial control. The most evident manifestation of the Church’s subordination to the Empire was ecclesiastical investitures, which were taken from the Church and given to the emperor, serving his needs. The conflict over this critical issue reached its peak between Henry IV and Gregory VII (1073–1085). Gregory VII’s “Dictatus Papae” not only outlined the future and independent papacy but reversed the roles, shifting from imperial theocracy to pronounced ecclesiastical hierocracy. Canon XII stated, “To him (the pope) is granted the right to depose the emperor,” and Canon XXVII declared, “He (the pope) can release subjects from their oath of loyalty in cases of wrongdoing.” Having established the theological and legal foundations for the separation of Church and Empire, it was now necessary to implement them in practice. The opportunity arose when Henry IV appointed several bishops. Gregory VII refused to recognize these appointments. In response, Henry convened the Synod of Worms (1076) and deposed the pope, who retaliated by excommunicating the emperor. This forced Henry IV to do penance at Canossa. Through this act of apparent submission, Henry IV regained imperial legitimacy and presented himself as a “rex iustus,” turning apparent defeat into a political victory. However, after being excommunicated again, Henry succeeded in deposing Gregory VII, who died in exile in 1085. Despite this apparent victory, the Church’s reformist faction persisted. The pope elected by the emperor, Clement III (1084), was not recognized, and Urban II was chosen instead, following the brief pontificate of Victor III. Urban II resumed Gregorian reforms, and Henry IV was eventually deposed by his son, Henry V. The latter concluded an agreement with Paschal II, whereby the emperor renounced election rights, and bishops relinquished their estates. However, the agreement failed due to strong opposition from the bishops, who feared impoverishment. Success came with the Concordat of Worms (September 23, 1122) between Callistus II and Henry V: the pope retained the right to appointments, while the emperor was granted regalian rights. The Concordat was significant for formalizing the separation of powers and responsibilities, but it was also a compromise. Through imperial regalia, bishops remained tied to the emperor by an oath of loyalty. By then, other kingdoms, such as France and England, had reached agreements with the Church, renouncing ecclesiastical investitures in exchange for oaths of allegiance. However, the issue was more complex in Germany, where investitures involved sovereign rights that could not simply be transferred to the Church. Ultimately, as mentioned earlier, the matter was resolved with the Concordat of Worms. This act harmonized imperial law with the Church’s growing authority. The Concordat was further ratified by the Diet of Bamberg and the First Lateran Council (1123).

Effects of the Concordat of Worms on the “Ecclesia Universalis

The Concordat of Worms granted the Church direct authority over ecclesiastical appointments, concentrating the clergy and Christendom around the pope, who became the central figure of Western Christianity. While the Church achieved greater autonomy and internal cohesion, the West had yet to reach a clear ontological distinction between Church and State, persisting in the unity of Priesthood and Kingdom. In this complex framework, rulers, now stripped of ecclesiastical power, were relegated to the status of “laymen” and, as such, became subject to the Church’s sovereignty. The Church increasingly asserted its spiritual authority throughout Christendom, transforming into a universal Church with the priesthood as the guiding force of the Christian West. This marked a shift from imperial theocracy to ecclesiastical hierocracy. Consequently, the Church experienced a paradox: internal unity centered on the papacy and a growing division between ecclesiastical and secular domains. In the 12th and 13th centuries, the distinction between Priesthood and Kingdom became more pronounced, with Christendom coalescing around the pope, who gained increased authority in both ecclesiastical and temporal matters. The pope embodied the unity of the Christian West, grounded in a single faith and culture.

Competences of the Papacy After the Concordat of Worms

Following the Gregorian Reforms, the imperial theocratic axis shifted to an ecclesiastical hierocratic one. The papacy, now the leader of Christendom, extended its competences beyond ecclesiastical matters to temporal ones. In ecclesiastical affairs, the pope was the apex of the priesthood and the visible principle of Christian unity. In temporal matters, as the vicar of Christ, the pope wielded equal importance, reigning as sovereign over the Papal States and feudal vassal states. He conferred imperial crowns and exercised extensive authority over temporal powers. Thus, the temporal was subordinate to the spiritual, with the State serving as the Church’s secular arm while maintaining autonomy. This relationship was likened to “soul and body” or “sun and moon.” The Crusades and campaigns against heretics exemplified this new State-Church relationship.

