Se solo non percepissi lo scorrere del tempo attraverso ogni fibra del mio corpo, ogni muscolo, ogni nervo, ogni ganglio. Se solo non avessi stupidamente pensato che certe cose sarebbero rimaste le stesse giorno dopo giorno. Identiche e inalterate. Invece, malgrado i miei tentativi titanici di contrastare la forza di gravità, le cose sono cambiate comunque. Ogni tanto riguardo con tenerezza agli anni in cui facevo amicizia con certe emozioni, certi tumulti. Cadevo e imparavo. Urlavo e imparavo. Fervevo e imparavo. Ed ora so che è questa la più grande disgrazia che accade all’uomo. L’uomo impara. Come diceva anche Alanis Morissette nella sua epica “You Learn”. Egli sanguina e impara. Si strugge e impara. E dopo? Be’, ecco, dopo invecchia. E allora ogni tanto mi chiedo, fermo sui giorni in cui ero felice come non lo sarei stato mai più, a cosa è servito? La tragedia dell’uomo è tutta qui. Se è felice muore, se impara muore.
Cambiare. Posizione, angolazioni, prospettiva, geografie (psichiche, materiali, emotive, etiche). Cambiare e ricostruire. Partire dal basso. Un battiscopa, poi uno stipite, una maniglia, poi l’impianto elettrico, la caldaia, le prese, gli interruttori. Fino al soffitto, fino al lucernaio, al tetto. Stuccare, scartavetrare, raschiare, passare la vernice, sgrassare i vetri, spazzar via i calcinacci per poi infilare le cose. I dvd, i cd, i dischi, i libri, un divano e la tv, la lavatrice e gli armadi. Segmentando l’ambiente, suddividendolo, ricalcolandolo. Imparando cosa va nel vuoto, cosa no. Soppesare. Interpretare un angolo, misurare lo spazio aereo tra una tela e una mensola. Annaffiare le pansé. Qui un tavolino di plexiglas lì una scultura astratta, qui la ragione lì gli imprevisti. Cambiare coordinate, definizioni, risposte, domande. Cambiare.
Gerolamo Folengo, col cui pseudonimo più noto, Merlin Cocai, era chiamato un locale notturno a Massa Lubrense, dove andavo con gli amici a bere i miei doppi Bourbon & Ginger Ale, detti anche Scotch&American, nacque a Cipada, in provincia di Mantova, l’8 Novembre 1491, in una famiglia di nobili, i quali, però, erano finiti in cattive acque. Ottavo di nove figli, fu mandato dal padre in convento dove avrebbe potuto studiare e sfamarsi alquanto adeguatamente, vista la penuria di mezzi familiare. Quando vestì l’abito di monaco benedettino, dunque, cambiò il nome in Teofilo. Il diavolo tentatore, però, era sempre in agguato, acquattato tra le pieghe della gonna di una nobildonna, Girolama Dieda, per la quale buttò via la tonaca e con la quale vagò per tutto il Nord Italia, vivendo di stenti, fino a quando entrò al servizio del condottiero Camillo Orsini, a Roma. Decise, poi, di rientrare in convento e gli fu comminato un periodo di penitenza ed espiazione, che trascorse al Monte Conero ad Ancona e nei pressi proprio di Massa Lubrense, il mio paese nativo, all’eremo di San Pietro a Crapolla. Così, fu riammesso nell’ordine e mandato in Sicilia. Morì a Bassano del Grappa il 9 dicembre 1544.
