Da ragazzi ci si concede il tempo, il domani. Per rimediare alle sviste, correggere il tiro. Per riparare agli errori, smarcare gli abbagli. Ci si dà una seconda possibilità, e una terza anche, una quarta, una quinta. Ci si dà spazio. Davvero tanto spazio. Per far funzionare quel che era incominciato male, fra le note dolenti, i tradimenti, i pugni e le pedate. Si aspetta. Da ragazzi si può aspettare. Sui muretti. Nei cortili. Davanti a una porta chiusa. Soli. Di domenica. Fradici. E furtivi anche. Nell’erba. Si può aspettare. Che arrivi, poi passi. E dopo, dopo non si aspetta più. Dopo è andata. Il tempo clamorosamente scaduto. Ci si abbandona al primo no, al primo graffio, al primo dissenso, ancor prima. Restano questi cigli di strada brancolanti di adulti scaraventati fuori da auto in corsa, resta un gran mucchio di giovani vecchi adulti azzoppati.
Una giurisprudenza che con consapevolezza attribuisca pieni diritti civili alle sole persone eterosessuali è una giurisprudenza iniqua e retriva, bieca e discriminatoria, in quanto di fatto promuove il malanimo intrinseco ai separatismi e alle differenziazioni emotive, psicologiche, affettive delle singole persone. Obbliga al cieco rispetto e all’ottemperanza burocratica, ma non concede a sua volta riconoscimenti legislativi. Non gratifica ma sfalda. Non schiarisce ma ottenebra. Non conduce all’evoluzione intellettuale e spirituale, ma ingabbia, perlopiù nel nome di Dio, la natura umana, assegnandole, a seconda delle sue inclinazioni erotiche, un valore etico di volta in volta diverso. Una società dove un uomo non solo non può crescere un figlio col proprio compagno ma tantomeno può occuparsi di quest’ultimo se è degente a causa di un intervento al cuore, è una società che ha irrimediabilmente fallito nella propria funzione di creare lo sviluppo e il rafforzamento di una cultura liberale, illuminata, raziocinante. Una società inopinabilmente perduta.
Facile animarsi per il buono, il giusto, il virtuoso. A me però attraeva di più il controverso, l’oscuro. E non in quanto subissi il fascino del malvagio, bensì per l’esatto opposto. È che nei cattivi io andavo a cercare le ragioni della cattiveria, il lato malinconico e indifeso, certo di trovarlo, foss’anche solo all’ultimo. Credo che l’apice della grande dicotomia manichea che vede protagonisti indiscussi il bene e il male sia stata rivista e smussata a partire dalla saga di “Guerre Stellari” e amplificata poi dal famigerato simbolo del Tao, affacciatosi come un morbillo sugli zaini Invicta dei figli della Guerra Fredda. Una goccia di bene nell’olio del male, una goccia di male nell’acqua santa, ci spiegavano i meglio informati. Amaso aveva le matite al posto dei capelli. Dei tre ministri della Regina Himika era il mio preferito, allo stesso modo in cui, a differenza di Capi, Dolce e Jolicoeur, lo era Zerbino. Seguivo Remì nel suo viaggio stando attento al suo cane nero, preoccupato, più che per tutti gli altri, che potesse patire i morsi della fame e quelli del gelo. Ci sono venuto su con quest’ansia. Sarà che del tutto inaspettatamente Himika a un certo punto moriva e anche il più sfegatato fan di Jeeg non poté non restar di sale. A volte penso che chi fu ragazzino negli anni di Alfredino e delle Falkland, abbia incamerato tanta di quella filosofia giapponese da chiedersi, crescendo, se tutti questi cartoni non siano stati altro che una risposta sgargiante a Hiroshima e Nagasaki, il tentativo maestoso di un popolo di esorcizzare (con l’apparente linguaggio dei bambini) le conseguenze del massimo morso della Storia. Neghini, neghini, nasanucolò.
Ciak, si legge! Primo appuntamento con la rassegna letteraria-cinematografica, organizzata dall’Associazione Giovanile “361°“. Dal romanzo di Francis Scott Fitzgerald “Il grande Gatsby” (1925) al film di Baz Luhrmann “Il grande Gatsby” (2013), con Leonardo DiCaprio, Carey Mulligan e Tobey Maguire. Un filo tra i libri e il cinema, tra la letteratura e i grandi film. Un filo che lega tutta la serie di appuntamenti: si comincia con la proiezione di un film, tratto da un romanzo di successo e, in conclusione dello stesso appuntamento, sarà suggerito il libro da cui è tratta la pellicola presentata nel successivo. L’acquisto del libro, oggetto dell’incontro susseguente, sarà possibile alla fine di ogni appuntamento! Conduzione e moderazione di Riccardo Piroddi. Letture di Rosaria Langellotto. Organizzazione generale di Ilaria Ferraro, in collaborazione, per la parte tecnica, con i giovani dell’Officina “361°”.