The Papacy After the Concordat of Worms

The Concordat of Worms sought to resolve the issue of investitures by promoting a dual system: the king granted temporal investiture, symbolized by the scepter, while the Church retained the right to ecclesiastical election and appointment, symbolized by the ring and crozier. The Concordat addressed the investiture conflict but not the broader relationship between Church and State. The Church retained its feudal structure throughout the Middle Ages, while the Gregorian Reforms initially equated spiritual and temporal powers before asserting the superiority of the spiritual. This dynamic reached its peak under Innocent III (1198–1216), who epitomized the Church’s spiritual and temporal authority. The conflict between Frederick Barbarossa and Alexander III (1159–1181) underscored these tensions, culminating in the Peace of Venice (1177). The Third Lateran Council (1179) established a two-thirds majority rule for papal elections. At the heart of this power struggle lay two ideas: Christ as the sovereign of Christendom; the dual power symbolized by two swords, one temporal (the emperor’s) and one spiritual (the pope’s), with the Church retaining ultimate authority over both. This concept dominated Church-State relations, reaching its zenith under Innocent III.

Institutional Consolidation and Recognition

The Gregorian Reforms and the Concordat of Worms marked a turning point in the Church’s autonomy, freeing it from imperial control over internal governance. The Church consolidated internally, creating an efficient bureaucratic apparatus led by the College of Cardinals, which shared responsibilities with the pope. Innocent III exemplified the medieval papacy’s power and prestige, fulfilling Gregory VII’s vision of the Church as the pinnacle of Western Christendom’s spiritual and political authority. However, this dominance was short-lived due to the modest capabilities of his successors and resistance from figures like Frederick II, who rejected such a concept of the Church.

 

 

 

 

L’amore: al di là del bene e del male

 

 

Che l’amore illumini il 2025, guidandoci e ispirandoci a creare, crescere
e connetterci per rendere noi stessi e il mondo migliori

 

Buon 2025 a voi tutti!

 

 

Friedrich Nietzsche, con la sua celebre affermazione “Quel che si fa per amore, è sempre al di là del bene e del male”, ci invita a riflettere sull’essenza dell’amore come forza primigenia che trascende i giudizi morali e le convenzioni sociali. L’amore non è semplicemente un’emozione o un sentimento, ma un’esperienza rivoluzionaria, capace di cambiare l’essere umano e il mondo intorno a lui.
Per comprendere appieno il valore dell’amore, dobbiamo capirne la natura, il potenziale trasformativo e l’utilità nel tessuto della nostra esistenza.
L’amore è una delle più potenti forze creatrici dell’umanità. Ha spinto uomini e donne a realizzare imprese straordinarie: costruire monumenti, creare opere d’arte immortali e dedicare intere vite alla cura degli altri. Questa capacità di generare bellezza, cambiamento e innovazione nasce dal fatto che l’amore non è legato alla razionalità o alla morale ordinaria; esso opera in una dimensione più profonda, quella dell’autenticità e dell’ispirazione. Per amore si superano ostacoli, si sfidano regole, si cambia il corso della storia. È una forza che non conosce limiti, una scintilla che accende il fuoco della creazione.
Oltre alla sua dimensione creatrice, l’amore è anche un potente motore di crescita personale. Amare significa aprirsi all’altro, mettere da parte il proprio ego e accettare vulnerabilità e compromessi. Questo processo, che può essere doloroso, ci porta a crescere come individui, a scoprire parti di noi stessi che altrimenti rimarrebbero nascoste. L’amore ci insegna l’empatia, la generosità e il valore del dono incondizionato. Ci permette di superare i confini del nostro piccolo mondo interiore per abbracciare un’umanità più ampia, fatta di relazioni e connessioni autentiche.

Nietzsche ci induce a considerare l’amore come una forza che non si piega alle categorie di giusto e sbagliato. Ciò che si fa per amore è puro, autentico, non calcolato. Questa libertà dagli schemi morali tradizionali rende l’amore unico nel suo genere: esso agisce per un principio superiore, che non può essere definito da leggi esterne. Questo non significa che l’amore sia privo di etica; al contrario, la sua etica è interna, profonda, e si basa su valori universali come la verità e la bellezza.
Dal punto di vista collettivo, l’amore è ciò che tiene uniti gli esseri umani. È il fondamento delle relazioni, delle famiglie e delle comunità. Senza amore, il mondo sarebbe frammentato, governato da interessi egoistici e alienazione. È l’amore che ci spinge a costruire ponti invece di muri, a vedere negli altri non nemici, ma fratelli e sorelle. L’amore è ciò che ci ricorda la nostra comune umanità, al di là delle differenze di cultura, religione o provenienza.