Le opere
Folengo scrisse diverse opere, che fece poi confluire in un unico capolavoro, al quale lavorò tutta la vita ed ebbe quattro edizioni diverse: l’Opus macaronicum. In ogni modo, ciascuna parte di questo corpo può essere comunque trattata singolarmente. La prima di queste è l’Orlandino, che pubblicò con lo pseudonimo di Limerno Pitocco, ovvero, Merlino il miserabile. Poemetto di otto canti in ottave, racconta l’infanzia del famoso paladino Orlando: figlio di Milone e Berta, sorella di Carlo Magno, sposati in segreto e, per questo, costretti a fuggire, fu partorito dalla madre in un’umile capanna e visse i primi anni della sua vita in campagna, tra ai contadini. Il Caos Triperuno, invece, è una vera e propria insalata di maccheroni. I tre personaggi, Limerno, Fulica e Merlino (tutti e tre sono l’Autore stesso), parlano, rispettivamente, in latino, in volgare e in maccheronico. Quest’ultimo, è un linguaggio artificiale, costituito da un lessico in parte dialettale, in parte latino. Chissà, dunque, cosa si capisce! Tutto si svolge attraverso tre selve: nella prima, Triperuno conversa della nascita dell’uomo e della conoscenza umana. Nella seconda, il discorso va a finire sulla pericolosità del mondo sensibile, quando Triperuno si perde ma, ritrovata la via, attraversa i regni di Carossa, Matotta e Perissa, che stanno a significare tre modi di fare degli ecclesiastici e cioè, la crapula, la superfluità e la vanità. Nella terza selva, Triperuno incontra nientemeno che Gesù Cristo in persona o, meglio, in spirito, gli dona il cuore e gli dice: “Sono nelle tue mani, non farmi fare una brutta fine!”.
Il Baldus
Venticinque capitoloni in esametri, lungo i quali Merlin Cocai, alias Folengo, racconta le imprese di Baldus e della sua sgangherata banda di delinquenti.
Phantasia mihi plus quam phantastica venit
historiam Baldi grassis cantare Camoenis.
Altisonam cuius phamam, nomenque gaiardum
terra tremat, baratrumque metu sibi cagat adossum.
Sed prius altorium vestrum chiamare bisognat,
o macaroneam Musae quae funditis artem.
An poterit passare maris mea gundola scoios,
quam recomandatam non vester aiuttus habebit? […]
Credite, quod giuro, neque solam dire bosiam
possem, per quantos abscondit terra tesoros:
illic ad bassum currunt cava flumina brodae,
quae lagum suppae generant, pelagumque guacetti.
Hic de materia tortarum mille videntur
ire redire rates, barchae, grippique ladini,
in quibus exercent lazzos et retia Musae,
retia salsizzis, vitulique cusita busecchis,
piscantes gnoccos, fritolas, gialdasque tomaclas.
Res tamen obscura est, quando lagus ille travaiat,
turbatisque undis coeli solaria bagnat.
(Mi è venuta la fantasia – proprio una bella fantasia – di raccontare la storia di Baldo con le mie grasse Camene. La sua fama risonante, il suo nome gagliardo fa venire ancora la tremarella alla terra e la voragine infernale, nella sua nera paura, si caga sotto. Ma per prima cosa, bisogna invocare il vostro aiuto, o Muse che spandete la bell’arte macaronica. Potrebbe la mia gondola strigarsi dagli scogli di questo mare, se il vostro favore non l’accompagnasse? […] Credetemi, non sono stupidaggini, ve lo giuro: e poi una bugia, nemmeno una sola, non la direi per tutto l’oro del mondo. Verso il basso corrono giù cavi fiumi di brodo saporitissimo che poi vanno a finire in un lago di zuppa, in un mare di stracottini. E qui passano e spassano barche, barbotte, brigantini agevoli e snelli, a migliaia, tutti di torta: e sopra ci stanno le mie Muse e gettano lacci e reti – reti cucite con budella di maiale e con busecche di vitello – e pescano gnocchi, frittole e tomacelle gialle. Ma è un grosso guaio quando quel lago va in agitazione e con le onde bagna le soffitte del cielo).