Tra i Duran e gli Spandau, gli A-ha perché “Cry Wolf” esplodeva dai diffusori fino a coprire il dolore sparso in casa e perché da grande volevo vivere sui Fiordi. Tra i Beatles e i Rolling Stones, i Who perché facevano i suoni del futuro e io decisi che ero “Tommy”. Tra i Genesis e i Pink Floyd, i Dire Straits perché “Money For Nothing” scrostava già da sola l’intonaco dal Muro di Berlino. Tra i R.E.M. e i Guns, gli U2 perché ci si poteva ballare sopra e il remix di “Lemon” avrebbe spinto chiunque a un’esperienza omoerotica in anni ancora imperfetti. Tra gli Oasis e i Blur, i Verve perché se ascolti bene “Bittersweet Symphony” capisci che dentro c’era già tutta la tragedia magnifica della Storia di dopo, le Torri Gemelle, la grande crisi occidentale, lo spaventoso tracollo della nostra civiltà.
Nel 1327, Giovanni Boccaccio, allora quattordicenne, e suo padre, Boccaccino di Chelino, si trasferirono a Napoli, alla corte degli Angioini, per rappresentare il Banco de’ Bardi, che prestava soldi ai re napoletani. Il giovanissimo Giovanni, all’ombra del Vesuvio, trascorse gli anni più belli della sua vita, si divertì molto, fu introdotto a corte, si innamorò di una donna, che lui disse essere Maria d’Aquino, figlia illegittima di re Roberto d’Angiò e che, col nome di Fiammetta, avrebbe poi celebrato in alcune sue opere, si appassionò alla letteratura classica e alla poesia, grazie allo stilnovista Cino da Pistoia, che per qualche anno fu a Napoli ad insegnare diritto all’Università e, chissà, forse qualche volta raggiunse anche le mie parti, tra Sorrento e Massa Lubrense. Proprio a questo periodo appartengono le sue prime opere: la Caccia di Diana, il Filocolo, il Filostrato e Teseida delle nozze d’Emilia.
La Caccia di Diana
Poemetto di diciotto canti, fu composto per fare la sviolinata a tutte quelle dame di corte, che attizzavano molto l’Autore. Ecco cosa escogitò, in versi, il poeta: le donne più belle di Napoli decidono di andare a caccia. A quell’epoca, appena fuori la città, ad un quarto d’ora di cavallo, c’erano molti boschi. Prima che alle donne apparisse la dea Diana, queste si rinfrescano in un fiume, tanto per sollazzare un po’ i lettori e, divise, poi, in quattro schiere dalla dea, la quale, nel frattempo, è apparsa, cominciano a cacciare animali. Dopo aver radunato tutte le prede in un prato, Diana chiede loro di fare un sacrificio a Giove e di votarsi alla castità. “Ma tu sì pazz’!”, rispondono tutte in coro. “Qua c’abbiamo il sangue che bolle e tu ci vuoi far rimanere come le suore?”. Diana capisce che non è aria e alza i tacchi, anzi, i sandali. Le donne, allora, pregano Venere, che si manifesta e trasforma tutti gli animali uccisi in giovani bellissimi e più vivi che mai, dopodiché, appare pure il bollino rosso, perché i bambini non possono continuare a leggere, altrimenti capirebbero troppe cose della vita.
