Sopra lo amore ovvero Convito di Platone
di Marsilio Ficino

L’amore, l’anima, l’assoluto

 

 

 

Nel cielo stellato del Rinascimento italiano, un filo d’oro brilla con luce propria: è Sopra lo amore ovvero Convito di Platone (1469) di Marsilio Ficino, opera in cui la filosofia platonica si fonde con il neoplatonismo in un abbraccio erudito e profondo. Ficino, astrologo e filosofo della corte medicea di Cosimo il Vecchio prima e di Lorenzo il Magnifico poi, dispiega una visione dell’amore che trascende il terreno, elevandosi a modello cosmico, espressione pura dell’anima che aspira alla bellezza assoluta, alla verità oltre il velo delle apparenze.
Le teorie di Platone rivivono in Ficino con una nuova veste, tinta di misticismo e di una spiritualità che si espande oltre i confini della semplice attrazione umana. L’amore è visto come una forza motrice universale, un principio cosmico che lega la terra al cielo, l’umano al divino. È tramite questo amore che l’anima, prigioniera del corpo, può elevarsi, riconoscendo nel bello una scintilla della verità eterna.
Ficino introduce anche elementi di esoterismo, che si intrecciano sottilmente con la dottrina platonica. Il suo amore diviene un viaggio iniziatico, dove ogni forma di bellezza contemplata è un gradino verso la sapienza, un passo più vicino all’Uno, principio supremo e fonte di ogni esistenza. Questa visione dell’amore come percorso di conoscenza e illuminazione trasforma Sopra lo amore in una guida per l’anima che cerca di superare i confini del materiale e del temporale. All’amore e alla bellezza non nono attribuite soltanto valenze filosofiche ma anche simboliche e occulte. Questo amore esoterico suggerisce una dimensione di segreti nascosti da scoprire, di verità velate da svelare attraverso simboli e rituali che superano la mera razionalità e che si addentrano nei misteri più profondi dell’esistenza.
Attraverso il dialogo tra i vari personaggi, l’Autore esplora queste tematiche con una delicatezza e una profondità che incantano il lettore, portandolo a riflettere sulle proprie esperienze amorose e sulla natura dell’amore stesso. Gli interlocutori, filosofi e sapienti del suo tempo, si scambiano opinioni e argomentazioni che riflettono un’epoca in cui l’indagine dell’amore e della bellezza poteva essere tanto un’esercitazione intellettuale quanto un percorso spirituale.
Ficino riprende la nozione platonica di amore, o Eros, come principio catalizzatore che muove l’anima verso il suo fine ultimo: la contemplazione del bello in sé, ossia l’Idea del Bello. Questo concetto si discosta dall’amore terreno, poiché per Platone l’amore è il desiderio perpetuo di ciò che è perpetuamente assente. Ficino estende questa visione, identificando l’amore come forza universale che unisce non solo gli esseri umani tra loro, ma anche l’uomo con il cosmo e il divino. In questo modo, l’amore diventa un mezzo attraverso il quale l’anima può aspirare alla sua purificazione e ascensione.


Uno dei pilastri del pensiero di Platone, che il filosofo fiorentino elabora ulteriormente, è il concetto di anamnesi, ovvero la reminiscenza dell’anima delle forme pure a cui era unita prima di incarnarsi nel mondo materiale. Attraverso l’esperienza della bellezza – che si manifesta nel mondo sensibile ma che rimanda a quella ideale e immutabile – l’anima ricorda la sua origine divina e viene stimolata a ritornare a quella condizione. Ficino, quindi, vede la bellezza come un ponte tra il sensibile e l’intelligibile, tra l’anima e l’Idea suprema della Bellezza stessa.
Nel neoplatonismo, e particolarmente in Ficino, l’Uno o il Bene supremo rappresenta la fonte di tutto ciò che esiste. L’amore è inteso come il desiderio dell’anima di ricongiungersi all’Uno, interpretato quale ritorno all’origine, all’assoluto da cui tutto deriva. Tale ritorno è possibile attraverso la conoscenza e l’amore delle forme eterne e immutabili, un percorso descritto come intrinsecamente legato alla pratica filosofica e mistica.
L’intelletto gioca un ruolo cruciale in Sopra lo amore. Non è solo tramite la sensazione o l’emozione che l’amore può essere compreso o realizzato, ma attraverso un’intensa attività intellettuale. L’anima, per Ficino, si eleva al divino non solo amando, ma comprendendo e contemplando. L’atto di “vedere” il bello e, quindi, di “ricordare” le verità eterne è un processo intellettivo, una forma di illuminazione spirituale che avvicina l’anima all’Uno.
In Sopra lo amore, l’Autore offre così una sintesi vibrante e complessa di amore, filosofia e misticismo, invitando i lettori a considerare l’amore come il principio primo di una filosofia di vita che aspira all’unione con il tutto, un viaggio dall’ombra alla luce, dalla forma alla sostanza, dal particolare all’universale.
Ficino, pertanto, non si limita a tradurre o interpretare Platone, ma ne rinnova il messaggio in chiave contemporanea, facendo appello alla sua comunità di intellettuali e spiriti affini.
Questo testo non è soltanto un trattato filosofico, ma un manifesto di quella sete di conoscenza che caratterizzò l’Umanesimo.
Leggere Ficino è come ascoltare una melodia antica che parla al cuore e alla mente, una melodia che invita a elevarsi, a cercare il bello e il buono, a fondere amore e conoscenza in un unico cammino luminoso verso l’infinito.

