Dormito poco. Fumato tanto (ieri). Concitazione generale. Poi nel nero fitto delle sei antimeridiane, a pochi centimetri dalla sveglia, dico, l’ho intravisto di nuovo. Quel me che apriva gli occhi nelle albe dei suoi sette, otto, nove anni. La costruzione infantile dell’estate. Proprio così. I telegiornali e la scomparsa di Emanuela Orlandi, i miti mostruosi che questa vicenda in qualche modo partorì nella mia generazione. D’un tratto ci sentimmo tutti più esposti e fragili, il fianco offerto a qualcosa di invisibile e oscuro e sinistro. Nell’attesa della partenza, nell’attesa dei sassi di Santa Marinella, annaspavo tra i compiti per le vacanze (chissà se oggi vengono assegnati più). Dovevo liberarmene in fretta se poi non volevo avere niente a cui pensare. Malgrado odiassi il sole amavo spudoratamente il mare, far le capriole sott’acqua, imparare lo stile del delfino, ed ero disposto a tutto pur di attirare l’attenzione di quel ragazzino col caschetto nero e i pettorali già sviluppati che nuotava accanto a me in modo superbo. Non ci capivo un cazzo d’amore. Per me il massimo possibile erano Red e Toby. E il giorno che non venne in spiaggia mi spensi. Come se fosse colpa di qualcuno, come se l’estate fosse un gran baratro senza cuore, pieno solo di luce e sale e Nivea. Mia madre me la spalmò sulle cosce e fu così che mi bruciai il doppio. Rimasi a casa e quando qualche giorno dopo tornai a nuotare, il ragazzino col caschetto nero già non c’era più. “22 giugno 1983; la vittima, una cittadina vaticana figlia di un commesso della Prefettura della Casa Pontificia, sparisce in circostanze misteriose all’età di quindici anni…”