È pieno di morti silenziose. Spargimenti di sangue senza testimoni oculari. Assassinii che non fanno notizia, omicidi di cui non frega niente a nessuno. È pieno di strazi sordi e torture invisibili. Pieno di latenza, implosioni, collassi, oblii. È questa nostra vita adulta, questo nostro horror a basso costo proiettato in sale vuote di spettatori. Ci siamo noi e il ghiaccio, noi e certe case disabitate, noi e certi ospedali. Ci sono queste nostre scarne solitudini che si trovano per caso, come in Ultimo tango a Parigi. Relazioni suicide fra sconosciuti di passaggio, utenze disabilitate, credenziali scadute, quantità paurosamente minime di memoria cache. Binari della metropolitana, di nuovo paralleli dopo lo scambio. Di nuovo soli dopo le brutture, dopo l’inefficacia, dopo che tutte le porte si sono chiuse. Dio benedica la giovinezza e la sua corsa folle verso la morte.
Un poeta, ogni vero poeta, non compone mai da solo. Lo fa sempre a due mani e a due cuori, insieme con la sua ispirazione (qualunque o chiunque essa sia). Questa, infatti, detta e il poeta scrive. Ecco perché il poeta non è mai solo. Ecco perché il poeta, nell’atto di scrivere, soltanto nell’atto di scrivere, si ricongiunge veramente, materialmente e spiritualmente, con la sua ispirazione!
Almeno una volta al giorno penso a quel che al mio funerale potrebbe dir di me la gente. Era un cinico, un egoista, se l’è cercata, troppo saputello e retorico, cioè mi dispiace ma non ci si poteva parlare, ma lo sai che non guardava in faccia manco il nipote? Poi era strano, ne aveva una per tutti, andava con chiunque e faceva a noi la morale. Troppo strafottente. Diceva tanto d’avercela con gli snob poi il primo era lui. Certo, poveretto, ancora così giovane. Vabbe’, ma non lascia mica nessuno. Solo quei quattro libri che giusto su Facebook. Già, ma chi si credeva d’essere? Vabbe’, però dispiace. Ma sì che dispiace. Ma tu ci vai alla sepoltura? Boh, no, non credo, tu? Boh.