 

 

 

State, sovereignty, law and economics
in the era of globalization

 

 

Taken from my lectures as a Teaching Fellow in International Law, these reflections highlight how State sovereignty and International Law are profoundly influenced by globalization, economic integration and digital technologies, raising fundamental questions about global governance, State autonomy and the adaptation of legal structures to new economic and technological realities.

 

Part III

Globalization and political power

 

The economic globalization has fundamentally redefined the relationship with State-imposed regulations, turning it fluid, unstable, and continuously evolving. The contraction of space and time, driven by technological progress, culminates in the obliteration of physical distances; an emblematic phenomenon of our digital age. Technology, by erasing geographical boundaries, ushers in a new global order, a boundaryless mosaic where time seems to condense into an ethereal instant and physical reality transforms into a digital domain, dissolving matter into a virtual ether. The current era witnesses the merging of the real and the virtual into a singular, indistinguishable reality that is simultaneously dual-faced, surpassing the traditional dichotomy. This fusion marks the end of the national borders era, propelling us into a homogenized global dimension, where unified space heralds an era of universal time.
In the realm of transnational dynamics, an identity emerges that is hybrid, devoid of territorial roots, challenging conventional social and political categories, transforming the legal framework in response to the demands of a global market. In this context, transnational corporations sketch a new order – a “nomos” – that navigates between the local and the global, between the aspirations of a borderless market and the constraints of nation-States, reflecting the complexity of an interconnected world.

The re-evaluation of the State in the global age reveals a radical transformation: the State, traditionally a pillar of authority, power, and decision-making, confronts the pervasiveness of the global economy and the thinning of its sovereignty. Digital technologies and the Internet rewrite the geopolitical rules, eroding the territorial foundations of State sovereignty and promoting an economy’s de-territorialization that transcends national borders, ushering in an era of interconnected global markets elusive to definite localization.
Against this backdrop, new geometries of power and law emerge, where the virtual reality of the economy and the tangible reality of law intertwine, outlining a landscape where transnational dynamics redefine the relationship between State and market. Economic globalization challenges State supremacy, giving rise to an era of reversals: the market assumes a position of dominance over the State, redefining traditional hierarchies and marking a profound discontinuity between the national dimensions of law and the transnational dimensions of the economy.
In this fluid and dynamic context, transnational corporations emerge as new protagonists, shaping legal and economic spaces according to logics independent of State sovereignty. The transnational economic reality and national law coexist in constant tension, reflecting the complexity of a world where old certainties are questioned, and new forms of dominance and resistance emerge. In such a landscape, a new binary order of dominators and dominated manifests, a dichotomy reflecting the inherent inequalities of the globalization era, where technology and finance rewrite the rules of the game, relegating many to the margins of a system that privileges a few chosen ones.

 

 

 

 

Il trattato Del Sublime dello Pseudo-Longino

La retorica, arte liberale che “etterna” l’uomo

 

 

 

Il trattato Del Sublime dello Pseudo Longino (ignoto filologo dei primi decenni del 1° sec. d.C.), testo che naviga tra le acque profonde dell’estetica e della retorica, si erge come un faro per chi cerca di comprendere cosa realmente sollevi l’arte e il pensiero umano dall’ordinario al trascendente. Quest’opera, avvolta nel mistero della sua attribuzione, si dispiega come un antico rotolo, rivelando segreti sulla sublime arte della grande scrittura e dell’oratoria.
Il sublime di Longino non è confinato alle mere tecniche retoriche; è piuttosto un grido che risuona nella vastità del cuore umano, un invito a elevarsi sopra la piattezza della quotidianità. L’Autore esplora con ardore come il genio dell’uomo possa toccare il cielo, non solo tramite la grandezza del pensiero, ma anche con la potenza e l’impeto dell’espressione.
Attraverso esempi che spaziano da Omero a Platone, da Cicerone a Demostene, Longino illustra come il sublime possa scuotere l’anima, provocare stupore e ammirazione e lasciare un’impronta indelebile nella memoria dell’ascoltatore o del lettore. La grandezza, sostiene, risiede nella capacità di evocare il vasto e l’infinito, di far sì che chi ascolta si senta di fronte a qualcosa di significativamente maggiore di sé stesso.


