Quando eravamo molto giovani condividevamo davvero ogni cosa con gli altri. Selvaggiamente. Non solo i patimenti o le facezie, ma l’apprendistato vero e proprio alla maturità, la propedeutica a un’esistenza felice. Poi purtroppo siamo diventati adulti. E ora ci avvediamo della finitezza di quelle formidabili esperienze di comune costruzione affettiva. Ora imbastiamo relazioni che si reggono per un pelo sulle nozioni apprese a quei tempi – e perlopiù rimosse -, quando non eravamo artefatti o incatenati o in imbarazzo. Da adulti si è in imbarazzo per ogni cosa. La nostra è una generazione in imbarazzo. Verso se stessa, verso il proprio passato e il proprio futuro. La più grande generazione in imbarazzo che la Storia abbia mai conosciuto.
Ascoltare i Sisters of Mercy è un po’ come fare un viaggio dannato negli inferi del rock. Tra voci catacombali, cavalcate elettroniche e danze tribali, la band è riuscita nell’impresa di stregare l’intera generazione anni ‘80 e non solo. I Sisters of Mercy, assieme ad altre band importanti come i Bahuaus o la “regina della notte” Siouxsie, sono tra i principali protagonisti della stagione dei “darkettoni”, ragazzi vestiti rigorosamente di nero e adoratori di una musica tetra e depressa. Ma, in realtà, la band britannica è andata ben oltre gli stereotipi del genere, riuscendo a coniare un sound personalissimo, dato dalla combinazione tra chitarre distorte, in stile hard rock, e ossessive ritmiche elettroniche. Un sound maestoso e imponente, capace di evocare passioni violente, grazie anche al timbro vocale del “messia del gotico”, il cantante Andrew Eldritch, vero e proprio asso della band. Il gruppo si forma in Inghilterra, a Leeds. Sisters of Mercy (sorelle della misericordia) sono le prostitute dell’omonima canzone di Leonard Cohen. La band ama l’ambiguità tra il significato originale dell’espressione, che si riferisce ad un ordine di suore, e la prostituzione. L’esordio non è dei più facili. Partiti da un funk rock snobbato dal pubblico, il timone della nave è presto preso da Eldritch, il quale, col suo carisma e la sua voce cavernosa, riesce a conquistare i patiti del rock e, in particolare, della darkwave anni ‘80. Nel 1983, la band riesce a sfondare ed entrare nell’olimpo degli dei del dark, assieme a Siouxsie, Bahuaus, Cure e Joy Division. I Sisters of Mercy irrompono sulle scene con un sound rock molto elettronico, ossessivo e pieno di riferimenti esoterici. Con questa formula, arrivano i primi successi, come “Anaconda” (ascolta) e “Alice” (ascolta), destinata, poi, a diventare uno dei loro capolavori. “Alice” sembra il classico pezzo in stile Siouxsie, a cui si aggiunge, però, quel tocco di originalità, grazie alla voce lugubre del “messia del gotico”. I Sisters of Mercy sono ormai pronti per il grande passo e registrano il loro primo Ep, “The Reptile House“, Merciful Release, 1983 (ascolta). In questo Ep sono già presenti i primi gioielli della band, come la cover spettrale di “Gimme Shelter” (ascolta) e “Temple of Love“ (ascolta), destinata a divenire leggenda, uno dei più grandi pezzi della storia del dark e del rock tutto. Subito dopo l’Ep, la consacrazione a dark band di culto con l’album “First and last and always“, Merciful Release, 1985 (copertina a destra). Il disco è, in assoluto, il più brillante della loro carriera. La band riesce a coniare, sin dall’esordio discografico, uno stile assolutamente unico. Le loro atmosfere sono tra le più macabre della stagione dark, grazie, soprattutto, al cantato catacombale di Eldritch. Ma ascoltandoli, il lato oscuro della loro musica passa a volte inosservato, perché i Sisters of Mercy riescono, nonostante tutto, a proporre canzoni ballabili e di una certa metodicità. “First and last and always” (ascolta) è una sintesi di tutto il loro modo di fare, e contiene, tra l’altro, la canzone più malata della band: “Marian” (ascolta), una spaventosa danza macabra, un cerimoniale tetro e di eterna perdizione, cantato dal “messia del gotico” in un tono così basso e cavernoso da incutere persino paura. “Marian” è