Se mi chiedessero a bruciapelo a quale momento della mia vita passata vorrei tornare, non avrei dubbi. Un sabato pomeriggio del 1978, ho sei anni e mi trovo coi miei in un cinema per una proiezione di “2001: Odissea Nello Spazio” (credo sia per il decennale). Vedo i miei che sono così giovani, e il film non lo capisco granché ma mi sta segnando indelebilmente. Ho questa percezione netta e precisa di uno scricchiolio vicino. E la sensazione che sarò uno dalle molte domande. Quando sarò diventato grande. Quando sarò un uomo.
Nelle sue Lezioni sulla Filosofia della Storia, che io, da studente universitario, ho amato e che, tuttora, amo ancora tantissimo, il filosofo tedesco George Wilhelm Hegel argomentò, con ragioni troppo lunghe da poter esaudire in poche righe, la superiorità, sugli altri, del popolo tedesco o, meglio, dello spirito del popolo tedesco, per usare la sua terminologia, almeno sin dai tempi della Riforma Protestante. Il sommo Hegel, però, omise un particolare rilevantissimo: fossero anche il miglior popolo del mondo, hanno poco chiara la teoria dei ricorsi storici di Giambattista Vico (un napoletano!), dottrina elaborata circa cinquant’anni prima delle Lezioni hegeliane. Due guerre mondiali, evidentemente, hanno insegnato alcunché ai teutonici. Oggi, infatti, stanno invadendo economicamente l’Europa! Non passerà troppo tempo che, con molta probabilità, si troveranno nuovamente con le pezze al culo, come nel 1945, alla faccia di Hegel!!!
Nei periodi in cui sono più fragile non riesco a trattenere le cose che amo, prendo sentieri poco battuti, ho reazioni inusuali, diminuisce la mia proverbiale aggressività, sono più esposto. E vedo gli altri andarsene. Piano piano. Come se sbiadissero, si smaterializzassero. Io la chiamo rarefazione affettiva circostante. E mi fa paura, sapete? Giacché mi fa capire una cosa. E cioè che non è affatto vero che le cose durano indipendentemente dalla nostra volontà. E se le cose duravano solo perché c’eravamo noi a soffiare sul fuoco, e quando abbiamo smesso si sono spente, ebbene, credetemi, allora è dura. Cosa? Accettare il disinteresse degli altri. Il fatto che non siamo indispensabili, o necessari, od utili. E conviverci, farcene una ragione.
Cominciamo con fornire qualche breve ragguaglio di ordine generale sulla Divina Commedia. Dante, innanzi tutto, non la titolò mai in questo modo, ma semplicemente Comedía. Fu Giovanni Boccaccio ad aggiungere, qualche tempo dopo la morte dell’Autore, l’aggettivo Divina, perché era Dio il padrone dei luoghi visitati dal poeta. Nella Divina Commedia è raccontato il viaggio che il sommo poeta immagina di compiere nei tre regni dell’Aldilà, tra anime dannate, spiriti penitenti e beati nella gloria del Signore. Il poema è diviso in tre cantiche, l’Inferno, il Purgatorioe il Paradiso, composte, ciascuna, di trentatré canti di terzine, tranne l’Inferno, che ne ha uno in più, fungente da prologo generale. Il cammino, cominciato il 7 aprile 1300, giovedì santo, e finito il successivo mercoledì 13, ha come intento principale quello di mostrare agli uomini come stessero le cose dal lato dei morti, a cosa si andasse incontro se si fosse disobbedito a Dio e quali fossero, invece, i premi, se si fosse fatta la sua volontà. Il pellegrino non è solo, perché nell’Inferno e nel Purgatorio è il grande letterato latino Virgilio ad accompagnarlo, mentre, dall’ingresso del Paradiso Terrestre,è Beatrice, la sua Beatrice, a guidarlo sino a Dio. L’Autore, sostituendo la sua giustizia a quella divina, riempie il mondo ultraterreno dei personaggi più diversi: dai re ai grandi condottieri, dagli scrittori antichi ai filosofi, dai protagonisti delle storie della Bibbiae della mitologia classica a quelli dei romanzi cortesi, fino ai concittadini, morti qualche anno prima che cominciasse a scrivere. Questo perché, i lettori, conoscendo di chi si trattava, rimanessero maggiormente impressionati in negativo o in positivo. Bene, ora possiamo andare all’inferno!