Il Filocolo
Tra quelle donne napoletane bellissime, ce n’era una, la fidanzata dell’Autore, che si chiamava Fiammetta. Fu proprio lei a chiedergli di redigere un’operetta che raccontasse le avventure di Florio e Biancifiore, di cui aveva sentito parlare a corte. Boccaccio, che era innamorato pazzo di lei, non se lo fece dire due volte e scrisse questo romanzo in prosa. Ecco la trama: il romano Quinto Lelio Africano e la famiglia si stanno recando in pellegrinaggio al santuario di Santiago de Compostela, per chiedere la grazia di avere un figlio. Lungo la strada, sono massacrati dai Saraceni di re Felice. Si salva soltanto la moglie, Giulia Topazia, la quale, per intercessione del santo, partorisce una bambina, Biancifiore. Lo stesso giorno, nel palazzo reale di Spagna, nasce Florio, il figlio del re. Per un caso stranissimo, i due bimbi crescono insieme e, ti pareva che non si innamorassero? Claro que sì – in spagnolo fa più chic! Divenuti giovinetti, i genitori di Florio assolutamente non vogliono che il figlio si fidanzi con una sconosciuta. “Chissà questa chi è e da dove viene!”, ripete sempre la regina. Il re Felice, quindi, pensa bene di vendere Biancifiore ad alcuni mercanti, i quali la portano in Oriente dall’Ammiraglio di Alessandria, che la rinchiude in una torre con altre novantanove donne di bellezza mozzafiato. Florio, poverino, non se ne fa una ragione e trascorre le giornate nella disperazione più assoluta. Così, decide di cambiare il suo nome in Filocolo, che nel greco sfizioso e fantasioso di Boccaccio significa “fatica d’amore”, e parte alla ricerca di Biancifiore. Imbarcatosi su una nave con alcuni amici, fa naufragio nel Golfo di Napoli, fermandosi nella città partenopea. Da lì, riparte per Alessandria e, nascosto in un cesto di rose, riesce a salire sulla torre e a liberare la sua amata. Poiché da parecchio tempo non si vedono, i due innamorati si danno da fare, facendosi scoprire dall’Ammiraglio in persona, che li condanna al rogo, ma, grazie ad un anello magico, si salvano e, prima di tornare in Spagna, passano per la Toscana, dove fondano Certaldo, la città natale di Boccaccio. Florio, alla morte del padre, è incoronato re a Roma.
Il Filostrato
Questo poemetto in ottave narra le disgrazie amorose di Troiolo, uno dei cinquanta figli di Priamo, il re di Troia, che si innamora di Criseida, la figlia di Calcante, l’indovino troiano, il quale, predetta la terribile fine della sua città, scappa nell’accampamento dell’esercito greco. Troiolo, con l’aiuto di suo cugino Pandoro, riesce a conquistare la giovane ma, in seguito ad uno scambio di prigionieri, Criseida è richiesta dal padre e torna al campo nemico. Uno dei grandi eroi greci, il famoso Diomede, si infatua della ragazza che, dal canto suo, fa due conti e pensa: “Meglio stare con uno che vince e non con un altro che tra qualche giorno andrà a fare il servo in un palazzo ellenico!”. Come pegno d’amore, la donna gli regala il suo fermaglio preferito. Diomede lo perde in un duello e il monile finisce nelle mani di Deifobo. Troiolo, che per il dispiacere è divenuto magro come un fuscello, quando vede il fermaglio appuntato sulla tunica di Deifobo, il quale, tutto sommato, non c’entrava niente, cerca di ucciderlo. Purtroppo per lui, però, proprio in quel momento si trova a passare di lì Achille, che, in un colpo solo, gli stacca la testa dal collo.
Il Teseida delle nozze d’Emilia
Il mitico duca di Atene, Teseo, va a fare la guerra in Scizia contro le Amazzoni, le donne guerriere che si tagliavano la mammella destra per meglio scagliare la lancia. Queste, sconfitte, sono condotte nella città del duca. La loro regina Ippolita, che ha portato con sé anche la sorella Emilia, sposa Teseo. Questi però, dopo pochi giorni, riparte per un’altra guerra, contro Creonte, il re di Tebe. Finita pure quella, torna ad Atene e, tra i tanti prigionieri, conduce seco due giovanotti, Arcita e Polmone. I due, manco a farlo apposta, si innamorano della stessa donna: Emilia. Teseo dice loro: “Cari ragazzi, vedetela voi, fate una gara a colpi di spada e chi vince si prende mia cognata!”. I giovani amici, che per una donna erano diventati acerrimi nemici, se ne danno così tante, ma così tante, che nessuno dei due riesce quasi più a stare in piedi. La vittoria ai punti va ad Arcita il quale, nonostante sia ferito gravemente, corre a sposare Emilia. Ma Venere lo fa cadere da cavallo, lui batte la testa e prima che muoia, con l’ultimo filo di voce rimastogli, affida la sua signora mancata a Polemone.