una canzone che da sola vale un intero disco ed è, senz’altro, uno dei capolavori indiscussi del dark e, oserei dire, del rock tutto. Oltre “Marian“, nel disco spicca anche “Black Planet” (ascolta), una canzone depressa e ipnotica, con tanto di cori liturgici come da migliore tradizione del dark. “Walk away” (ascolta) è, invece, una canzone sfrenata e distruttiva, in cui si nota chiaramente l’influenza dei Cure. “Possession” (ascolta) è un vero e proprio rituale del male: una canzone lenta e paranoica, dall’atmosfera tanto avvolgente quanto inquietante. Il disco chiude in bellezza, con un altro capolavoro, la lunga “Some kind of stranger” (ascolta), che sembra quasi voler evocare una marcia di dannati verso l’inferno. Dopo il primo disco la band pubblica altri due validi album, per poi sciogliersi. “First and last and always” rimane il loro capolavoro assoluto, un disco tetro e claustrofobico, depresso e pieno di paure. Un disco dominato da danze macabre e misteriose e che, grazie alle sue atmosfere da rituale occulto, mescolate a ritmi ballabili, sembra quasi voler invitare l’ascoltatore ad affrontare i propri demoni interiori e non aver paura dell’ignoto. Un disco che accompagna nelle tenebre e mostra che, in fondo, queste non sono così negative come abbiamo sempre creduto.
Dal profondo del dolore, sulla necessità di accettare la fine della vita: “Non moriamo perché ci ammaliamo, ma ci ammaliamo perché dobbiamo morire”, così ci ricorda Michel Foucault (Nascita della clinica: il ruolo della medicina nella costituzione delle scienze umane oppure, con sottotitolo, Una archeologia dello sguardo medico (1963), trad. Alessandro Fontana, Einaudi, Torino 1969), affrontando i tre più insormontabili tabù delle nostre società: la vecchiaia, la malattia, la morte. Sembra tutto razionalmente accettabile, tutto così “naturale”, tutto “nelle cose”, specialmente quando una persona si fa molto vecchia, ma non è così, per lo meno non è così specialmente quando si attivano le dinamiche degli affetti, quando sei coinvolto in prima persona, eppure bisogna cominciare proprio da qui e, ripercorrere il significato dell’esistenza e il senso stesso della vita. L’altra sera mi capitò di vedere in TV Anna Marchesini, mitica interprete teatrale di grande forza espressiva, consumata da una devastante artrite reumatoide. Ero solo, in poltrona, oppresso da un pesante senso di angoscia, come mi capita da un po’ di tempo in qua. Di là, mamma, la mia mamma, che si lamentava nel sonno dei quasi suoi ottantanove anni, come fa ormai tutte le sere, tutte le notti. Anna Marchesini parlava dal di dentro della sua malattia, non nascosta, né esibita: semplicemente vissuta come un momento della sua vita e ha raccontato della sua scrittura, del suo teatro e della morte come di un altro momento della nostra vita, perché, sempre di vita si tratta. La ascoltavo e pensavo che ci sono argomenti tabù che si cerca di rimuovere. Pensavo che se le strade si riempissero di gente malata, o vecchia, che se la TV invece di mostrare sempre corpi levigati, giovani e belli, mostrasse le donne e gli uomini come realmente sono,forse cambieremmo la nostra testa, ma soprattutto il nostro atteggiamento verso la vita e verso la morte e anche verso noi stessi. Invece nella nostra società, la malattia è una vergogna e la vecchiaia pure lo è e si nasconde la prima e la seconda. Le si isola entrambe – per la vergogna – in luoghi di sofferenza e di segregazione: gli ospizi, le case di cura, le cliniche, gli ospedali. Espelliamo dalle nostre vite i segni tangibili di ciò che invece fa parte della vita e sono essi stessi la vita. Anna Marchesini parlava e io mi sono sentito pian piano una serenità interiore, anche se ero consapevole di che tipo di notte mi aspettava. Continuiamo a vergognarci della malattia, nascondiamo asetticamente la morte e vediamo solo gente sana e giovane e bella, che è pure giusto, ma non è la verità, o meglio: la verità della vita non è solo questa: quando incontriamo qualcuno che sta male siamo presi da un turbamento fuori