Dante si è perso in una selva oscura ed è già impaurito di suo, quando gli si parano davanti tre bestiacce: un leone, una lonza (lince) e una lupa. Il poveretto non sa più che pesci prendere, ma, per fortuna, arriva a salvarlo Virgilio e, insieme, cominciano a scendere verso il baratro. L’Inferno ha la forma di un cono, che arriva fino al centro della Terra, formatosi quando Dio buttò giù dal suo regno Lucifero, rimasto conficcato nel fondo alla voragine. Il luogo della dannazione infinita, tra burroni, precipizi, ripe, dirupi e fossi, è diviso in nove cerchi, nei quali i dannati pagano per le loro colpe: quanto più grossa l’hanno combinata durante la vita, tanto più giù scendono. Si comincia dall’antinferno, in cui sono quelli che vissero tanto per vivere, forse solo perché erano nati (gli ignavi). Oltrepassata la porta dalla scritta terribile della Città Dolente e il fiume Acheronte, dove il nocchiero Caronteprende a remate sulla schiena le animacce che non si muovono a salire sulla sua barca, si trova il Limbo, nel quale bambini e persone perbene nate prima di Cristosospirano e si struggono. Da lì, passando davanti a Minosse, il giudice infernale, il quale attorciglia la coda tante volte quante il numero del cerchio dove lo spiritaccio deve andare a scontare la sua pena, si trovano i veri maledetti da Dio. Nei primi sei cerchi ci sono i cosiddetti incontinenti: quelli che pensavano sempre alla stessa cosa (i lussuriosi); quelli che stavano sempre a masticare qualcosa e ad ingozzarsi (i golosi); quelli che avevano la mano corta, i genovesi e gli scozzesi(gli avari) e quelli che ce l’avevano bucata (i prodighi); quelli che si incazzavano per un nonnulla e quelli che se ne fregavano di ogni cosa per tutta la vita (gli iracondi e gli accidiosi). Nel settimo cerchio Dante trova i violenti contro il prossimo, i violenti contro se stessi e i violenti contro Dio, l’arte e la natura: quelli che dicevano la verità contro le bugie della Chiesa (gli eretici); quelli che avevano il grilletto facile e quelli che ti scamazzavano per rubarti pure le mutande e i calzini (gli assassini e i briganti); quelli che l’avevano fatta finita prima del tempo e quelli che guadagnavano duemila euro al mese e ne spendevano cinquemila (i suicidi e gli scialacquatori); quelli che nominavano Dio, la Madonna e i santi senza motivo, specialmente all’interno di volgari e colorite espressioni (i bestemmiatori); quelli che ti prestavano ventimila euro e dopo un mese ne volevano cinquantamila, sennò ti facevano incendiare il negozio (gli usurai); quegli uomini col vizio di andare con gli altri uomini (i sodomiti). Nell’ottavo cerchio, invece, ci sono i fraudolenti contro chi non si fida: quelli che cercavano di fregarti con il loro bell’aspetto (i seduttori); quelli che volevano imbrogliarti con le belle parole (i lusingatori); quelli che vendevano o compravano cose sacre fuori dalle sagrestie (i simoniaci); quelli che predicevano il futuro, pure se ci azzeccavano (gli indovini); quelli che vivevano facendo imbrogli e pacchi vari(i barattieri); quelli che davanti ti dicevano che eri bravo e dietro che non eri buon a niente (gli ipocriti); quelli che avevano le mani lunghe (i ladri); quelli che con i loro consigli ti sgarrupavano (i cattivi consiglieri); quelli che ti facevano fare a mazzate con tutti (i seminatori di discordia); quelli che stampavano e spacciavano soldi e monete false (i falsari). Infine, il nono cerchio, l’ultima zona, divisa in quattro parti, proprio la peggiore, patibolo eterno dei fraudolenti contro chi si fida: la Caina, con i traditori dei parenti, da Caino, che aveva ucciso il fratello Abele; l’Antenora, con i traditori della patria, da Antenore, che aveva venduto la città di Troia ai greci; la Tolomea, con i traditori degli ospiti, da Tolomeo, un sacerdote biblico che aveva fatto uccidere il suocero e i cognati dopo averli invitati a pranzo a casa sua; la Giudecca, con i traditori dei benefattori, da Giuda, il traditore di Cristo, sommo benefattore dell’umanità. Tutti questi disgraziati sono affogati nel fiume ghiacciato Cocito. E, nell’ultimo posto possibile, il buco del c..o del mondo, inficcatovi come un pecorone, Lucifero, un mostro con le ali di pipistrello e tre teste, nelle cui bocche maciulla i tre più schifosi peccatori di tutta la storia dell’umanità: Giuda, Brutoe Cassio, responsabili della morte dei due veri rappresentanti di quei poteri che, all’epoca di Dante, si dividevano il mondo: il religioso (Gesù) e il civile (Giulio Cesare).
