Mi sono svegliato con una nostalgia. Sarà che ieri sera al cinema ho visto “Perfetti sconosciuti”. Durante la proiezione ho pensato per tutto il tempo ai miei amici storici, quelli che ho incrociato secoli fa, quelli che ho sentito come la casa. E mi sono detto che la vita, vuoi o non vuoi, tende a separarti proprio dalle persone centrali. Sarebbe facile se dessi la colpa alle loro relazioni stabili, se intravedessi nelle loro compagne tante Yoko Ono, se li ammonissi per i figli che hanno messo al mondo e stanno crescendo, se polemizzassi per il lavoro che risucchia sia loro che me, se demonizzassi tutte le inevitabili fughe che li hanno spinti sempre un poco più in là, sempre leggermente più fuori dal raggio. Sarebbe facile snidare i capri espiatori. Loro farebbero altrettanto. Mi mortificherebbero: Patrick l’egoista, il saccente, lo spocchioso, l’avido, l’opportunista. E dopo staremmo un sacco di tempo a rimbrottarci l’un l’altro; è già accaduto, accadrebbe anche stavolta (che poi invece è il massimo: discutere coi propri amici, una cosa che fa sempre bene e rafforza). E poi ho ripensato a quando avevamo trenta, trentacinque anni e… Non lo so, eravamo adolescenti ancora. Trentacinquenni adolescenti. Dopo è scoppiato qualcosa. Ci siamo sganciati, siamo andati in orbita, loro da una parte e io dall’altra. Chi scrisse: l’amicizia non chiede che ci siano chissà quali interessi in comune ma, per sopravvivere alle frustate della vita, solo buona volontà? E sapete, è vero. Se una cosa dura alla fine è perché lo abbiamo voluto. Contro tutto il resto: il semplice come il difficile.