Nella vita c’è un solo modo per sottrarsi alla schiavitù. Acquisire potere. Giorno dopo giorno. Potere, esatto. Non c’entra Dio e non c’entrano i sentimenti o l’umanitarismo. C’entri solo tu e la scalata che devi fare se non vuoi campare e crepare sotto le scarpe del mondo. Potere. Ficcatelo bene in testa. Potere.
Eugenio Pacelli, asceso al soglio pontificio col nome di Pio XII, è stato il 260° papa della Chiesa Cattolica Romana. Nato a Roma, il 2 marzo 1876, fu eletto papa nel 1939. Segretario di Stato di Pio XI, tentò, in tutti i modi, di scongiurare la Seconda guerra mondiale. Morì il 9 ottobre 1958.
Il breve radiomessaggio Ecco alfine terminata fu trasmesso dalla Radio Vaticana due giorni dopo la resa della Germania nazista (7 maggio 1945) e la fine della guerra in Europa. Nel mondo, invece, essa si sarebbe conclusa soltanto nell’agosto successivo, dopo lo sganciamento delle prime bombe atomiche in Giappone, evento apocalittico, sul quale Pio XII non si pronunciò pubblicamente. Il messaggio costituì un sintetico bilancio delle distruzioni e degli orrori della guerra. Mancò un riferimento esplicito al dramma dell’Olocausto. Di qui, anche la polemica, mai spenta, sui silenzi e i dilemmi di Pio XII. La guerra, finalmente, era finita. Essa aveva accumulato un caos di rovine, materiali e morali. Bisognava, da quel momento, riedificare il mondo. Il primo elemento della restaurazione sarebbe dovuto essere il ritorno a casa, pronto e rapido, di tutti i prigionieri, degli internati, dei combattenti e dei civili. Ognuno si sarebbe dovuto mettere al lavoro per la ricostruzione, animato dal generoso e indistruttibile amore per il prossimo. Se ci si fosse limitati a considerare soltanto l’Europa, ci si sarebbe ritrovati dinanzi a problemi e difficoltà giganteschi, che era necessario superare, per aprire il cammino ad una pace vera, la sola che potesse essere duratura. Essa, infatti, non sarebbe potuta fiorire, se non in un’atmosfera di giustizia e di lealtà, congiunte con la fiducia e la comprensione reciproche. Il mondo avrebbe evitato il ritorno della guerra, vi avrebbero regneranno la vera e stabile fratellanza universale e la pace soltanto se gli uomini avessero avuto un cuore nuovo e un nuovo spirito, seguendo i precetti della legge di Dio e mettendoli in pratica. Il radiomessaggio natalizio La coesistenza nel timore, nell’errore e nella verità rappresentò una delle riflessioni più approfondite e coerenti di Pio XII sulla guerra fredda, in cui, talvolta, fu accusato dalla stampa socialcomunista di essere coinvolto, e, più in generale, sui rapporti tra i due blocchi. Il radiomessaggio, pur senza espliciti riferimenti, tenne conto del passaggio dalla guerra fredda alla pace fredda, cioè, dalla prima timida distensione internazionale, a seguito della morte di Stalin, nel 1953. Il pontefice rivendicò il compito di offrire un ponte spirituale e cristiano di collegamento fra le due opposte sponde dell’Europa. Criticò, con decisione, la coesistenza nel timore, così come la coesistenza nell’errore, che finivano per pregiudicare la possibilità stessa di una coesistenza nella verità. Nel sedicesimo Natale del proprio pontificato, secondo quanto era assicurato da molti, alla guerra fredda si era sostituito un periodo di distensione chiamato, non senza ironia, pace fredda. Questo, però, rappresentava soltanto un breve passo, nella faticosa maturazione della pace. Nel mondo della politica, per pace fredda si intendeva la mera coesistenza di popoli diversi, sostenuta dal vicendevole timore e dal disinganno reciproco. La semplice coesistenza non meritava il nome di pace. La pace fredda rappresentava soltanto una calma provvisoria, la cui durata era condizionata dalla sensazione mutevole del timore e dal calcolo oscillante delle