Quantunque la bellezza esteriore di una persona sia subordinata a dei precisi parametri estetici (ad esempio è innegabile che la pancia in un uomo o la cellulite nelle cosce di una donna siano fra gli inestetismi più frequenti e temuti), nondimeno fascino e appeal si misurano attraverso la capacità (spesso innata e involontaria) che alcuni soggetti (anche non canonicamente belli) hanno di “fingersi” attraenti e di piacevole aspetto. La natura è capricciosa, si sa. Essa genera a caso bellezza e bruttezza. Esser perfetti fotomodelli o ricurvi come punti interrogativi sono ambedue condizioni inseparabili dalla fortuna (la famigerata “tyche”). Eppure cosmesi e cura di sé hanno ormai compiuto passi da gigante. Chiunque potrebbe far sulla propria immagine un ottimo lavoro di “ricostruzione” (i cosiddetti miracoli, esatto). Partendo tuttavia da un principio basilare e imprescindibile. Se ambisco alla “mia” bellezza devo suppormi fin da subito come potenzialmente bello (che non significa “crederci”), ossia evitare che gli altri mi sottostimino. Gli altri sono l’astrazione metafisica con cui ci confrontiamo immediatamente dopo lo specchio. Gli altri sono sia fuori che dentro di noi. È bene, in altre parole, ricordarsi che se io mi presento al mondo come una pantera difficilmente il mondo mi considererà un gatto da cortile. E viceversa, chiaro. Di fatto quanto più fiero andrò del mio aspetto, tanto più il mondo subirà il mio carisma (quand’anche esso fosse un colossale, strabiliante bluff). Al contrario, quanto più mi lagnerò in giro delle mie imperfezioni, tanto più gli altri saranno riflessivamente indotti a disprezzarmi.