Il trattato stesso è un esempio altissimo di questa teoria: è un tessuto di prosa filosofica e critica letteraria, intessuto di elevati pensieri che sfidano il tempo. La sua lingua, pur essendo un classico, non si arrende all’oblio, pulsando di una vita che ispira ancora chi scrive e chi parla con aspirazioni elevate.
Il trattato Del Sublime, quindi, è un inno alla grandezza umana, un manuale per coloro che aspirano a lasciare un segno indelebile nel mondo attraverso il potere della parola. È un’opera che non solo insegna, ma che tocca le corde dell’anima, invitando ogni lettore a superare i confini del pensabile e a raggiungere l’eterno.
Dodici secoli più tardi, Dante Alighieri avrebbe espresso un simile concetto nel canto XV dell’Inferno, allorquando, incontrando l’anima del suo amato maestro di retorica, Brunetto Latini, pronunciò queste parole:

ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora,
la cara e buona imagine paterna
di voi quando nel mondo ad ora ad ora
m’insegnavate come l’uom s’etterna.
(vv. 82-85).

 

 

 

Su “La Tempesta” di William Shakespeare

 

 

 

Nel profondo vortice di un mare furioso, dove l’ira di Nettuno si scaglia con rabbia sulle indifese navi, nasce l’incanto di “La Tempesta”, sublime creazione shakespeariana, che gioca tra i fili dell’arte magica e della profonda umanità. Quest’opera, ultima gemma nata dalla penna del Bardo, è, in realtà, un viaggio che trasporta l’anima oltre i confini del reale, in un’isola dove ogni sasso e ogni granello di sabbia consegnano mistero.
Il dramma si apre con una tempesta evocata dal mago Prospero, il quale, con il suo potente libro di incantesimi, scatena i venti e le onde per far naufragare una nave vicino alla sua isola. Questo naufragio non è solo un caso di cieca vendetta, ma una mossa calcolata per riportare nella sua vita coloro che lo avevano tradito, compreso suo fratello Antonio, che gli aveva usurpato il ducato di Milano.
Sull’isola, Prospero vive con sua figlia Miranda, cresciuta lontana dalla civiltà e ignara delle vicende che hanno portato all’esilio suo e del padre. Insieme a loro, vi è Calibano, un essere deforme e brutale, figlio della strega Sycorax, precedentemente signora dell’isola. Calibano serve Prospero, sebbene con rancore e malcontento, sognando di liberarsi dal suo controllo. Prospero usa il suo spirito servo, Ariel, per controllare gli eventi sulla nave naufragata e guidare i sopravvissuti sull’isola. Tra questi vi sono Ferdinando, il figlio del re di Napoli, e altri nobili come Gonzalo, il gentile consigliere che aveva aiutato Prospero e Miranda a fuggire anni prima. Mentre Ferdinando si separa dagli altri superstiti, incontra Miranda e i due si innamorano rapidamente, un’unione che Prospero desidera segretamente, ma che mette alla prova con ostacoli e impacci.
Nel frattempo, Calibano si allea con Stefano, il servo del re, e Trinculo, il buffone, in un comico ma fallimentare tentativo di rovesciare Prospero. Questi complotti secondari si intrecciano con la magia e le illusioni create da Prospero per redimere i suoi nemici, il quale, però, dopo aver orchestrato una serie di rivelazioni e pentimenti, decide di perdonare i suoi avversari, rivelando l’umanità e la saggezza acquisita durante gli anni di esilio. Restituisce Ferdinando a suo padre e rinuncia alla sua magia, manifestando il suo desiderio di lasciarsi+ alle spalle le manipolazioni e i trucchi per tornare alla vita normale a Milano.

“La Tempesta”, William Hamilton (1790 c.a.)