misura, come se non sapessimo che quello è il nostro specchio. Così il dolore per la vecchiaia di mia mamma sempre più stanca mi riporta a una sua accettazione, benché non sia facile, a meno di non inserirsi in un processo incessante che è la vita stessa, così miei due infarti. Cerco di adeguarmi ai cambiamenti del mio corpo che, paradossalmente sono più facili da accettare che non i cambiamenti del corpo di mia madre o di una persona che si ama profondamente, perché il tuo corpo ha reazioni, mentre non puoi fare nulla per il corpo di un altro, se non assistere impotente. Ecco, mi sembra che il tabù della nostra epoca sia la mancanza di consapevolezza delle cose importanti e tragiche e essenziali della vita: cioè queste cose, contro la banalità di un mondo o di comportamenti fatti da smile stupidi come faccine perennemente sorridenti. Forse bisognerebbe parlare di queste cose non in modo macabro o funebre ma come un fatto vitale, perché la morte e la vita infine sono esattamente la stessa cosa. Ed eccoci ritornati al punto di partenza: nella visione greca dell’uomo la vita si concede finché non sopraggiunge la malattia e la morte e la filosofia- che mi ha sempre soccorso – serve anche a ricordarci che, necessariamente, noi non moriamo perché ci ammaliamo ma ci ammaliamo perché siamo mortali e che questo incessante movimento non è altro che la vita stessa.
Ci si isola. Ci si isola per la nausea che ci assale alla gola. Ci si isola perché non si sopportano più le frasi preconfezionate degli altri. Perché gli altri non sanno più come fare a rapportarsi a noi. Non c’è dell’anacronistico superomismo in questo. C’è solo la cortina di plastica trasparente che ci separa e divide. Ci si isola quando non si è più capaci di tollerare la sfida, la compassione, la solidarietà ingenua e superflua. Ci si isola perché ogni cosa sembra così intrisa di banalità, di fiacco autocompiacimento. Ci si isola perché non ci si sente capiti. O, peggio, perché si viene fraintesi. Il fraintendimento è il portato, il carcame di questo tempo barbugliante. Ed è per questo che ci si isola. Perché alla fine si sono esaurite tutte le alternative.
Presentazione del volume di racconti “Bianco e nero” di Emanuela Rocca, A.P. Ed. “Non è facile raccontare storie erotiche, soprattutto complicato non scendere in volgari situazioni mentre si scrive, ma l’erotismo fa parte della vita di ognuno di noi, c’è chi ha compreso la sua importanza vitale nel rapporto a due, chi invece lo tiene sopito per via dell’educazione che ci viene imposta dalla Chiesa di Roma. i racconti che ha scritto Emanuela Rocca servono esclusivamente a far vivere emozioni intense,a riflettere sulla vita di ogni giorno, a comprendere gli errori che si compiono durante la nostra esistenza. ogni racconto è una storia a sé, chiaramente tutte inventate e colorita dall’Autrice” (dalla prefazione). Letture di Nino Casola e Frenk Tortora. Relazione e intervista all’Autrice di Riccardo Piroddi. Organizzazione di Mimmo Bencivenga, proprietario della Libreria Indipendente.
Le grandi emozioni di sabato 11 luglio – Reading di “Bianco e nero” – Il secondo libro di Emanuela Rocca
I miei rapporti con gli altri. Semplici, certo. Fino a quando non mi si domanda un parere, un’opinione. Sono diventato allergico alla lamentela fine a se stessa. Allo sfogo querulo che non si concede altro sbocco che la propria vana prosopopea. Reagisci, dico. Stai diventando come il peggiore tra i repubblicani, mi si risponde. Sarà. Eppure una cosa almeno io l’ho imparata. La metonimia è il gran male del secolo. Spostare il cursore dall’agente della propria insoddisfazione ai malcapitati catalizzatori esterni (di solito la famiglia, gli amici, i figli, il partner). Invece di assumerci ciascuno le nostre responsabilità preferiamo seguitare a puntare il dito contro la nostra immagine capovolta nel riflesso degli altri, spettatori casuali delle nostre frustrazioni. Quando impareremo a strappare il comodo panno opaco dell’indulgenza dal nostro cieco specchio privato? Quando, per la miseria, quando?