forze presenti. Esaminando le manchevolezze, che impedivano alla pace fredda di essere pace vera e duratura emergevano: La coesistenza del timore: il fondamento su cui poggiava lo stato di relativa calma era il timore. Ciascuno dei gruppi nei quali era diviso il mondo, tollerava che esistesse l’altro, perché non voleva perire egli stesso. Evitando, così, il rischio di una guerra totale, ambedue i gruppi non convivevano, ma esistevano. Non era uno stato di guerra, ma neppure di pace: una fredda calma. In ciascuno dei due gruppi era assillante il timore per la potenza militare ed economica dell’altro, e vivissima l’apprensione per gli effetti catastrofici delle nuovissime armi. L’assurdo più evidente, che emergeva da questa situazione era che la prassi politica, pur paventando la guerra, le concedeva tutto il credito, come se fosse l’unico espediente per sussistere e l’unica regolatrice dei rapporti internazionali. Appariva assurda quella dottrina secondo la quale la guerra fosse lo sbocco necessario degli insanabili dissensi tra due Paesi. Essa era stata considerata come un dado, da giocare con maggiori o minori cautela e destrezza, non come un fatto morale, che impegnava la coscienza e le superiori responsabilità. Occorsero le rovine prodotte dalla Seconda guerra mondiale perché mostrasse il suo vero volto. La coesistenza nel timore aveva soltanto due prospettive dinanzi a sé: o si sarebbe contratta sempre di più in una paralisi glaciale della vita internazionale, i cui gravi pericoli erano immediatamente prevedibili, oppure si sarebbe innalzata a coesistenza nel timore di Dio, e, poi, a pace vera, ispirata e vagliata dal suo ordine morale. La coesistenza dell’errore: nonostante la guerra fredda, e, allo stesso modo, la pace fredda, mantenessero il mondo in una dannosa scissione, ciò non impedì che pulsasse, in esso, un intenso ritmo di vita, che si svolgeva, quasi esclusivamente, nel campo economico. Era innegabile che l’economia, avvalendosi dell’incalzante progresso della ricerca moderna, avesse raggiunto sorprendenti risultati, tali da far prevedere una trasformazione profonda della vita dei popoli. Ma era altrettanto vero che essa, con la sua capacità apparente di produrre beni illimitati, esercitasse sui contemporanei un fascino superiore alle sue possibilità. L’errore di una simile fiducia, riposta nella moderna economia, accomunava, ancora una volta, le due parti in cui era diviso il mondo. In una di esse si insegnava che, se l’uomo aveva dimostrato tanto potere da creare il meraviglioso complesso tecnico-economico di cui si vantava, avrebbe avuto anche le capacità di organizzare la liberazione della vita umana da tutte le privazioni e da tutti i mali di cui soffriva; dall’altra parte, invece, guadagnava terreno la concezione che dall’economia e, in particolare, dal libero scambio, si dovesse attendere la soluzione del problema della pace. Entrambe le dottrine apparivano, a Pio XII, infondate e il corso degli eventi aveva dimostrato quanto fosse ingannevole l’illusione di confidare la pace al solo libero scambio. In una delle parti coesistenti nella pace fredda, la libertà economica, tanto esaltata, ancora non esisteva; nell’altra, era addirittura rigettata come principio assurdo. A prescindere da queste considerazioni, però, era necessario persuadersi che le relazioni economiche sarebbero stati fattori di pace, in quanto obbedienti alle norme del diritto internazionale. La coesistenza nella verità: benché fosse triste notare come la frattura della famiglia umana si fosse prodotta, dall’inizio, tra uomini che conoscevano e adoravano il medesimo Salvatore, nondimeno c’era fiducia che nel Suo nome, si potesse gettare un ponte di pace tra le opposte sponde e ristabilire il vincolo comune spezzato. Il pontefice