In questo nuovo anno che sta per iniziare possiamo guardare all’amore come a un faro che ci guida verso un futuro migliore. L’amore è il filo conduttore che ci permette di navigare attraverso le sfide, di trovare speranza nei momenti difficili e di celebrare le gioie della vita. In questo nuovo anno, auguro che l’amore sia il motore delle vostre azioni, che vi spinga a creare, a crescere e a connettervi con gli altri.

Che l’amore illumini i vostri giorni e renda questo 2025 un anno pieno di significato, bellezza e autenticità.

Che sia un anno in cui, al di là del bene e del male, possiamo tutti agire con amore, per rendere il mondo un luogo migliore.

Buon anno a voi tutti!

 

 

 

 

L’estetica del suono e del silenzio

John Cage ed Ennio Morricone

 

 

 

 

Quando si pensa a 4’33” di John Cage e alla lunga sequenza iniziale di C’era una volta il West di Sergio Leone, ci si trova davanti a due opere che sembrano appartenere a mondi creativi agli antipodi. La prima è una composizione di musica “silenziosa” appartenente all’avanguardia sperimentale del XX secolo; l’altra è un’apertura cinematografica orchestrata da Ennio Morricone per evocare tensione ed emozione. Tuttavia, nonostante le differenze evidenti, entrambe percorrono in modo innovativo il concetto di suono e silenzio, sfidando le convenzioni tradizionali della musica e della narrazione.
4’33” (1952) è un manifesto radicale dell’arte sonora. In questa composizione, John Cage elimina l’intervento attivo dei musicisti: gli esecutori si limitano a segnare i movimenti senza suonare una singola nota, lasciando che il “silenzio” e i suoni accidentali circostanti prendano il centro della scena. Cage non definisce il silenzio come un’assenza, ma come uno spazio di ascolto attivo. Ogni esecuzione è diversa, perché i suoni ambientali – il tossire del pubblico, il fruscio di una pagina, il rumore lontano di una strada – diventano parte integrante dell’opera.
Nella sequenza iniziale di C’era una volta il West (1968), Ennio Morricone utilizza suoni ambientali con un approccio opposto: ogni rumore è calcolato, coreografato e integrato in una narrazione precisa. In questa scena d’apertura, tre uomini attendono l’arrivo di un treno in una stazione deserta. Il cigolio di una ruota, lo scricchiolio del legno, il gocciolio dell’acqua e il frinire delle cicale sono orchestrati per costruire un crescendo di tensione emotiva. Qui non c’è spazio per l’imprevisto: i suoni non sono casuali, ma costruiti con una precisione quasi musicale, trasformandosi in una sinfonia di rumori.
Pur nelle loro differenze, 4’33” e la sequenza iniziale di C’era una volta il West condividono un aspetto fondamentale: il ruolo dei suoni ambientali. Entrambe le opere si sottraggono alla tradizionale distinzione tra musica e rumore, valorizzando i suoni del mondo circostante.
In 4’33”, Cage invita l’ascoltatore a scoprire la musica intrinseca nei suoni che lo circondano. L’opera non è solo un esercizio concettuale, ma un’esperienza che cambia il modo di percepire il quotidiano: l’atto stesso dell’ascolto diventa creativo. Morricone, invece, non lascia nulla al caso. Organizza i rumori come fossero strumenti di un’orchestra, sfruttandoli per evocare un senso di attesa e suspense che culmina con l’arrivo del treno e l’inizio dell’azione.
In entrambi i casi, l’ascoltatore diventa partecipante attivo. Nel caso di Cage, è l’ambiente a modellare l’esperienza sonora; nel caso di Morricone, è lo spettatore a “interpretare” emotivamente i suoni. Entrambi i lavori richiedono un ascolto consapevole e rivelano che il confine tra suono e musica non è mai assoluto.