Per comminare le pene alle anime infami, il poeta ricorre al sistema del contrappasso: in base a quello che di male avevano commesso nella vita, così pagheranno per l’eternità. I lussuriosi, ad esempio, lasciatisi trascinare dall’impeto delle passioni, sono sbattuti di qua e di là da venti fortissimi; i suicidi, che avevano voluto privarsi con violenza del loro corpo, sono imprigionati in alberelli secchi e brutti; i lusingatori, dopo aver coperto tutti di belle parole, false come loro, sono immersi nella merda, anche oltre il collo. Dante non si preoccupa affatto di usare un linguaggioadatto a questo luogo: bestemmie, male parole e mandate affanculo, lungo i canti, sono all’ordine del giorno, anzi, della notte, visto il posto. L’intera cantica, con i suoi dannati, è pervasa da una negatività, da un buio, da un rumore assordante e da una puzza così forte da apparire reale e da sembrare vera, soprattutto a quanti ne leggevano allora. Nonostante ciò, da questo vallone di pianti, di strilli e di tormenti vengono fuori, sublimate, figure memorabili, rimaste nella storia della letteratura mondiale: Paoloe Francesca, amanti anche nella dannazione, Farinata degli Uberti, valoroso nemico ghibellino dei guelfi di Dante, Pier delle Vigne, il consigliere dell’imperatore Federico II di Svevia, Brunetto Latini, il maestro di gioventù del poeta, Ulisse, che invitò i compagni a seguir virtute e canoscenza, e il conte Ugolino della Gherardesca, di cui colpisce, ancora oggi, la fine orrenda, insieme con i figli, nella Torre della Muda.
Nel tempo delle divisioni incoercibili, dei fili spinati e delle triple barriere atte a rattoppar la nostra geografia più prossima come punti di sutura cuciti da un macellaio miope. Nel tempo della massima sordità reciproca. Nel tempo in cui rivomitiamo noi stessi dopo esserci cucinati e mangiati. Nel tempo delle solitudini crude ed estreme. Degli isolamenti ottusi e tragicamente rinfrancanti. Nel tempo della massima incomunicabilità, al punto che a confronto Antonioni sembra un pivello. Nel tempo delle morti silenti e delle sparatorie piene di imbarazzo. Nel Far West della disunità. Nel festival delle discrepanze e delle voragini semantiche. Nel tempo del Non. Eccola qua. La parola nata male, la parola vecchia e stantia per eccellenza: unione.
Capisco sempre meno il mondo umano che ho intorno. Ogni volta che mi illudo di possedere strumenti sufficienti per interpretare e prevedere gli altrui comportamenti, puntualmente vengo disatteso. Su tutta la linea. Come non fossi perfettamente in grado di stabilire quanto grandi siano le croci sopra le altrui schiene. Come se mi pensassi un ottimo rimedio per l’altrui via crucis. Come mi fossi convinto, chissà in quale momento della mia vita, che sarei stato una fenomenale giacca a vento per proteggere gli altri dalle loro bufere. Invece non sono niente. Sono una talpa. Un pipistrello cieco. Vado a caso. E non so se esista qualcosa di più inquietante nella vita del dover andare a caso.
