Le persone che scegliamo di frequentare coincidono perlopiù con certe nostre fasi esistenziali, certi nostri periodi emotivi, passati i quali son passate anche loro. Probabilmente la vera tragedia dell’amicizia sta nella sua estrema difficoltà a durare, nella sua assai rara costanza attraverso gli anni. Alla fine i soli veri amici che abbiamo sono quelli che per ragioni misteriosissime hanno superato tutte le stagioni, bellissime oppure terribili, della nostra vita.
Resistenza. Resistere. Anche quando per dire c’è una bora anarchica maledetta assassina puttana vigliacca chimica. Che ti sbrana i ginocchi e tu che dormivi e poi ti sei svegliato su un pezzo di ghiaccio separato dal mondo. Anche lì resistere. Non abbandonare cioè sul fondo il sasso che è peso e immondo e tu allora dici così mi trascina mi spinge più giù mi porta sul fondo adesso vado a picco. Invece resistere stare dove stai dove ti mettono starci ma non starci così, facendo finta che tutto va bene invece è tutto che sa di merda, ma starci. Starci comodo largo vivere resistere come non fosse propriamente questo il fondo ma il porto e lo scoglio la rocca che dovevi difendere che devi difendere. Come fosse ieri e prima. Che c’erano le mani. C’erano mani. Mani perdio mani. Rimango. Rimani. Resto. Resisto.
Bisognerebbe ragionare su ciò che è ormai ovvio. Su ciò che è scontato ma forse prima non lo era. Su quegli infiniti modi di vedere una cosa, via via diventati un solo modo. Scoprire attraverso gli anni come siano cambiate le nostre percezioni generali in fatto di questo, in fatto di quello. E accorgersi che l’ovvio è un’enorme conquista e al tempo stesso la più estrema disfatta.
Trent’anni fa i jeans sgarrati al ginocchio erano anzitutto un fatto morale, più dell’imperativo kantiano, più del dover essere di Kundera. O ti rompevi i jeans o eri un piccolo borghese di merda. Lacerai talmente ad arte i Levi’s 501 chiari che Luigi mi aveva passato, da farlo pentire amaramente il sabato pomeriggio che li indossai per andarci in giro. Era il 1986 ma io volevo precorrere i tempi. E poi sapevo di avere Madonna dalla mia. Anche lei aveva i Levi’s 501 scorticati. E sapeva così tanto di libertà. Poco fa da un portone è uscita una ragazzetta di vent’anni. Io guardavo i trifogli e Rugantino ci pisciava sopra. Anche lei gli sgarri al ginocchio. Quelli però che van di moda adesso. Senza sfilacciamenti, senza sbreghi. Bocche perfette. Che se ti siedi sbadigliano.
I ragazzini hanno il broncio dei bulli. Fumano insieme passandosi l’accendino come fosse un coltello. Il mento in avanti, la fronte bassa, parlano brevi fissando la strada. Aprono Millenniun, cioè il libro di storia che i genitori gli hanno dovuto comprare un mese fa. Siccome oggi hanno il compito in classe fotografano le pagine sulla Controriforma direttamente col cellulare. Dopo ingrandiranno gli scatti. Dopo copieranno. E quindi andranno avanti. Scrollando le spalle. Attraverso gli anni. Fino a trovare uno straccio di lavoro e una donna disposta a ospitarli nella propria fica e a dargli dei figli. Quei figli che dopo di loro faranno nuove foto a nuovi libri di storia, forse alle pagine sull’Isis. E poi copieranno, prenderanno la sufficienza e andranno avanti. Scrollando le spalle. Lasciandosi dietro uno sciame lungo di sconfitte o magari pure di grandi traguardi, ripensando ai giorni delle loro sigarette, ai giorni delle mie sigarette. Ai soli giorni larghi e onesti in cui tutti noi fumammo pur qualcosa senza per questo avere i sensi di colpa.
Amo da sempre i giorni corti di novembre. La città che si impasta in una frenesia di neon e negozi. Guarda qua, è tutto un gigantesco orto zeppo di fari, semafori, lampioni, insegne. Una giostra di piccole e grandi scintille. Il carosello elegante del glamour. E come si pavoneggiano adesso quelle vetrine. Roma non avrà le luci di Parigi, però qualche volta fra le guance secche dei larici si affaccia un rasoio di luna e nessuno ha paura dei lupi.
Presentazione del romanzo di Franco Cuomo, “Quell’estate psichedelica del ‘66”, Lampi di Stampa, 2006. E’ stata l’occasione per discutere della Beat Generation, dei suoi poeti, dei suoi profeti e del passaggio dall’epoca Beat alla rivoluzione Hippy, anche attraverso l’ascolto della musica pshichedelica di quel periodo, direttamente dai dischi in vinile, sullo stereo della Libreria. Ospite della serata, Alfonso Paesano (Stereo Classic) da Napoli, con una selezione dei suoi LP. Introduzione e relazione di Riccardo Piroddi. Letture di Marilena Altieri, Mimmo Bencivenga e Franco Cuomo. Musiche selezionate da Alfonso Paesano. Riprese video di Antonino De Angelis (Indio). Fotografie di Daniela Ponticorvo. Organizzazione generale di Mimmo Bencivenga, proprietario della Libreria Indipendente di Sorrento.
Addio, Maestro! Nessuno potrà mai capire quanto la meditazione delle Tue opere mi abbia fatto amare la letteratura e mi abbia insegnato a scrivere. Con Te, se ne va anche un pezzo della mia storia spirituale. I tuoi semi, però, sono germogliati in me! Grazie di tutto!
Ogni tanto mi rendo conto di non saper usare questo social (Facebook) nei modi più invalsi. Non scrivo quasi mai di cronaca, che sia rosa o nera, o di politica. Non mi addentro mai nelle questioni del giorno, siano esse ricorrenze o argomenti in voga. Non adotto il linguaggio diffuso nei link e difficilmente mi pronuncio sulla religione o lo sport. Eppure so di dire la mia. Di dirla comunque. Anche se all’apparenza non sembro che il portavoce di me stesso. Credo dipenda dal punto di vista che alla fine uno ha. Io guardo la vita e il mondo. Ma non so raccontarli se non alla mia maniera. Cercando nel passato (a volte persino nel futuro) il buono e il cattivo di oggi.
Nella vita devi imparare a giocare d’attacco. Se sai stare in difesa, ottimo, okay, capito, proteggi ciò che ti sta a cuore. Ma poi? Pensi sia finita lì? Il vero motore è nella motivazione che ti darai per mordere tutto lo spazio enorme che resta. Nell’innamorarti. Innamorarti, sì. Di una cosa qualunque, non importa cosa. Persone, alberi, una strada, un film, quella canzone. E poi dargli sotto. Se non pigli tu la palla finisci in panchina. E una vita in panchina è triste. Gli altri che giocano, tu in panchina. Alzati, allora. Alzati e ricordati di quando eri un cazzo di bastardissimo ragazzino e abbaiavi e davi calci e non volevi prenderti solo il campo. Ma il mondo. (A tre amici miei. O quattro).