Baldovina, la figlia di Carlo Magno, ama alla follia Guidone di Montalbano, ma il babbo non vuole. I due amanti, allora, decidono di scappare da Parigi e si rifugiano a Cipada, il paesello di Folengo dove, nella capanna del contadino Berto Panada, succede il fattaccio e dopo nove mesi nasce Baldus. Guidone, però, poco dopo abbandona Berta e quella muore per il dispiacere. Rimasto solo con Berto, Baldus si unisce ai monellacci del paese e, insieme a questi, va combinando guai dappertutto. Crescendo, il nostro eroe diventa il capo di una ben assortita gang di farabutti, che mettono a ferro e fuoco le campagne mantovane, tra cui spiccano Cingar, il gigante Fracasso e Falchetto, metà uomo e metà cane. Chi Baldus finisce presto nei guai. Durante la festa di calendimaggio, dopo aver battuto tutti nei giochi popolari, viene provocato, ammazza un nobile con una grossa pietra e scappa. È inseguito dalle guardie. Ne uccide una e si rifugia in una casa. Gli sbirri riescono a legarlo, ma viene liberato dal compare Sordello. Passano gli anni, prende in moglie una contadinotta, Berta, vive senza lavorare approfittandosene di Zambello, il figlio di Berto Panada. Zambello un giorno si ribella, rivolgendosi a Tognazzo, un villano proprietario di terre e podestà di Cipada. Questi, nemico giurato delle teste calde del paese, prende al volo l’occasione e mette in piedi un piano per fregare Baldus. Il giovane è invitato a presentarsi al Palazzo comunale, per assumere il comando di un esercito contro i lanzichenecchi. Qui, dopo una feroce rissa, è sopraffatto dalla folla e messo in galera. Cingar, riesce a liberarlo e la banda decide di cambiare un po’ aria col solito viaggio iniziatico – ricerca della propria anima o giù di lì, attraverso luoghi magici, popoli stranissimi, abissi, isole del tesoro, streghe, grotte profondissime, mostri, esseri indecifrabili, e non vi dico tutto il resto. Arrivano perfino all’Inferno e, nell’Antro della Fantasia, Baldus e i compari impazziscono e si trovano davanti ad una grossa zucca, secca e vuota, dentro la quale, vivono astrologi, poeti e cantanti, a cui tremila satanassi, travestiti da barbieri, tirano tutti i denti, uno per uno, ma questi, puntualmente, ricrescono. Colà vive anche l’autore, il quale, stanco di quelle torture, decide di far continuare, a chi vorrà, il racconto delle avventure di Baldus e della sua banda.
Ergo sorellarum, o Grugna, suprema mearum, si nescis, opus est hic me remanere poëtam: non mihi conveniens minus est habitatio zucchae, quam qui Greghettum quendam praeponit Achillem forzibus Hectoris; quam qui alti pectora Turni spezzat per dominum Aeneam, quem carmine laudat «Moenia mentum mitra crinemque madentem». Zucca mihi patria est; opus est hic perdere dentes tot quot in immenso posui mendacia libro. Balde, vale, studio alterius te denique lasso, cui mea forte dabit tantum Predala favorem ut te Luciferi ruinantem regna tyranni dicat et ad mundum san salvum denique tornet. Tange peroptatum, navis stracchissima, portum, tange, quod ammisi, longinqua per aequora remos! He heu, quid volui, misero mihi? perditus, Austrum floribus et liquidis immisi fontibus apros!
(Perciò, o Grugna, ultima delle mie Muse, se non lo sai, io poeta devo rimanere qui: la dimora della zucca non è meno adatta a me che a colui che antepone un grecuccio come Achille alla forza di Ettore; a colui che fa spezzare da un Enea il petto del grande Turno, che in quel suo verso glorifica “avvolto il mento e la chioma profumata in un copricapo orientale da donna”. La zucca è la mia patria; è necessario qui perdere i denti, tanti quante sono le bugie che ho messo nel libro lunghissimo. Baldo, ti saluto e ti lascio finalmente al lavoro di qualche altro, cui forse la mia Pedrala darà tanto aiuto per dire di te che distruggi i regni del tiranno Lucifero e per farti tornare al mondo sano e salvo. Entra nel porto desiderato, o nave stanchissima! Entra perché nei lunghi viaggi per mare ho perso i remi. Ahi! Che cosa ho voluto tentare, povero me? Folle, ho messo l’Austro tra i fiori e i cinghiali nelle fonti pulite!).