Non ho neppure una foto che mi ritragga con te. Ma ho una cornice, che è il tempo stupendo che ho trascorso con te. Certo non serve un ricordo di carta a colori che sussurri a me stesso, nei giorni infelici, quel che sei stata per me. Il ricordo di te non è ancora ricordo, perché io ti ho ancora vicina ancora ti sento, ti parlo, tremo, abbasso lo sguardo e quando trovo il coraggio ancora mi perdo nel tuo sorriso, ti stringo e ancora ti bacio e ti accarezzo i capelli. Ancora. Fino a che tu sarai quell’ancora non proverò nostalgia.
Nostalgia.
Il dolore che torna.
È il senso di questa parola.
Ancora dolore,
ancora tu.
La cornice del tempo
un giorno, avrà la sua foto
e saremo ritratti
a soffrire lontani
invece di essere insieme,
vicini e felici.
E allora il ricordo
sarà nostalgia
e tornerà ancora il dolore,
ancora dolore,
ancora tu.
Ciascuno fabbrica il proprio reticolato, la propria trincea, il proprio guscio, la propria linotipia. E lo fa col gramo vocabolario di cui dispone, servendosi delle misere seppur fondamentali verità che ha via via incamerato, consapevole solo in parte dei materiali che ha scelto, dei lemmi che giorno dopo giorno ha perso mentre era intento a costruire il proprio bunker. Già, perché ciascuno edifica bunker, piccoli orci nei quali raggomitolarsi e finalmente dormire. Ignorando il vento e le grandi mutazioni che pur seguitano ad avvenire fuori dalla nostra orizzontalità sterminata. Ma appunto ciascuno si arrabatta come può pur di non affondare nella melma che gli ribolle e rantola sotto i piedi. Ciascuno ha pochi spuntoni nella propria bisaccia, molti dei quali sono già stati lanciati a vuoto e la dotazione ha una scadenza. Ciascuno lavora ad arredare la propria cella, non sa cos’altro fare, non può osare di più. Ciascuno riempie il proprio cruciverba come meglio gli riesce, e poi, nel buio dello sconforto, spesso si affaccia dalla prima bocca di lupo che avvista.
Il sangue del tuo stesso sangue tra le braccia sporche e sudate di tuo padre, il caldo insopportabile nei campi di cotone dell’Arkansas dove piegavi l’esile schiena di ragazzino sognando una chitarra blu con la tracolla marrone per dare suono a quelle parole che già ti venivano fuori dal cuore indurito dalla fatica e dal dolore. E intanto il treno continuava a correre rotolando in curva e tu ci salisti, senza pensarci due volte. Memphis, Tennessee, e poi chissà, lontano dalla piccola casa di Dyess, dalla tua canna da pesca e dal ricordo di Jack, dalla luna sul Mississipi e dalla colpa che credevi di avere, dall’amore che non ricevesti mai. Inseguendo quelle maledette pastiglie bianche, la bocca piccola e i capelli bruni di June, per le arenas e le prigioni degli stati del Sud, la tua voce bassa e potente spiattellò senza controllo la libertà della miseria di chi ha solo una 44 Magnum e un paio di tiri di coca, poche lacrime quando le luci hanno perso il loro splendore o una bottiglia vuota che qualcun altro ha bevuto per sbronzarsi. La chitarra blu con la tracolla marrone imbracciata come un fucile, il sorriso ammiccante e l’impermeabile nero, il microfono acceso, il pubblico urla applaudendo, “Hello, I’m Johnny Cash!”.
Alla fine penso sia abbastanza semplice il teorema. Quando stiamo per innamorarci di qualcuno chiediamoci, prima che sia troppo tardi, se c’è un buco che dobbiamo riempire, e se scopriamo che c’è ebbene andiamoci dentro a questo buco. Senza aver paura. Bisogna prima fare amicizia coi nostri buchi e le nostre falle. E bisogna farlo bene e crederci anche. Mettere gomma intorno al rame, rivestire le prese, nessuno dovrebbe prendere la scossa quando ci lasciamo sfiorare. E se qualcuno ancora si fa male, ahimè, be’, significa solo che dobbiamo continuare a lavorare. Duramente. Giorno e notte. Noi siamo il nostro termometro, la nostra aspirina, il nostro panno bagnato, il nostro cotone imbevuto d’alcol. E poi, alle brutte, ci sarà sempre un amico.