Oggi c’è stato un momento in cui mi sono sentito come Luca Argentero in Saturno Contro. Dei miei amici sapevo tutto. Quel che avrebbero detto o fatto, cosa amano, cosa no, cosa li ha cambiati, cosa li rende sempre gli stessi. Come quei film memorabili che torniamo a vedere ripetutamente sapendo che non ci metteranno mai di fonte a un imprevisto e di cui conosciamo a menadito ogni singolo fotogramma. Come giorni ampi e senza paura. Notti senza dolore, senza buio. C’è stato un momento in cui la cinepresa ha staccato su un’inquadratura molto larga e dall’alto potevo vedere finalmente ogni cosa. I miei amici e me insieme a loro. Liberi, senza complessi, senza compromessi. Solo la felicità di esserci trovati. In mezzo a questo mondo.
Sia benedetta la giovinezza, la prima soprattutto, e sia benedetta la selvatichezza dei modi ragazzeschi che ignorano le nostre forme raggelanti, il nostro necrotico rapportarci tra noi. Sia santificata la spavalderia sfrontata dell’adolescenza, l’identità in costruzione degli sbarbatelli mentre per un piccolissimo fenomenale istante passa dall’omologazione dei tagli sui jeans a quella ben più mostruosa del nostro terrore di gente adulta, vecchia, già morta.
“Potrei credere solo a un dio che sapesse danzare. E quando ho visto il mio demonio, l’ho sempre trovato serio, radicale, profondo, solenne: era lo spirito di gravità, grazie a lui tutte le cose cadono. Non con la collera, col riso si uccide. Orsù, uccidiamo lo spirito di gravità. Ho imparato ad andare: da quel momento mi lascio correre. Ho imparato a volare: da quel momento non voglio più essere urtato per smuovermi. Adesso sono lieve, adesso io volo, adesso vedo al di sotto di me, adesso è un dio a danzare, se io danzo”.
Un poeta, ogni vero poeta, non compone mai da solo. Lo fa sempre a due mani e a due cuori, insieme con la sua ispirazione (qualunque o chiunque essa sia). Questa, infatti, detta e il poeta scrive. Ecco perché il poeta non è mai solo. Ecco perché il poeta, nell’atto di scrivere, soltanto nell’atto di scrivere, si ricongiunge veramente, materialmente e spiritualmente, con la sua ispirazione! (R. P.)
C’è un cofanetto nel mio cuore, piccolo. Con un penna da calamaio incisa sopra. Lì dentro ci sei tu. Ho dovuto chiuderlo per molto tempo. Ma è sempre lì. Quando lo apro risuona una musica dolce. È la tua voce, che legge i miei versi. La delicata armonia sono le tue mani che accarezzano la mia testa, e le mie che sfiorano il tuo corpo nudo e i nostri occhi, lucidi, che arrivano fin sotto la pelle. L’amore non ha tempo e tu sarai sempre il mio infinito…
Alla fine del 1980 avevo otto anni e una mattina mia madre crollò sulla sedia alla notizia dell’omicidio di John Lennon. Lei che i Beatles li aveva visti all’Adriano. Per la prima volta in vita mia presi coscienza dell’impatto senza eguali che certi artisti musicali hanno sull’umanità. Elvis, Janis, Jim, Bob, Freddie, Michael, Kurt, Amy, Whitney, David, Prince. Ho sempre creduto che quando si parla di angeli custodi, sotto sotto si pensa a queste creature fuori dal comune, slegate dall’ordinario, potentissime, fragilissime, per metà votate ai paradisi artificiali, per l’altra al campo delle grandi e ferocissime lotte fatte in nome del progresso. Se oggi siamo persone migliori, se non ci siamo ancora ammazzati, se resistiamo al passaggio sopra le nostre teste dell’immenso pachiderma, il merito va a loro che sono stati creatori di una bellezza da cui difficilmente riusciremo a separarci. Fermiamoci oggi a pensare a quanta ragione per vivere ci hanno dato queste persone. A quante volte ci hanno preso loro per i capelli, a quanto gli dobbiamo. Non sono i nostri padri, le nostre madri, i nostri fratelli, i nostri figli. Sono semplicemente loro. Loro. I soli veri motivi per cui invece di morire siamo stati incomparabilmente felici.
Sapete perché il vero racconto di un’epoca non si fa mai con le maiuscole dei fatti iperbolici ma con le robette di poco conto, gli apparenti e miseri cascami? Perché le cose grandi ci saranno sempre e narreranno ogni tempo possibile fin dal loro incominciamento. Recuperate i margini invece e comprenderete chi realmente eravate. Comprenderete Proust. Comprenderete Bergson. Comprenderete che siamo la sola generazione al mondo ad aver vissuto prima il futuro e poi il passato.