sperava che la coesistenza avvicinasse l’umanità alla pace e, per giustificare questa attesa, dovesse essere, in qualche modo, una coesistenza nella verità. Non si poteva costruire, nella verità, un ponte tra questi due mondi separati, se non appoggiandosi sugli uomini che vivevano nell’uno e nell’altro, e non sui loro regimi e sistemi sociali. Molti si offrivano per preparare la base dell’unità umana, ma, poiché essa sarebbe dovuta essere di natura spirituale, non erano certamente qualificati per questa opera gli scettici e i cinici, che riconducevano le più anguste verità e i più alti valori spirituali alla scuola di un materialismo, più o meno velato. Né lo erano quelli che non riconoscevano verità assolute e non accettavano obblighi morali, sul terreno della vita sociale. Nell’attesa che il ponte spirituale cristiano, già esistente tra le due sponde, prendesse più efficace consistenza, i cristiani dei Paesi dove si godeva ancora del dono della pace, dovevano fare il possibile per affrettare l’ora del suo ristabilimento universale. Essi dovevano persuadersi che la verità dovesse essere vissuta e applicata in tutti i campi della vita, non restare chiusa in loro stessi. Più gravi conseguenze, concluse Pio XII, avrebbe causato all’ordine sociale e politico, la condotta dei cristiani che non avessero osservato i propri obblighi sociali nel maneggio dei loro affari economici.
Omero ha scritto la storia dell’animo umano, William Shakespeare quella delle passioni umane. Tutto il resto, nella storia della letteratura mondiale, è mero plagio!
Parto da un semplice presupposto. L’uomo non è un cane. In questo senso mi considero figlio di Schopenhauer. Schopenhauer allibì davanti agli esperimenti sugli animali e davanti alla vivisezione e comprese così la smisurata crudeltà umana. Io parto dal medesimo presupposto che l’uomo è fondamentalmente un essere cattivo. Io anche sono un uomo. Sillogismo vuole che sia quindi io stesso cattivo. Appurare che l’umanità è cattiva e che siamo cattivi è il primo passo. Il primo passo verso una difficilissima presa di coscienza. Il primo passo.
La magia del golfo di Napoli, le cui acque appaiono simili a quelle del fiume Leté, il fiume dell’oblio, di cui Dante Alighieri dà contezza poetica nella seconda cantica del divino poema. Nel Paradiso terrestre, sulla cima del monte del Purgatorio, le anime purificate vi si immergono, per dimenticare le loro colpe terrene, prima di ascendere in Paradiso. Allo stesso modo, l’immersione dello sguardo in questo mare di sublime splendore fa obliare il peccato della contemplazione della bellezza!
Ho amici maschi spaventati dalle loro mogli/compagne carceriere, controllati nei movimenti, che siano virtuali oppure reali. Ho amici oppressi, indagati, ammanettati, resi colpevoli, ridotti a figli come i loro stessi figli, né più né meno, ridotti a turisti sessuali. Campano di strategie misere, non hanno più amici e se li hanno – perlomeno ufficialmente – bene che siano accoppiati pure quelli. Ho amici e amiche intrappolati da altri individui senza cervello. Terrorizzati all’idea di far da soli mentre a guardar bene è una vita intera che fanno da soli. Ho gente intorno che vive in libertà vigilata solo perché sotto sotto non sa dove sbattere la testa. Gente deportata, alla mercé di kapò e aguzzini infelici quindi cattivi. Con loro non so mai bene in che lingua parlare. E non posso certo star lì a ragionare di fallimento anche se l’unica parola che ho in mente è quella.
Eugenio Pacelli, asceso al soglio pontificio col nome di Pio XII, è stato il 260° papa della Chiesa Cattolica Romana. Nato a Roma, il 2 marzo 1876, fu eletto papa nel 1939. Segretario di Statodi Pio XI, tentò, in tutti i modi, di scongiurare la Seconda guerra mondiale. Morì il 9 ottobre 1958.
