Dodicimila lire. Vinte a sette e mezzo il pomeriggio di Santo Stefano. Il prezzo del primo album che comprai l’indomani, ossia la colonna sonora di “Staying Alive”. I Bee Gees, Frank Stallone, sapete. Undici anni, un soldo di cacio. Ma con quella sensazione di aver finalmente compiuto il passo decisivo verso l’età adulta: il fatidico rito di transizione dall’infanzia racchiusa nell’innocenza martellante del 45 giri alla maturità incarnata dal ben più impegnativo formato 12 pollici. Finì con la puntina sul primo solco di “The woman in you” in un freddo mattino d’inverno del 1983 l’egemonia materna a base di John Lennon e Bob Dylan e Kim Carnes e Lucio Dalla. E iniziò la mia: la spumeggiante epopea degli Anni Ottanta, cioè gli ultimi anni moderni della nostra storia. Gli anni in cui la musica pop era una faccenda seria. Gli anni in cui essere pop aveva uno specifico senso politico. Una connotazione eversiva. Gli anni in cui bisognava forgiare al di qua del Muro un linguaggio nuovo e indipendente. Un fare alternativo e spiazzante. Un credo che sfuggisse all’occhio-spia del Grande Fratello di “1984”. Il long-playing. Quella gigantesca custodia, i testi stampati sulla busta satinata, la carica elettrostatica del vinile una volta che mi decisi a sfilarlo da lì dentro e poi partì la musica. Senza ancora il pulviscolo. Il pulviscolo enorme che sarebbe venuto invece dopo. Negli anni successivi alla caduta del Muro. Quando non volendolo eravamo diventati tutti come Winston e Julia.