Non avevo mai avuto prima d’ora un periodo di così intensa riflessione sul senso della morte. Sarà per la storia che sto scrivendo. Sarà per i fatti che avvengono attorno a me. Sarà per le cose che sento. Ma, ecco, sapete, vedo morte ovunque. Morte nei discorsi, morte negli sguardi, morte nelle approssimazioni come nelle esattezze. Morte nei ricordi. I ricordi soprattutto. Che sono effigi sopra lapidi, sono gargolle. Vedo cimiteri, c’è vento nei cimiteri. Vedo quanto di me giace da tempo in quelle fosse. Prima non volevo accettarlo, non mi rassegnavo. Adesso invece è come se mi stessi arrendendo. Per brevi attimi, infinitesimali quanto decisivi. A ciò che è già sepolto. A ciò che lo sarà.
Si può piangere dinanzi ad un’opera d’arte, esposta in una mostra? Certamente! Soprattutto se una riproduzione fotografica di questo capolavoro è stata usata, qualche anno prima, come immagine di copertina di un libretto di poesie, scritte per celebrare una donna. Si piange perché, ammirandola, quell’opera d’arte diventa quella donna, i suoi occhi, la sua bocca, i suoi seni, le sue mani. Quegli occhi, quella bocca, quei seni, quelle mani diventano versi e letteratura. Quei versi e quella letteratura diventano William Turner e La valorosa Tèmèraire. William Turner e La valorosa Tèmèraire diventano quella donna, i suoi occhi, la sua bocca, i suoi seni, le sue mani. Ecco il miracolo dell’arte e della letteratura! Ecco la funzione dell’arte e della letteratura! Ecco cos’è l’arte, cos’è la letteratura e cosa sono per me (lo rivendico con orgoglio), le donne!
William Turner, “La valorosa Téméraire trainata al suo ultimo ancoraggio per essere demolita”, 1839
Londra, National Portrait Gallery
Uno dei miei problemi più grandi è che conosco pochissime persone che sanno parlare. Parlare l’italiano? Non solo. Esporsi in modo chiaro, pulito. Ecco. Esprimere concetti non alterati dalle grossolanità del dialetto, dei vernacoli, dalle banalità reiterate dei social. Conosco un mucchio di persone che parlano male, che sono confusionarie, verbalmente maldestre, impantanate in gorghi da cui anche la talpa più rodata faticherebbe a uscire. Sprofondanti in sabbie mobili di senso. È come un sonno, un’abulia. L’inabilità alla comunicazione dialogica, al dire a voce, un penoso cicaleccio aziendalistico (ossia la più mostruosa e diabolica forma di asservimento linguistico alle logiche del mercato). Langue terribilmente la “langue” (De Saussure si starà rivoltando nella tomba), per non dire la “parole”. È questa la verità. Uno dei miei massimi problemi è il vuoto lessicale della gente che incontro tutti i giorni. Quell’orribile buco di foni. Quella straordinaria scarsità strutturale di inventiva nel raccontare/raccontarsi. Ogni volta che chiedo a qualcuno di narrarmi una cosa che gli è accaduta, prima mi segno, dopo trattengo sbadigli. Finora ho conosciuto pochissime persone in grado di esprimersi magistralmente. E ogni volta mi sono tolto il cappello, ho aperto i canali uditivi e son stato zitto. Ecco qua. Ora molti di voi sapranno perché quando aprono bocca con me li scavalco e gli parlo sopra senza pietà.
I motivi per cui non mi innamoro. Uhm. Be’, perché innamorato lo sono stato. E lo sono stato in un modo così folle e sperticato che Werther e Ortis e tutta la combriccola dello Sturm und Drang messa insieme mi avrebbero fatto una pippa colossale. D’altronde avevo venticinque anni, diverse ferite sparse, nodi da districare, tensioni idealistiche ed edipiche che facevano subito hybris e tragedia sofoclea (ma pure Saffo sul ciglio della rupe, sapete, roba pesante, yawn). Fu come andare sulla Luna (qualcuno si ricorda ancora Astolfo?). E non tornare indietro. Oppure tornare. Ma cambiato. Tipo Depp in quella cazzata di “The Astronaut’s Wife”. Niente di speciale. Solo la prosa di dopo. Ché un uomo quante volte può allunare nella vita, questa vita? Ditemelo voi che ancora ci credete. Ditemelo voi se vi regge.