 

La genesi di queste opere riflette le loro diverse funzioni e radici culturali. 4’33” è profondamente influenzata dalla filosofia zen, che invita a considerare il vuoto e il silenzio come pieni di significato. Cage, all’interno dell’avanguardia del dopoguerra, sfida le concezioni occidentali di arte e musica, proponendo una visione più ampia e inclusiva. Per Cage, il silenzio non esiste: il mondo è sempre pieno di suoni, e la musica consiste nell’aprirsi a essi senza giudizi.
L’introduzione di Morricone, invece, nasce nel contesto del cinema western all’italiana, dove il suono ha una funzione narrativa fondamentale. Sergio Leone e Morricone avevano una visione comune del rapporto tra musica e immagini: il suono non è mai un semplice accompagnamento, ma un protagonista che racconta la storia. In questo caso, il silenzio sonoro – l’assenza di dialoghi e l’uso minimale di strumenti – amplifica la tensione emotiva, lasciando che siano i rumori a “parlare”.
Un altro aspetto che accomuna queste opere è la loro capacità di ridefinire il ruolo dell’ascoltatore. Cage e Morricone, pur con mezzi diversi, mettono in discussione il rapporto tradizionale tra musicista, opera e pubblico. 4’33” è un invito esplicito a rompere le barriere tra artista e spettatore: chi ascolta diventa co-creatore, portando i propri suoni e la propria percezione. La sequenza iniziale di C’era una volta il West, invece, immerge lo spettatore in un’esperienza sonora totale, dove ogni dettaglio acustico è studiato per suscitare una risposta emotiva.
Entrambe le opere pongono una domanda fondamentale: cos’è la musica? Per Cage, la musica è ovunque; per Morricone, la musica può anche risiedere nei dettagli più semplici e quotidiani, trasformati dall’intento artistico.
In definitiva, 4’33” di John Cage e La sequenza iniziale di C’era una volta il West di Ennio Morricone rappresentano due facce complementari della stessa medaglia. Il primo celebra il silenzio come una forma di ascolto radicale e inclusivo, aprendo uno spazio per l’imprevisto e l’inaspettato. Il secondo utilizza il suono come uno strumento narrativo, mostrando che anche il più piccolo rumore può diventare musica se inserito in un contesto significativo. Entrambe le opere ci invitano a riflettere sul valore del suono e del silenzio, ampliando i confini della nostra percezione e ridefinendo il nostro rapporto con ciò che ascoltiamo. Che si tratti di un momento di quiete assoluta o di un crescendo di rumori orchestrati, il messaggio è chiaro: il suono è ovunque e ogni suono può raccontare una storia.

 

 

 

 

26-XII-2024

 

 

 

Il mio giorno svanisce in un abbraccio di fuoco,
il tuo canto sommesso, un addio troppo fioco.
Eppure ogni luce che scende nel mare,
mi sussurra promesse di un nuovo iniziare.

Nel rosso che sfuma nell’ombra che avanza,
la mia fine si mescola a te, dolce speranza.
Così il mio tramonto, pur pieno di pianto,
racconta un domani di tenero incanto.

 

 

 

 

 

 

 

Le stelle di Natale

Per un sereno Natale a voi tutti con tre tra le stelle
più luminose del firmamento filosofico occidentale

 

 

 

 

Le stelle, nella loro dimensione simbolica e universale, hanno assunto molteplici significati nel corso della storia. Esse rappresentano la speranza, la positività e l’aspirazione a raggiungere qualcosa di più grande.
In un senso spirituale, le stelle sono guide luminose che aiutano a trovare il cammino, sia in senso fisico, come accadeva ai naviganti antichi, sia in senso metaforico, come fonti di ispirazione e di fede. Nella loro luce millenaria, che viaggia attraverso lo spazio per raggiungere i nostri occhi, le esse raccontano una storia di eternità e di connessione tra passato, presente e futuro.
La stella cometa, emblema del Natale, è un simbolo particolarmente significativo. Nella tradizione cristiana essa guida i Magi dall’Oriente fino alla grotta di Betlemme, dove si trova il Bambino Gesù. Questo evento è ricco di significati simbolici: la stella cometa non è solo una guida fisica, ma anche un segno divino, un richiamo alla luce della verità e alla salvezza. Essa unisce il cielo alla terra, il divino all’umano, offrendo speranza e orientamento.
Anche la stella di Natale, rappresentata dall’omonima pianta, porta con sé un ricco bagaglio simbolico. Nel linguaggio dei fiori, questa pianta, con le sue foglie rosse che richiamano il sangue e la passione, simboleggia umiltà, amore per il prossimo, rinnovamento e fiducia. Fiorendo durante l’inverno, periodo associato alla morte e al silenzio della natura, essa diventa un segno di vita e di rinascita, un messaggio di speranza per chi vive momenti di difficoltà.
Dal punto di vista scientifico, una stella è un corpo celeste che brilla di luce propria, alimentata da reazioni di fusione nucleare nel suo nucleo. Tuttavia, questa definizione non esaurisce il fascino che le stelle esercitano sull’immaginazione umana. La loro luce, percepita come immutabile, è in realtà il risultato di un processo dinamico e continuo, un equilibrio tra forze che genera energia e vita. Le stelle sono un simbolo di bellezza eterna, un richiamo alla vastità dell’universo e alla nostra connessione con esso.