La tempesta che dà il titolo all’opera è l’inizio di una catena di riconciliazioni, un tumulto delle onde che rispecchia il trambusto dei cuori, portando i naufraghi verso una riva di perdono e rinascita. Antonio, Alonso e i loro complici affrontano il naufragio dei loro piani e delle loro anime, ritrovandosi faccia a faccia con i propri demoni, in un confronto che scuote le fondamenta del loro essere. Calibano, mostro e vittima, è la voce dell’isola stessa, selvaggio e indomito, figlio di una strega e di un diavolo, evoca un’empatia torbida e profonda, un richiamo alla libertà che rifiuta catene, anche quando queste sono forgiate dalle stelle. Ariel, spirito etereo e fedele servitore di Prospero, danza tra l’aria e il fuoco, un soffio di vento che compie i desideri del suo padrone con una grazia che sfiora la tristezza, la malinconia di chi sogna una libertà ancora lontana.
Shakespeare tesse una trama dove magia e realtà si intrecciano inestricabilmente, lasciando che il soprannaturale e l’umano si influenzino a vicenda, in un balletto di cause ed effetti. “La Tempesta” è un’opera di straordinaria profondità psicologica, che esplora temi di potere, controllo, libertà e il difficile percorso verso il perdono. In questo testo, Shakespeare sembra quasi dialogare con se stesso, riflettendo sul potere dell’arte e del teatro di evocare tempeste e di placarle, di creare mondi e di dissolverli, proprio come Prospero con la sua bacchetta magica. Alla fine, quando il mago rinuncia ai suoi poteri, assistiamo forse al commiato del drammaturgo dall’arte che tanto ha amato e plasmato. “La Tempesta” è, quindi, più di una semplice rappresentazione teatrale; è un inno al potere salvifico della narrazione, un richiamo poetico che risuona attraverso i secoli, sussurrando che anche nei nostri giorni turbolenti, il teatro e la letteratura possiedono la magica capacità di trasformare la più oscura tempesta dell’anima in una calma, luminosa alba.
L’opera si conclude con una celebrazione del potere riconciliatore del perdono e dell’amore. Nell’ultima scena, la figura di Prospero emerge in tutta la sua complessità umana e magica. Egli si rivolge direttamente al pubblico, in un rompere della quarta parete che è tanto un atto di magia quanto uno di umiltà. Con un discorso che sovrappone speranza e malinconia, Prospero chiede di essere liberato dal peso dei suoi poteri magici e dall’isolamento dell’isola attraverso l’applauso del pubblico, un gesto che simboleggia il perdono e l’accettazione collettiva. “La Tempesta”, in questo epilogo, si rivela non solo come un’opera di intrattenimento ma anche come un profondo esame della natura umana e del suo potenziale di cambiamento e rinnovamento. Shakespeare, con maestria ineguagliabile, collega i temi del potere e della giustizia con quelli della redenzione e del riscatto personale. Il drammaturgo esplora come il potere possa essere usato sia per dominare che per liberare, e come alla fine, il più grande atto di potere possa essere il perdono. In quest’opera, il teatro stesso diventa uno strumento di magia e di guarigione. Shakespeare usa il palcoscenico per creare un luogo dove le tempeste dell’anima possono essere quietate e i legami spezzati possono essere rinnovati. L’arte del teatro è mostrata come un mezzo per esplorare e alla fine pacificare i conflitti interni e esterni, offrendo al pubblico non solo una fuga dalla realtà, ma anche una via per comprendere meglio se stessi e il mondo.
“La Tempesta” si conclude, quindi, con un inno alla possibilità di trasformazione e di rinnovamento che risiede in ognuno di noi. L’appello finale di Prospero per un applauso che lo liberi diventa un simbolo potente della capacità dell’arte di connettere, curare ed elevare lo spirito umano. In questo modo, l’opera di Shakespeare rimane un testamento luminoso della sua capacità di fondere temi profondi con un intrattenimento vivace e coinvolgente, unendo il pubblico in una riflessione comune su potere, giustizia e la redenzione umana attraverso l’immortale arte del teatro.

 

 

 

Dante, Beatrice e… me!

 

 

Quanto riportato di seguito è soltanto un infinitesimo aspetto della maestà poetica di Dante Alighieri e della sua opera (tratto dalla mia “La Letteratura Italiana. Dalle origini al primo Novecento”, capitolo “Dante Alighieri”):

Ci pensò proprio Dante a prendersi la rivincita, per sé stesso e per tutti i poeti amanti non corrisposti (me compreso!). Leggete questi versi:

I’ son Beatrice che ti faccio andare;
vegno del loco ove tornar disio;
amor mi mosse, che mi fa parlare.

Quando sarò dinanzi al segnor mio,
di te mi loderò sovente a lui.

