Il sangue del tuo stesso sangue tra le braccia sporche e sudate di tuo padre, il caldo insopportabile nei campi di cotone dell’Arkansas dove piegavi l’esile schiena di ragazzino sognando una chitarra blu con la tracolla marrone per dare suono a quelle parole che già ti venivano fuori dal cuore indurito dalla fatica e dal dolore. E intanto il treno continuava a correre rotolando in curva e tu ci salisti, senza pensarci due volte. Memphis, Tennessee, e poi chissà, lontano dalla piccola casa di Dyess, dalla tua canna da pesca e dal ricordo di Jack, dalla luna sul Mississipi e dalla colpa che credevi di avere, dall’amore che non ricevesti mai. Inseguendo quelle maledette pastiglie bianche, la bocca piccola e i capelli bruni di June, per le arenas e le prigioni degli stati del Sud, la tua voce bassa e potente spiattellò senza controllo la libertà della miseria di chi ha solo una 44 Magnum e un paio di tiri di coca, poche lacrime quando le luci hanno perso il loro splendore o una bottiglia vuota che qualcun altro ha bevuto per sbronzarsi. La chitarra blu con la tracolla marrone imbracciata come un fucile, il sorriso ammiccante e l’impermeabile nero, il microfono acceso, il pubblico urla applaudendo, “Hello, I’m Johnny Cash!”.
Alla fine penso sia abbastanza semplice il teorema. Quando stiamo per innamorarci di qualcuno chiediamoci, prima che sia troppo tardi, se c’è un buco che dobbiamo riempire, e se scopriamo che c’è ebbene andiamoci dentro a questo buco. Senza aver paura. Bisogna prima fare amicizia coi nostri buchi e le nostre falle. E bisogna farlo bene e crederci anche. Mettere gomma intorno al rame, rivestire le prese, nessuno dovrebbe prendere la scossa quando ci lasciamo sfiorare. E se qualcuno ancora si fa male, ahimè, be’, significa solo che dobbiamo continuare a lavorare. Duramente. Giorno e notte. Noi siamo il nostro termometro, la nostra aspirina, il nostro panno bagnato, il nostro cotone imbevuto d’alcol. E poi, alle brutte, ci sarà sempre un amico.