Facile animarsi per il buono, il giusto, il virtuoso. A me però attraeva di più il controverso, l’oscuro. E non in quanto subissi il fascino del malvagio, bensì per l’esatto opposto. È che nei cattivi io andavo a cercare le ragioni della cattiveria, il lato malinconico e indifeso, certo di trovarlo, foss’anche solo all’ultimo. Credo che l’apice della grande dicotomia manichea che vede protagonisti indiscussi il bene e il male sia stata rivista e smussata a partire dalla saga di “Guerre Stellari” e amplificata poi dal famigerato simbolo del Tao, affacciatosi come un morbillo sugli zaini Invicta dei figli della Guerra Fredda. Una goccia di bene nell’olio del male, una goccia di male nell’acqua santa, ci spiegavano i meglio informati. Amaso aveva le matite al posto dei capelli. Dei tre ministri della Regina Himika era il mio preferito, allo stesso modo in cui, a differenza di Capi, Dolce e Jolicoeur, lo era Zerbino. Seguivo Remì nel suo viaggio stando attento al suo cane nero, preoccupato, più che per tutti gli altri, che potesse patire i morsi della fame e quelli del gelo. Ci sono venuto su con quest’ansia. Sarà che del tutto inaspettatamente Himika a un certo punto moriva e anche il più sfegatato fan di Jeeg non poté non restar di sale. A volte penso che chi fu ragazzino negli anni di Alfredino e delle Falkland, abbia incamerato tanta di quella filosofia giapponese da chiedersi, crescendo, se tutti questi cartoni non siano stati altro che una risposta sgargiante a Hiroshima e Nagasaki, il tentativo maestoso di un popolo di esorcizzare (con l’apparente linguaggio dei bambini) le conseguenze del massimo morso della Storia. Neghini, neghini, nasanucolò.