(Inf., canto II, vv. 70-74)

Ci troviamo nel II canto dell’Inferno. È il tramonto. Superata la selva oscura e le tre fiere, il poeta è immobile, impaurito e ormai deciso a non intraprendere più il viaggio nell’aldilà, nonostante la presenza rassicurante di Virgilio, sua guida. A quel punto, l’autore dell’Eneide gli riferisce di non temere, poiché la sua salvezza sta a cuore a tre donne, la Madonna, Santa Lucia e, sì, proprio a lei, Beatrice: “Una donna beata e bella, con gli occhi più lucenti di una stella, si è rivolta a me, con voce soave e angelica, chiedendomi di soccorrerti, perché ella, dopo aver udito che ti eri smarrito, è arrivata troppo tardi. “Anima gentile e onesta – mi ha pregato – ti imploro di aiutarlo, affinché io ne abbia consolazione. Io sono Beatrice ed è per amore che te lo chiedo” (amor mi mosse, che mi fa parlare). La donna, infatti, dal Paradiso, era scesa nel Limbo, dove dimorava l’anima di Virgilio, per esortarlo a proteggere e seguire colui il quale, io, qui e adesso, secondo quanto riferiscono i suoi meravigliosi versi, posso finalmente definire il suo amato!!! Dopo essere stata celebrata lungo tutta la sua breve vita e molto oltre, seppure andata in sposa a un altro uomo, alla fine, Beatrice ricambia l’amore di Dante. Dante ce l’ha fatta! Vi giuro che, scrivendo questi ultimi righi, non sono riuscito a trattenere la commozione!  È una mia opinione, ma mi piace ritenere che tutto, proprio tutto lo slancio spirituale dal quale è nata la Divina Commedia, sia contenuto in questi cinque versi del canto II dell’Inferno, pronunciati da Beatrice.

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John William Waterhouse, “L’incontro di Dante con Beatrice”, 1915

C’è poco da fare. È stato il più grande di tutti. Al di là di quanto abbiate potuto conoscere di lui e delle sue opere sfogliando le pagine, a lui dedicate, in questo libro, vi consiglio di andare a prenderli i suoi libri e di leggerli voi stessi. Ho sempre pensato che la migliore storia della letteratura sia quella che ognuno di noi si “fa” da solo, semplicemente leggendone e meditandone le opere, senza la mediazione e i filtri interpretativi di quanti, seppure con competenza, esplicano i contenuti di ciò che è stato scritto da altri. Cominciate proprio con Dante. In fondo, sarebbe un bel modo per essergli grati, per esprimere riconoscenza a quella mente eccelsa, instillata in un uomo di mediocre statura, d’onestissimi panni sempre vestito, col volto lungo, il naso aquilino e gli occhi grossi, le mascelle grandi e dal labbro di sotto era quel di sopra avanzato, i capelli e la barba spessi, neri e crespi e sempre nella faccia malinconico e pensoso(Giovanni Boccaccio, Trattatelo in laude di Dante, XX), che io immagino ancora passeggiare lungo l’Arno e per i suoi ponti, nell’amata Firenze, immerso nei propri pensieri, tutti per Beatrice e per i versi che, di lì a poco, le avrebbe composto, solo, nella sua piccola stanza, attraverso il cui lucernario, ogni notte, rivolgendo lo sguardo sognante e incantato verso il cielo, avrebbe, poi, scorta, meravigliosa, risplendere tra le stelle.

 

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Henry Holiday, “Dante e Beatrice”, 1884

 

 

State, sovereignty, law and economics
in the era of globalization

 

 

Taken from my lectures as a Teachinig Fellow in International Law at Università degli Studi “Link”, these reflections highlight how State sovereignty and International Law are profoundly influenced by globalization, economic integration and digital technologies, raising fundamental questions about global governance, State autonomy and the adaptation of legal structures to new economic and technological realities.

 

Part II

International Law and economics

 

 