Il radiomessaggio di Pio XII del 24 dicembre 1941 è conosciuto anche con l’espressione Il nuovo ordine internazionale. Il mezzo radiofonico permise al pontefice di comunicare con il mondo intero. Il contenuto, quindi, ancor più che il linguaggio, ne furono, in qualche modo, condizionati. Il radiomessaggio si collocò nel contesto del terribile inverno di una guerra, ormai estesa all’intera Europa, particolarmente violenta e sanguinosa nell’area orientale e balcanica. In una prospettiva di pace e di nuovo ordine internazionale, cinque erano, secondo il pontefice, gli elementi che sarebbero dovuti essere superati: la mortificazione dei diritti dei popoli; l’oppressione delle minoranze nazionali; gli accaparramenti e i monopoli economici; la guerra totale e la corsa agli armamenti e, infine, la persecuzione religiosa. Il nuovo ordinamento, che tutti i popoli desideravano fosse attuato, dopo le rovine della guerra, si sarebbe dovuto innalzare sulla vetta incrollabile e immutabile della legge morale, manifestata da Dio attraverso l’ordine naturale, da lui scolpita nei cuori degli uomini e la cui osservanza sarebbe dovuta essere promossa dall’opinione pubblica di tutte le Nazioni e di tutti gli Stati, con tale unanimità di voce e di forza, che nessuno potesse più osare di porla in dubbio o attenuarne il vincolo obbligante. Ecco, desunti dal messaggio del papa, i presupposti essenziali di un ordine internazionale che, assicurando a tutti i popoli una pace giusta e duratura, arrecasse benessere e prosperità. Nel campo di un nuovo ordinamento, fondato sui principi morali, non vi era posto per la lesione della libertà, dell’integrità e della sicurezza di altre Nazioni, qualunque fosse la loro estensione territoriale o la loro capacità di difesa. Se era inevitabile che i grandi Stati tracciassero il cammino per la costituzione di gruppi economici tra essi e le Nazioni più piccole e deboli, appariva incontestabile il diritto di queste ultime al rispetto della loro libertà nel campo politico, alla efficace custodia di quella neutralità nelle contese fra gli Stati, alla tutela del loro sviluppo economico, poiché soltanto in questo modo avrebbero potuto conseguire adeguatamente il bene comune e il benessere materiale e spirituale dei popoli. Inoltre, in questo nuovo ordinamento, non ci sarebbe stato posto per l’oppressione aperta e subdola delle peculiarità culturali e linguistiche delle minoranze nazionali, per l’impedimento e la contrazione delle loro capacità economiche, per la limitazione o l’abolizione della loro naturale produttività. Quanto più coscienziosamente l’autorità dello Stato avesse rispettato i diritti delle minoranze, tanto più certamente ed efficacemente avrebbe potuto esigere dai loro membri il leale compimento dei doveri civili, comunicagli altri cittadini. Né avrebbero trovato posto i calcoli egoistici, tendenti ad accaparrarsi le risorse economiche e le materie di uso comune, in modo che le Nazioni meno favorite dalla natura, ne restassero sprovviste. A tale proposito, si palesava necessario che una soluzione equa a questa questione, decisiva per l’economia del mondo, fosse trovata metodicamente e progressivamente, con le garanzie necessarie, traendo insegnamenti dalle mancanze e dalle omissioni del passato. Se nella pace futura non si fosse affrontata questa questione, sarebbe rimasta, nelle relazioni tra i popoli, la radice del contrasto, che avrebbe portato, inevitabilmente, a nuovi conflitti. Ancora, non ci sarebbe stato posto, una volta eliminati i più pericolosi focolai di conflitti armati, per una guerra totale, né per una sfrenata corsa agli armamenti. La sciagura di una guerra