Platone, nel dialogo Teeteto, narra l’episodio della caduta di Talete, il filosofo che, assorto a contemplare il cielo stellato, non si accorge del pozzo ai suoi piedi e vi finisce dentro. Questo racconto, semplice ma profondamente simbolico, è spesso utilizzato per descrivere la figura del filosofo, il cui sguardo è rivolto all’infinito e all’assoluto, ma che per questa stessa ragione si trova isolato dal mondo pratico e dalle sue urgenze. Talete incarna il paradosso del pensatore: egli indaga le realtà supreme, spesso invisibili agli occhi comuni, e rischia di apparire distante o persino ridicolo a quanti si limitano al contingente. Ma questa distanza non è soltanto una debolezza: è la condizione necessaria per la ricerca di verità più alte, per la scoperta di ciò che va oltre il visibile. Il racconto platonico è, quindi, una riflessione sull’essenza della filosofia stessa, intesa come una tensione continua tra il cielo e la terra, tra il divino e l’umano.
In questa tensione tra l’alto e il basso, il cielo stellato ha da sempre esercitato un fascino particolare, diventando per molte tradizioni un simbolo di eternità, di ordine cosmico e di trascendenza. Immanuel Kant, nella Critica della ragion pratica, collega il cielo stellato alla legge morale, affermando che entrambi suscitano nell’uomo un sentimento di meraviglia e rispetto. Il cielo stellato rappresenta l’infinità dell’universo, la sua armonia e grandezza, mentre la legge morale, che risiede nella coscienza dell’individuo, è il segno della sua dignità e libertà. Questa connessione suggerisce che l’uomo, pur essendo una creatura limitata nel tempo e nello spazio, porta in sé una scintilla dell’infinito. La riflessione kantiana è, quindi, un invito a riconoscere nel cielo stellato non solo un oggetto di contemplazione estetica, ma anche un richiamo alla responsabilità etica, alla consapevolezza del nostro ruolo nel cosmo.
Friedrich Nietzsche, con il suo approccio radicalmente diverso, interpreta il simbolismo delle festività cristiane in una chiave profondamente vitalistica. Per Nietzsche, Natale è la celebrazione della nascita, dell’inizio della vita, del mistero di un’esistenza che prende forma. Pasqua, invece, rappresenta la rinascita, un ritorno alla vita attraverso la trasformazione e il superamento della morte. In questa prospettiva, la rinascita non è soltanto un fatto religioso, ma un processo universale e ciclico, in cui la vita si rigenera continuamente superando le sue contraddizioni. Le stelle, nel pensiero nietzschiano, possono essere viste come metafore di questa eternità in movimento: luci che persistono nel buio dell’universo, simboli di una forza vitale che non si esaurisce mai.
Pertanto, il cielo stellato e le sue molteplici rappresentazioni culturali, filosofiche e religiose sono una fonte inesauribile di ispirazione. Che si tratti di Platone, Kant, Nietzsche o della simbologia cristiana, le stelle continuano a ricordarci la nostra duplice natura: creature finite ma dotate della capacità di immaginare e contemplare l’infinito.
Denique caelesti sumus omnes semine oriundi”, scriveva Lucrezio nel De rerum natura!

Buon Natale a tutti e grazie per l’attenzione che riservate sempre ai miei contenuti!