I problemi economici del padre, costrinsero Boccaccio a lasciare la bella corte napoletana per tornare a Firenze. Nella città dell’Arno, nonostante l’ambiente partenopeo cui tanto era stato affezionato non ci fosse più, continuò a celebrare le sue amate donne. Qualche anno dopo, il Banco de’ Bardi fallì e, così, decise di dedicarsi a tempo pieno alla scrittura anche perché, morto il genitore durante la terribile epidemia di peste del 1348, quella che userà come pretesto narrativo per dare avvio al Decameron, poté acchiapparsi l’eredità.
Quando infili “Heroes” in cuffia e ti accingi ad affrontare il nuovo giorno, in mezzo ai residui ambigui del fine settimana ancora in tasca e il tuo lavoro da portare avanti, le cose da dire ancora e quelle da non dire più, ebbene senti qualcosa di gelido come un rasoio alla gola. I ragazzini dormono in un angolo in fondo all’autobus e hanno i capelli sudici, sono ermetici al traffico di fuori, al dialogo col prossimo, dalle loro madri ai loro padri, a questo mondo indifferente che gli abbiamo lasciato. Non si lavano. Puzzano. La gente puzza. C’è questo tanfo che esala dai tombini lungo la strada, dalle nostre coscienze. Una paccottiglia di buoni propositi, degenerata in sonnolenza e torpore mattutini. In un fetore che cresce e devasta. Ma possiamo essere eroi. Possiamo essere delfini. Possiamo essere noi. Giusto per un giorno.
Serata mista alla Libreria Indipendente: Lectio magistralis di Nino Casola sul caffè e i suoi usi, e, in attesa della presentazione ufficiale, con l’Autore e l’editore, lettura di alcune pagine da “Le avventure di Pāspokaz” di Bruno Esposito, NonSoloParole Edizioni, 2006, con nota introduttiva di Roberto Saviano. “Pāspokaz è un libro di un’ironia che ti deforma il viso, ridi di continuo sino a quando poi quella stessa smorfia ti sembra di averla già vista ed è identica a quando si stringono i denti e non ce la si fa più a vivere nel peggiore dei mondi possibili” (dalla nota introduttiva). Letture di Marilena Altieri. Introduzione e relazioni di Riccardo Piroddi. Ospite della serata e lettore Peppino Esposito da Stoccarda. Organizzazione di Mimmo Bencivenga, proprietario della Libreria Indipendente.
Oggi è il contrario di ieri. Cielo largo, aria orizzontale, luce. Tanta. Ossigeno. Mi piace andare a Trastevere, nonostante Roma cada, mangiare arabo con Mattia. Mi piace Ponte Fabricio, quel disegno caotico dei platani che crolla sul fiume verde in ombre profonde. Respiro. E certe volte respiro come non avessi mai respirato prima d’ora in vita mia. E smetto di sentirmi al crepuscolo ma di nuovo giovane forte vivo. Malgrado l’agonia sociale, malgrado questa grande infelicità collettiva. Mi basterà la solita scodella di riso, dopo fare l’amore con qualcuno che nemmeno conosco, rientrare nel rosa che alla fine scoppierà.
C’è qualcosa di immutabile nei modi degli adolescenti. Il trucco impiastricciato e spregiudicato sui visi delle ragazzine, i ragazzini e gli spintoni che si danno tra loro. Negli anni ottanta funzionava esattamente allo stesso modo. Meno smartphone e più agende gonfie di qualunque cosa forse, ma per il resto… La sigaretta del desiderio, il ripasso a cazzo di cane, il broncio, le parolacce, le risate cafone, il tanfo del sudore rappreso nelle tute acetate. Hanno ancora tutti quel nostro stesso sguardo velato, le bocche semiaperte e spente, nessuna illusione, in più giusto i selfie e l’hip hop nelle cuffie. Sanno a memoria tutta la merda di Fedez. Multietnici, più di noi allora, sicuro. Più effeminati i maschi, più mascoline le lolite. Meno curiosi, chissà. Meno battaglie da fare, forse. Noi venimmo su leggendo il male nel capitalismo americano e nelle tenebre pre-perestroika e pre-glasnost. Venimmo su indottrinati dai Pink Floyd e dalla new wave. Venimmo su nello spirito umanitario del Live Aid. Cotonandoci i capelli. Sulla loro testa pesa di contro la mano dei terrorismi e del grande tracollo economico, il senso perverso della nostra raggelante caduta. Noi ci baciavamo molto da ragazzini. Dio, anche loro se è per questo, identica aria di sfida e chewing-gum tra i molari. Ma allora cos’è? Cosa, perdio? Semplice. È la stramaledetta giovinezza. Che scoppia e sembra passare, invece non passa mai.