The periodic transformation of Private International Law invariably prompts questions regarding the existence of a public international organization endowed with the authority to promulgate regulations and ensure their adherence and implementation. The safeguarding of interests that transcend those of individual States was addressed through the establishment of the League of Nations and subsequently the United Nations. These entities mandated States to relinquish their right to engage in war and to uphold the fundamental rights delineated in the 1948 Universal Declaration of Human Rights. The concept of sovereign power as a market regulator diminished and ultimately vanished with the emergence of the European Community, which redefined national States from absolute sovereigns to associative sovereigns, thereby rendering the notion of sovereignty fluid and incompatible with rigid definitions.
The ascendancy of the concept of “supranationality” signifies a departure from the traditional notion of sovereignty, the decline of the conventional State model, and a redefinition of power, which is no longer confined to the territory under the sovereignty of individual States. By ceding portions of their power to supranational bodies and institutions, national States adopt a supplementary role, becoming components of a system characterized by layered sovereignties and integral to a global interaction framework where sovereignty is systematically dispersed and subject to the compelled abdication of increasing segments of authority.
Globalization is typified by the progressive self-regulation of the economy, asserting its independence from the State, which assumes an increasingly peripheral role. National sovereignty wanes as economic and social interactions become de-territorialized, accentuating the importance of transnational economic regulation and the centralization of global political decision-making. The market, evolving into an independent legal regime along with the lex mercatoria, reshapes global economic regulations, underscoring the adaptability and flexibility of transnational economic law.
Transnational corporations, unshackled from territorial constraints, represent a novel form of global sovereignty, orchestrating their operations according to the demands of the global market without specific allegiance to any State. This evolution signifies a pivotal shift in the State’s role in favour of market dynamics propelled by transnational enterprises, which emerge as central pillars of the global economy, influencing economies and markets through their investment decisions.
Within the European Union, the interplay between interdependence and the collision of sovereignties is especially salient, given its distinctive historical, cultural, and institutional attributes. European integration epitomizes a vital model for global cooperation. Nonetheless, the global financial crisis, epitomized by the sovereign debt and financial institutions crisis in Europe that commenced in 2008, has significantly impacted this integration process. Economic adversities may foster divergent dynamics: they may necessitate expanded collaboration, yet simultaneously encourage trends towards protectionism, hostility, and the resurgence of nationalism and populism. However, not all conflicts or procedural delays within international or supranational decision-making frameworks yield negative outcomes. In certain instances, the mutual dependency between States and communal entities may even intensify. The Economic and Monetary Union, for example, rests on four principal strategic pillars for the future: 1) harmonization of financial and banking oversight systems; 2) implementation of coordinated or unified strategies for taxation, joint budget management, and public debt mutualization; 3) centralization of directives for economic policy and national structural reforms; 4) introduction of new frameworks and structures to enhance the democratic legitimacy of EU and Eurozone central authorities. Nevertheless, the path toward European integration can be fraught with conflicts, where central powers, although legitimized and shaped by the national interests of dominant nations, tend to constrain national sovereignties, with various implications for community identity. At times, the integration process may appear uncertain, hesitant, and at times inefficient, influenced also by actors representing specific interests, potentially in conflict with collective ones. The ideal objective would be to channel sovereign tensions into a catalyst for augmented cooperation.

 

 

 

 

In memoria di Martin Luther King Jr.
nell’anniversario della morte (1968-2024)

 

 

 

Martin Luther King Jr., profeta della nonviolenza e architetto del sogno americano di eguaglianza e giustizia per tutti. Nato in un’era di segregazione, la sua voce si elevò al di sopra del clamore dell’ingiustizia, cantando una melodia di fratellanza che ancora risuona nelle coscienze di coloro che aspirano alla libertà. Con la sua saggezza, eloquenza e impegno incrollabili, ha tracciato il percorso per un futuro dove “i figli di un tempo schiavi e i figli di un tempo proprietari di schiavi saranno in grado di sedersi insieme al tavolo della fratellanza”.
Attraverso la sua leadership nel movimento per i diritti civili, ha dimostrato che il coraggio morale unito alla nonviolenza può cambiare il corso della storia, abbattendo le barriere dell’odio e costruendo ponti verso l’amore e la comprensione. Ogni marcia che ha guidato, ogni discorso che ha pronunciato, ogni lettera che ha scritto dal carcere, erano faro di speranza per milioni, illuminando l’oscurità dell’oppressione e guidando gli Stati Uniti fuori dalle lunghe ombre del razzismo.
“Mi sono arrampicato sulla montagna – disse – e da quella vetta ho intravisto una terra promessa dove la giustizia scorre come un fiume e la rettitudine come un ruscello inesauribile”. Anche se non è entrato con noi in quella terra, il cammino che ha segnato continua a guidarci nella lotta per realizzare il sogno di una comunità globale dove la pace e la giustizia regnino sovrane.
La sua vita è stata spezzata troppo presto, ma il suo spirito e le sue idee vivono, sfidando ogni nuova generazione a prendere il testimone e a portare avanti la marcia per la libertà e l’uguaglianza. La sua eredità non è solo nella memoria di ciò che ha fatto per il suo Paese, ma nel cuore di tutti coloro che continuano a sognare un mondo migliore. Il suo sogno vive. Il suo lavoro continua. La sua speranza rimane immortale nella lotta per la dignità e l’umanità di ogni persona.

 

 

State, sovereignty, law and economics
in the era of globalization

 

 

Taken from my lectures as a Teachinig Fellow in International Law at Università degli Studi “Link”, these reflections highlight how State sovereignty and International Law are profoundly influenced by globalization, economic integration and digital technologies, raising fundamental questions about global governance, State autonomy and the adaptation of legal structures to new economic and technological realities.