Questa è la lingua del Baldus, questo è il famoso maccheronico.
Gli anni in cui ci siamo ribellati e abbiamo sbattuto le porte. In cui abbiamo detto “no” a nostro padre, a nostra madre, ai nostri professori, al potere costituito, alla polizia. Gli anni in cui abbiamo creduto in qualcosa. Qualcosa di così grande e totale da sembrarci il futuro.
Non esiste una patente per navigare nelle acque social. Ciascuno utilizza Facebook come crede. Chi come una lavagna, chi come un muro (urbano), peraltro già grandemente imbrattato, chi come un diario intimo, chi come uno spazio epistolare (perdonate l’obsolescenza dell’esempio, ma tant’è). Non vi sono guide, né regole (a parte il comune senso del pudore, anch’esso però ampiamente adeguato ai tempi stilisticamente pornografici in cui sguazziamo, o affoghiamo, dipende). Non c’è un dogma, né ci sono paradigmi. Ognuno diffonde ed espande il proprio misero egotismo, reiterando e inglobando senza soluzione di continuità le altrui esistenze, le altrui ore, gli altrui minuti. Agglutinando e impastando il proprio mondo a quello degli altri (che siano sconosciuti oppure no), in un unico lavico amalgama senza scopo. McLuhan diceva che il medium è il messaggio. Secondo altre menti illuminate (e più aggiornate), il mezzo è il mezzo, il messaggio è scomparso, non c’è più. Resta una vuota tautologia di noi stessi. Macabra. Tetra. Sinistra. Accettato questo ci si può annoiare, alla lunga, in santa pace.
Spesso mi rimiro in un cortiletto schiuso una panca di ferro battuto la fontanella col muschio tutt’attorno che non dà acqua da anni quel tubo di gomma torto su se stesso in disuso a un angolo e il cedro scarnato tra una rovina di foglie due cicale spossate in un bianco e nero che cresce ed indulge ed è un po’ come questo mio corpo stanco il cigolio che fa un gatto ora che spiove e la sera mi saluta da lontano.
Quando sarò vecchio e mi chiederanno cos’ho amato di questa vita, di questo mondo, ebbene io risponderò: gli anni settanta coi loro alberi smaglianti, il cappottino blu, Villa Ada e i Lego; gli anni ottanta col gel, Luigi, Madonna, le Lido Blue, e la Cesare Piva; gli anni novanta, coi poeti del novecento italiano, La Sapienza, Non è la Rai, l’house music, il Piper, Claudio. Poi? Mi chiederanno. Poi non lo so, risponderò. Poi non aveva più importanza.
Amare la letteratura, amare i libri, promuoverne la diffusione, la crescita e la lettura. Questo è ciò che spinge quelli che – spesso rimettendoci in proprio – organizzano eventi che hanno come oggetto i libri: le famose presentazioni. Su queste potrei cominciare a scriverne oggi e finire l’anno prossimo. Agosto e settembre sono i mesi deputati alle presentazioni, le organizzano tutti: gli alberghi, gli stabilimenti balneari, i circoli Rotari e del Tennis, le aziende di cura, soggiorno e turismo. Insomma, le presentazioni di libri estive sembrano come le medicine prescritte dal medico: necessarie. Così è tutto un cicaleggiare frivolo o pseudo tale di gente che ruota intorno a personaggi che, personalmente, con molta fatica riesco a definire autori, non faccio citazioni per correttezza, però, ne specifico meglio la provenienza: l’anchorman o l’anchorwoman, il politico in disgrazia, quello resuscitato o in auge, la stellina di cinema, il giornalista di Tg. ecc. ecc. Oggi tutta questa gente si fregia di scrivere. Scrivere un libro, soprattutto se si è un politico, fa status, che, poi, non lo legga nessuno, questo non importa. Serve a darsi una allure di cultura cosiddetta alta. Così, si presenta di tutto a gente che a stento legge il quotidiano e che frequenta queste manifestazioni solo per trito e banale presenzialismo. Così, si va agli incontri per dire di esserci stati ma, in realtà, nessuno legge niente: ho visto gente che alla fine degli incontri