Tra le cose che non sono riuscito a imparare nella mia vita c’è di sicuro la capacità di adattarmi a un gruppo di persone con cui devo condividere uno scopo. In automatico mi pongo in contrapposizione. L’abilità a risultare simpatico a pelle, in quanto in una stanza con dieci persone di norma me ne resta simpatica una e allora ci piscio contro per dire che è mia. Nella mia vita non ho imparato a dire ciao. Odio dire ciao per convenzione. Il ciao è la stronzata più sopravvalutata del mondo, soprattutto se non è spontaneo ma normalizzante. Non ho imparato a socializzare naturalmente perché soffoco dopo due minuti. Non sono stato capace di creare coesione, omogeneità, ma sono scaltro nel creare divisione e nell’isolare cose e persone. Psicologicamente. Sono un individualista che lavora bene da solo. Per questo scrivo. Per scrivere mi basto. Ma poiché il fuori mi serve per mangiare… Un uomo consapevole del compromesso a cui è dovuto scendere è come me. Un uomo ispido e difficile da amare.
Spesso vorrei essere ancora un quindicenne che domattina deve andare a scuola, che ha chi si prende cura di lui, le cui uniche responsabilità sono i compiti a casa e i compiti in classe. Che ha persone giovani e forti e abili intorno, prospettive e punti di fuga molto distanti, che dorme fino a mezzogiorno e si prepara a occupare solo tutto l’enorme spazio che c’è.
Io quando capito su “Gesù di Nazareth” di Franco Zeffirelli crollo. Tutto in me crolla. Ogni mia convinzione, dogma, paradigma. Sarà che, l’avrò detto cento volte, mi innamorai di Gesù che avevo sette anni. Io davanti a questo Gesù mi sento l’ultimo degli ultimi, il più errante e peregrino fra gli uomini. Al punto che se posasse la sua mano sulla mia testa io non avrei che lacrime. E mi inginocchierei. A baciargli i piedi.
Quando qualcuno dice “mi piacerebbe avere una storia” sta solo esprimendo, magari neppure troppo consapevolmente, un desiderio di appropriazione. In sostanza l’altro (l’oggetto della storia) dovrebbe stare ai patti e consegnarsi integralmente così da soddisfare il desiderio a monte. Se è vero che esistono forme di possessività nell’amicizia, esse sono rafforzate ulteriormente dall’ingabbiamento psicologico che l’amore borghese impone agli individui di essere esperito anzitutto come sentimento tra due soggetti: me-e-te. L’impossibilità di soddisfare appieno un desiderio conduce alla frustrazione, quindi a un perpetuarsi del desiderio medesimo. Un mio amico una volta ha detto: amo la mia compagna perché forse dentro di me so di non possederla completamente. L’amore è in altre parole la vertigine che proviamo affacciandoci sul dirupo. Fondamentalmente un vuoto.
Se nella vita decidi di scrivere, il pudore, la vergogna, sono cose a cui devi rinunciare. Non puoi essere un fariseo e sperare di impastare qualcosa di buono o autentico. Non puoi importi gabbie e poi pensare di farla franca. Alla lunga non ti crederà nessuno. Se decidi di scrivere, devi rompere le cortine. Stracciare il campo. Prendere a calci le porte e farti male. Devono farti male le dita, gli occhi. Devi crollare o sfinirti d’insonnia per un aggettivo che si appoggia male. Trovare una lingua che sia tua e poi di alcuni e poi di tutti. Ammazzarti molto, e ammalarti e amare. Se vuoi scrivere devi amare tutte le cose. Quelle che odorano e quelle che ti fanno vomitare. L’immondizia e il tempo. Devi amare il tempo. Il tempo che ti serve e contro cui dovrai lottare per mettere al mondo i tuoi mostri e i tuoi angeli.
Sia benedetta la giovinezza, la prima soprattutto, e sia benedetta la selvatichezza dei modi ragazzeschi che ignorano le nostre forme raggelanti, il nostro necrotico rapportarci tra noi. Sia santificata la spavalderia sfrontata dell’adolescenza, l’identità in costruzione degli sbarbatelli mentre per un piccolissimo fenomenale istante passa dall’omologazione dei tagli sui jeans a quella ben più mostruosa del nostro terrore di gente adulta, vecchia, già morta.
Noi si campa tutti così. Amici e sconosciuti. Prossimi e distanti. Motivati e menefreghisti. A me di te importa ora e poi non lo so, dopo non so più niente. È la condizione. Non lo facciamo neanche apposta. Ci è interessato tutto troppo prima. Quando tutto era interessante. Infatti che casino, che rivoluzioni, porcatroia. Prima.
Patrick Gentile
René Magritte, “Les Amants”, 1928, Richard S. Zeisler Collection, New York
Ciascuno al mondo chiede di essere ascoltato. Non è chiaro il motivo. Non sono chiare le parole, i linguaggi, i concetti. Le idee stesse non lo sono, sempre così difettose e scarne, specialmente le idee della gente ordinaria, comune, spoglia. Nondimeno cresce questo vocativo: corale, viscerale, impastato ai brusii ben più frastornanti della Storia. Chiunque cerca orecchie cui confessarsi, qualcuno che frattanto non sia divenuto sordo. Anche se non sa cosa dire, anche se non sa come dirlo. Anche se ha perso tutto, comprese le parole, specialmente le parole. È la grande disforia del genere umano, questo vicendevole auscultarsi senza realmente capirsi, senza realmente tradursi. La speranza che chi ci circonda prima o poi si assuma il dovere. Il dovere di noi.
Tre bicchieri di vino ho bevuto su un prato di margherite. Il primo, per misurare la mia resistenza ai tuoi occhi. Il secondo, per acquerellare perle tra le tue mani. Il terzo, per barcollare tra i tuoi capelli increspati. E, infine, l’ebbrezza, per vaneggiare il sapore della tua bocca carnosa.