 

Part I

The role played by States within the international community

 

In the tapestry of the international arena, the dual concept of “sovereignty and independence” emerges as a foundational dyad, defining the essence and the prerogatives that are inherent to the identity of modern States. These attributes have persisted with remarkable consistency across the centuries, asserting themselves with renewed vigor in the current era of globalization.
From the inception of institutionalized international law with the Peace of Westphalia in 1648, each State is recognized as sovereign – acknowledged as supreme and unanswerable to any superior authority – and is endowed with the exclusive jurisdiction over its territory, embodying the principle of non-interference in domestic affairs by other States. Within this framework, the individual is subsumed under the State, considered part of its sovereign domain.
The legal scaffolding of sovereignty in international law highlights the State’s inalienable right over its territory, establishing a singular authority over its inhabitants. This authority encompasses the exclusive right to govern and the capacity to enforce its will through coercive means if necessary, precluding any external encroachments on its autonomy.
Sovereignty, thus, is a principle that delineates identity and difference, straddling the realms of the transcendental and the empirical. It encapsulates the State’s autonomy, its inherent capacity to govern free from external subjugation, and positions the State as both subject and object within the domain of cognizance.
The essence of sovereignty is encapsulated in the ius imperii, the fundamental authority to command and govern, an authority that originates from the State itself and does not owe its legitimacy to any higher power. This original power establishes the geographical bounds of sovereignty, contained within the territorial limits where the State’s authority is exercised.
This construct of sovereignty fosters a relationship of coordination among States, a dynamic interplay replacing the hierarchical notions of subordination and superordination, reflecting a polycentric legal universe where the sovereignty of one State is balanced against that of another.
The evolution of the nation-State is rooted in the principle of sovereignty, an originality that confers upon States the legitimacy to wield authoritative powers independently. This sovereignty is manifested both internally, as the supreme authority over all domiciled entities, and externally, marking the state’s equal standing among its international peers.
The emergence of international and supranational entities has nuanced the concept of sovereignty, catalyzing a redefinition of State powers and their domains of influence. This recalibration acknowledges that certain communal interests are better served beyond the confines of national boundaries.
The acknowledgment and respect for State sovereignty remain pivotal in the ethos of the international community. The principle of effectiveness underscores the State’s presence and authority within the international milieu, predicated on its tangible establishment and dissolution.
The contemporary discourse on sovereignty navigates the tensions between the vertical legitimacy and horizontal legality, reflecting on Hegel’s dialectic of the universal and the particular. This interplay underscores the dual nature of sovereignty as both a transcendental order and a contractual horizontal pact among equals.
The narrative of sovereignty and its evolution reflects a dynamic shift towards recognizing the importance of a public international organization capable of legislating and enforcing global norms. This shift, exemplified by the establishment of the League of Nations and the UN, marks a transition from the traditional paradigms of sovereign power towards a more integrated and cooperative international order.
In conclusion, the dialogue on sovereignty and its transformation in the context of globalization and supranational governance underscores the intricate balance between maintaining State autonomy and embracing the collective governance of shared global challenges. This ongoing evolution reflects the adaptive nature of sovereignty in the face of changing international dynamics, heralding new forms of governance that navigate between the traditional sovereign State and emerging global governance structures.

 

 

 

 

 

Denique caelesti sumus omnes semine oriundi

 

 

 

Complice una pasquetta uggiosa, questo pomeriggio ho ripreso un’opera la quale, già poco più che adolescente, mi aveva colpito moltissimo, anche grazie a un verso contenuto in essa: “Denique caelesti sumus omnes semine oriundi” (Siamo tutti generati da un seme celeste): il “De Rerum Natura” di Lucrezio, che si dispiega come un canto sospeso tra la ricerca della verità e l’abbraccio del mistero cosmico. Attraverso la profondità dell’essere e l’immensità dell’universo, Lucrezio intesse una trama di riflessioni sull’eternità della materia, sul moto perpetuo degli atomi e sulle forze invisibili che regolano la vita e la morte. Emerge un inno alla natura, veduta non come un dominio da temere o da supplicare, ma come una realtà da comprendere con la guida serena della ragione. In versi che oscillano tra il rigore scientifico e l’elevazione lirica, il poeta-filosofo invita a liberarsi delle catene dell’animo umano: la paura degli dèi e il terrore della morte. Nel tessuto della sua opera Lucrezio offre una visione liberatrice, dove il sapere diventa faro che illumina il cammino verso la pace interiore. Il “De Rerum Natura” è un capolavoro di sorprendente attualità, un appello alla razionalità e alla bellezza dell’indagine scientifica, intrecciato con una profonda riflessione sull’esistenza. È una esortazione a contemplare l’universo con meraviglia e rispetto, riconoscendo nell’armonia delle leggi naturali l’eco di una poesia senza tempo. Denique caelesti sumus omnes semine oriundi