mondiale, con le sue rovine economiche e sociali e le sue aberrazioni morali, non avrebbe dovuto rovesciarsi sull’umanità per la terza volta. Per tutelare l’umanità da questo pericolo, sarebbe stato necessario procedere ad una limitazione progressiva e adeguata degli armamenti. Lo squilibrio tra un esagerato armamento degli Stati potenti e il deficiente armamento dei deboli, creava un pericolo per la conservazione della pace tra i popoli e consigliava di scendere ad un ampio e proporzionato limite nella fabbricazione e nel possesso di armi offensive. Infine, nel nuovo ordinamento prospettato dal papa, non ci sarebbe dovuta essere alcuna persecuzione della religione e della Chiesa. Dalla fede in Dio era generata la vigoria morale che investiva tutto il corso della vita. La fede non rappresentava soltanto una virtù ma era la porta attraverso la quale entravano nell’anima tutte le virtù. La fede era necessaria ai governanti così come ai semplici cittadini, per costruire una nuova Europa e un nuovo mondo, dopo la guerra. Per quanto riguardava le questioni sociali, che, a guerra terminata, si presentarono più acute, Pio XII, così come i suoi predecessori, individuò delle soluzioni le quali, però, avrebbero potuto portare i loro pieni frutti, soltanto se uomini di Stato e popoli, datori di lavoro e operai, fossero stati animati dalla fede in Dio.
Stanotte scorrevo il film della mia vita. Un ragazzo frivolo eppure consapevole. Questo sono. Ho puntato a divertirmi con quel che avevo a portata di mano. Sempre. A volte forzando un po’ il gioco. Una sola volta ho fatto un frontale indimenticabile, di quelli che balzano in prima pagina, se sapete che intendo. E fu quando mi innamorai. Claudio. Là fu come spararsi acidi in dose da elefante, in una notte sola. Mi hanno raccolto col cucchiaino. Dopo però ho scopato come un barbaro. Usando il profilattico, logico. Lo stesso che per abitudine metto a tutte le persone, anche quelle che non mi fottono, e cioè i conoscenti, gli amici. Non lo faccio apposta. Serve a proteggermi dalla loro vulnerabilità. A rendere me autonomo. Amico di me stesso. Forte abbastanza anche per loro. Frivolo ma consapevole, ripeto. Frivolo ma consapevole.
Se quando muore un papa se ne fa un altro, morta la propria donna se ne dovrebbe cercare subito un’altra. Nel caso di Dante Alighieri non fu così. Andare avanti senza l’amatissima Beatrice, dopo la sua morte, non era affatto facile. Fin quando, però, il sommo poeta disse a se stesso: “Durante Alighieri, eh tu ti devi dare una bella mossa, icché non puoi più vivere così! La bella Beatrice l’è morta e sepolta, ora è beata in Paradiso e tu la devi voltare codesta pagina. Incipit vita nova, comincia una nuova vita”. Dante, quindi, decise di raccontare la storia della sua vita e quella del suo amore per Beatrice, perché, evidentemente, parlarne, innanzi tutto, lo faceva star meglio. La narrazione della sua vicenda esistenziale avrebbe dovuto avere un duplice scopo: essere da esempio per quanti si fossero trovati a soffrire pene d’amore analoghe e mostrare a tutti come l’amata Beatrice fosse divenuta la sua guida spirituale. L’opera si compone di 42 capitoli in prosa, nei quali, con sonetti e canzoni, l’autore la celebra, la loda e la beatifica. Comincia col riferire del momento in cui la vide per la prima volta, all’età di nove anni. Lei ne aveva otto ed era vestita con un abitino rosso, stretto in vita da una cintura, al modo in cui si addiceva alla sua giovanissima età. Iniziò a tremare, si rese subito conto di aver scorto qualcosa di stupendo e di essersene innamorato all’istante. L’amore aveva preso il controllo della sua mente. Molte volte la cercò