si defila dal tavolo dove sono impilati i libri, per paura di doverne comprare una copia, preferendo più spesso il buffet. Siamo il paese dove si legge di meno e si scrive di più. Non voglio polemizzare, o forse si, lo voglio anche, ma devo dire che questi eventi e chi li organizza in questo modo, sono così lontani dalla letteratura e dalla promozione della lettura quanto una pulsar lo è dal nostro pianeta. Il più delle volte, si presentano libri inutili, di gente a cui della scrittura non importa proprio niente, magari se li sono fatti scrivere da abili ghost writer; eventi spesso organizzati da gente che a stento legge un libro all’anno, insomma, delle inutili manifestazioni, fatte tanto per dire che si fa cultura. Ho lavorato per vent’anni circa in un settore della Regione Campania che si chiamava Musei e biblioteche, un settore che doveva promuovere il libro, la cultura del libro e l’amore per le biblioteche, insieme al mio lavoro di docente universitario. Ora sono in pensione e mi impegno per condividere i miei amori di sempre con persone che amano condividerli. Spendo cifre consistenti per il mio bilancio per acquistare libri: letteratura, saggistica, arte. Il momento più magico di questa esperienza oltre all’aprire il libro e finire in un mondo che mi sta offrendo un altro da me è, però, quando discuto con qualcun altro delle cose che ho letto, ovvero, quando l’esperienza intima e solitaria della lettura è condivisa con chi coltiva lo stesso piacere: ecco, le presentazioni dovrebbero essere sostanzialmente questo. Così con Pina e Alessandra – con le quali è un piacere parlare di letteratura – e perciò abbiamo deciso di organizzare questi incontri perché tutti e tre amiamo leggere. Certo non abbiamo i Roth, i Musil, i Salinger e a volte toppiamo, ma, di certo, onestamente, siamo animati da un profondo amore per la carta stampata e per le storie che essa contiene. Sulle altre cose che ho visto in giro fino ad ora ho molte riserve. Manifestazioni dove solo a leggere gli ospiti invitati si viene presi da un’incredibile pena per la letteratura vera, per gli scrittori autentici e, soprattutto, per i lettori veri, che ormai sono pochissimi per la verità. La letteratura è una cosa molto seria, anche quando è divertente e leggera, e lo è anche la scrittura e la lettura, dunque da promoter e amante vero di entrambe, nutro sincere diffidenze e riserve su quei guazzabugli estivi che ci vengono proposti e che presentano come scrittori personaggi di una tv di cattivo gusto e politici e attori o attrici. Insomma, sarebbe molto meglio essere più seri ed onesti, ne trarrebbero giovamento tutti, soprattutto la letteratura. Si dovrebbe andare alle presentazioni e le dovrebbero organizzare solo quanti i libri li amano veramente e non, invece, per farsi vedere con le celebrities di turno.
Sono stanco dei discorsi che non portano da nessuna parte, delle chiacchiere che stanno a zero, della tramoggia dei luoghi comuni, degli stereotipi, delle parole preconfezionate, degli hashtag, dei costrutti alla moda. Datemi qualcosa di crudo, di spoglio, non lo voglio questo lardo unto, mi intossica, non lo digerisco più. Sono esausto, sono stanco, saturo di tutta questa immondizia che mi circonda. Vorrei una gomma da cancellare grande quanto una casa. E togliermi di dosso tutto questo liquame.
Proiezione del docufilm “Lucio Dalla e Sorrento – I Luoghi dell’Anima“, scritto, narrato e diretto da Raffaele Lauro, prodotto da GoldenGate Edizioni e realizzato da SorrentoChannel.tv. Saluti di benvenuto, a nome della famiglia Russo, proprietaria dell’albergo, di Fulvia Clapier, del direttore operativo dell’Hilton Sorrento Palace. Presentazione, in inglese, dell’opera di Riccardo Piroddi.
Trailer del docufilm “Lucio Dalla e Sorrento – I Luoghi dell’Anima“