Ogni giorno, riaprendo gli occhi, facendo colazione, dando carezze al cane, lavandomi i denti, mi chiedo quanto ancora ne avrò. E se ho consumato troppo ossigeno e me ne restasse perciò una dose irrisoria per il tempo avvenire. Quando cioè, nella seconda metà della mia esistenza, dico, dovrò sopportare la morte dei miei genitori, la ricerca di un nuovo posto in cui stare, l’assenza di qualcuno al mio fianco solo perché non voglio fare la fine dei miei amici. Io sono un uomo che insegue unicamente il benessere. Per me il benessere è lo scopo primo, la sola arma che dovremmo tutti possedere per contrastare l’assurdità del vivere. Non sono più quel che ero fino a qualche anno fa. E a volte soffro per non essere una persona tranquilla. Ma è come se non fossi più idoneo all’analisi del contingente. Di ogni singola stupida inutile cosa che accade a me e a voi scorgo ormai solo lo smisurato abisso appena dietro. Lo smisurato abisso. Ed ecco, poi penso: dovrà pur esserci un modo per cavalcarlo. Un modo. Per sopravvivere.
Una raffinatissima lunch reception, sotto l’accorta regia di Paola Savarese Ravenna, ha concluso, a Sorrento, nell’incanto di Palazzo Marziale, la manifestazione di presentazione del pamphlet di Raffaele Lauro “Il Palazzo Marziale di Sorrento”, edito da GoldenGate Edizioni, realizzato con i contributi del professor Salvatore Ferraro e di Fabrizio Guastafierro, per le ricerche storiche, e di Riccardo Piroddi, per il coordinamento editoriale. L’evento è stato onorato dalla partecipazione di autorità locali, rappresentanti istituzionali, manager, personalità della cultura, giornalisti, blogger e amici dei padroni di casa, provenienti anche da Roma e dall’Argentina. Nel loro indirizzo di benvenuto, Salvatore e Paola Ravenna hanno voluto sottolineare il valore dell’iniziativa, finalizzata ad esaltare, in termini di qualità, l’offerta turistica sorrentina. Hanno portato il saluto e la condivisione delle rispettive amministrazioni comunali, il sindaco di Sant’Agnello, Piergiorgio Sagristani, il neo-sindaco di Piano di Sorrento, Vincenzo Iaccarino, e il vice sindaco di Massa Lubrense, Giovanna Staiano. Ha coordinato l’incontro pre-conviviale, Antonino Pane, già capo redattore de “Il Mattino”, il quale ha lanciato una precisa proposta agli altri imprenditori alberghieri di Sorrento e della Penisola Sorrentina: “Questa benemerita iniziativa non può rimanere isolata, come un fiore prezioso nel deserto, ma deve diventare la prima di una lunga serie, puntando ad una collana di pamphlet di analoga fattura, nei contenuti rigorosi e nell’elegante veste editoriale, plurilingue, sui numerosi palazzi patrizi sorrentini. In modo da consentire agli ospiti di Sorrento di riportare, alla fine del loro soggiorno, un prezioso documento tascabile, di facile lettura, che illustri la storia di quelle nostre prestigiose residenze, adibite all’arte dell’accoglienza”. Ha preso la parola, infine, Raffaele Lauro, il quale ha ricordato l’antico vincolo di affetto che lo lega, da decenni, ai padroni di casa, e ha esaltato il rapporto sinergico tra cultura e turismo, tra cultura e gastronomia: “La cultura di un territorio non può essere confinata in un museo o in una biblioteca, che, pur essendo importanti, come custodi del passato, non esauriscono la dimensione spirituale di una comunità speciale, dal punto di vista antropologico, come la nostra. A maggior ragione, in una terra, che ha fatto dell’arte dell’accoglienza, da secoli, il suo specifico socio-economico, il nostro patrimonio identitario si arricchisce anche del rapporto con le colture del territorio e con il legame strettissimo con la qualità e la varietà del cibo, offerto agli ospiti di tutto il mondo”. Il fastoso lunch, ideato e preparato dal giovane chef Andrea Napolitano, ha suggellato una indimenticabile festa sorrentina, veramente di classe e insieme sobria, come nello stile della casa.
Esattamente come la nenia infantile incornicia il climax omicida nella mente dell’assassino di Profondo Rosso, così a volte partono canzoni che mi riportano di prepotenza a Claudio. Era il 1998, era il 1999. Se oggi morissi saprei per certo che la mia esistenza ha raggiunto il suo apice estremo in quei due anni. I due anni in cui sono stato disperatamente, follemente innamorato di una persona che non fossi io. Il mondo mi invase ed io smisi di aderire alla pianura bianca e grigia del Kansas per finire dritto nel technicolor zuccheroso di Oz. Fu l’inferno anche. Luciferino, fiammeggiante. Vidi lacerti del mio corpo sparsi per la strada, budella rovesciate di fuori, come ne La Terza Madre. Eppure. Eppure se oggi morissi saprei di aver vissuto la totalità universale delle emozioni l’unica volta che ho avuto un amore: tragico malato pazzo scriteriato, ma fatto d’amore. Dopo è stata di nuovo la saggia buona landa della vita: lavoro soldi sesso amici film libri. Dopo di nuovo è stato il Kansas. E ora ditemi. Ditemi voi.
Lettere. Un alfabeto inventato che inizia col niente e finisce con te. Sillabe. Unioni di lettere che scandiscono il tempo di queste mie ore prive di te. Parole. Legami di sillabe che compongono lemmi che sanno ripetere soltanto il tuo nome. Versi. Serie di parole che danzano in una partitura superba di un solenne canone barocco. Poesia. Insieme di tempo, di lettere, di sillabe e musica, di nomi e parole. Di versi. Di te.