 

 

 

 

 

 

Per una interpretazione poetica della pittura impressionista

 

di

Riccardo Piroddi

 

 

La poesia, come l’arte figurativa, deve essere interpretabile, deve stimolare sensazioni, emozioni, ricordi, attraverso le parole. Essa è nell’aria, è dentro di noi, è intorno a noi. La poesia libera l’animo e riesce ad esprimerlo, poi, in parole. L’istinto poetico dell’uomo si perde nella notte dei tempi, per alienarsi e ricomporsi in frammentarie bramosie liriche. La poesia svela l’impulso ancestrale, dominato dal sentimento, che diffonde misteri in ogni verso. La poesia diviene schizzo d’immenso e non concede all’autore, né al lettore, autorevoli o ragionevoli garanzie estetiche. La sua potenza, spesso inespressa, deve essere amata coi sensi e carezzata con gli occhi, affinché ci parli.

Claude Monet, “I papaveri” (1873) Parigi, Musée d’Orsay

La poesia dell’arte impressionista diventa soggettiva rappresentazione della realtà. Essa, infatti, evita qualsiasi costruzione ideale, per occuparsi soltanto dei “phoenomena”, quali essi “appaiono” nell’ispirazione artistica. Non c’è, nella pittura impressionista, alcuna evasione verso mondi idilliaci o esotici, quanto piuttosto, la volontà di calarsi interamente nella concretezza estetico-sentimentale che la anima, che l’assedia, evidenziandone le caratteristiche che la compongono. Il soggetto artistico, inanimato o animato, trasborda sulle tele, direttamente dagli occhi e dal cuore del pittore. Il linguaggio pittorico degli impressionisti, ricercato ma sempre poetico, con variegate tonalità, si alimenta, soprattutto, dell’uso del colore e della luce.

Édouard Manet, “Colazione sull’erba” (1862-1863), Parigi, Musée d’Orsay

Luci e colori costituiscono gli elementi fondanti della visione artistica impressionista. Ciò consente allo spettatore, inizialmente, di percepirli e, poi, pian piano, attraverso l’elaborazione concettuale, di distinguere le forme e gli spazi, in cui gli impressionisti li trasfondono e li trasfigurano. Questi “distinguo” costituiscono il riflesso degli “oggetti”, ritratti dagli artisti. La pittura impressionista si nutre principalmente di luce, perché nasce “en plein air”, all’aperto. Non rappresenta il frutto di un chiuso atelier di osservazione e di ispirazione, quanto piuttosto un paesaggio dell’anima, in cui germoglia l’artista. Esso coglie tutti gli effetti luministici che la visione diretta gli fornisce. Le sue pennellate diventano, di conseguenza, estremamente mutevoli, come mutevoli sono i colori e la luce dei paesaggi.

Paul Cézanne, “La casa dell’impiccato” (1873), Parigi, Musée d’Orsay

Questa sensazione di mutevolezza rappresenta la caratteristica più significativa del “modus pingendi” impressionista, che si caratterizza come la pittura dell’attimo fuggente, senza un prima, senza un dopo, in quanto coglie l’assoluto nella realtà, attraverso impressioni istantanee. La realtà, infatti, muta continuamente di aspetto. La luce varia ad ogni istante. Gli oggetti e le cose fluttuano. Si muovono nell’eremo della dimensione interiore dell’artista. Il momento sintetizza la sensazione e la sorprende in una particolare inquadratura, come fosse una fotografia d’autore. 

Pierre-Auguste Renoir, “Le Pont-Neuf” (1872), Washington, National Gallery of Art

La pittura impressionista cattura, anche in poche pennellate, le emozioni dell’artista, contrapponendole in immagini contrastanti, che sfuggono al tempo e al luogo, a fugaci e vivide impressioni, in una sintesi che scoperchia gli strati profondi dell’animo, provocando, così, sensazioni di realismo, di naturalezza, di complicità, ma, al tempo stesso, anche di distaccata e indifferente leggerezza. Lo spettatore, in tal modo, fa ricorso alla sensazione e all’identificazione con le impressioni suggerite. E oblia la ragione! Si libera, adunque, delle sovrastrutture della mente, dei concetti inutili e superflui, i quali si affollano intorno ad una veduta, ad una esperienza. Lo spettatore coglie, così, l’essenza di una visione, la sostanza di un’esperienza, il nucleo di un’emozione.

Edgar Degas, “Cavalli da corsa davanti alle tribune” (1866-1868), Parigi, Musée d’Orsay