per rivederla e, finalmente, esattamente nove anni dopo il primo incontro, gli riapparve, per strada, vestita di bianco e accompagnata da due donne. Rivolse lo sguardo verso di lui e, con dolcezza, gli porse il suo saluto, per la qual cosa, certamente, meritò il Paradiso, seppure fosse ancora in vita (in basso a destra: Henry Holiday, “Dante e Beatrice”, 1884). Emozionato e fremente, corse a casa e, solo, la pensò tanto intensamente da cadere candidamente addormentato. Ebbe un sogno: vide una nuvola dello stesso colore del fuoco e, all’interno di questa, un uomo, dall’aspetto minaccioso, seppure col volto felice. Era Amore. Tra le sue braccia, una donna giaceva dormiente, nuda, avvolta in un velo scarlatto. Guardandola intensamente, Dante si accorse che era la stessa persona che lo aveva salutato poche ore prima. L’uomo aveva in una mano qualcosa che ardeva con vigore. Era il cuore del poeta e, svegliata la donna, glielo porse affinché ne mangiasse. Questa, con timore, prese a darvi piccoli morsi. L’uomo, d’improvviso, cominciò a piangere, strinse la donna a sé e si avviò a salire verso il cielo (in basso a sinistra: “Il sogno di Dante“, di Dante Gabriel Rossetti, 1856). Un’angoscia profonda assalì Dante. Si risvegliò all’istante. Il poeta comprese immediatamente il significato funesto di quella visione, la quale, poi, purtroppo, si avverò. Trasfigurò, allora, quella donna in una creatura ultraterrena. Proprio lì ebbe inizio la sua vita nova, la vita rinnovata dalla beatitudine di Beatrice. In composizioni come “Donne ch’avete intelletto d’amore“, “Ne li occhi porta la mia donna amore“, “Tanto gentile e tanto onesta pare“, “Vede perfettamente ogne salute“, viene fuori tutta la lezione che aveva caratterizzato la poetica del Dolce Stil Novo e gli esordi lirici danteschi: Beatrice conferisce virtù a tutto ciò che guarda, scacciando via le negatività, immobilizza quanti le sono davanti con il cuore in mano, è un angelo sceso dal cielo a mostrare miracoli, è una creatura gentile che diffonde dolcezza. Tra poesie ed episodi vissuti, gli eventi giungono, infine, al termine. Il poeta ha chiaro in mente quale sarebbe dovuto essere, da quel momento, il suo compito: esaltare, di fronte al mondo, la sua donna. Decide, così, di non scrivere più nulla di lei, fino a quando non fosse stato in grado di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna (Vita Nova, cap. XLII). Alludeva alla Divina Commedia, nella quale Beatrice:
“così dentro una nuvola di fiori che da le mani angeliche saliva e ricadeva in giù dentro e di fori,
sovra candido vel cinta d’uliva donna m’apparve, sotto verde manto vestita di color di fiamma viva“.
(Purg., canto XXX, vv. 28-33)
apparsagli nel Paradiso terrestre, sulla sommità della montagna del Purgatorio, lo accompagnerà, poi, in Paradiso. Mi son sempre chiesto: esistono un racconto e dei versi più meravigliosi per celebrare una donna? Qualcun altro, prima o dopo Dante, è riuscito a dire della propria donna ciò che lui è stato capace di dire della sua Beatrice?
I miei hanno fatto del loro meglio. La corazza me la sono però fatta da solo. Se un figlio viene su marcio non significa che i genitori non lo abbiano saputo proteggere/amare/corazzare. È il mondo intorno che ti forgia. La famiglia ha sì un peso. Ma fuori delle mura domestiche è terra di nessuno. E questo lo sappiamo tutti. I miei quando avevo dieci anni mica sapevano che ero omosessuale. Eppure a scuola mi sfottevano. Io dal mio inferno mi sono salvato da solo. Io sono esercito di me stesso. I miei hanno contato certo. Ma io ho dovuto fare da me. La famiglia arriva dove può. Bene accettarlo subito. E non credersi degli dei.