Archivi giornalieri: 3 Agosto 2016

Cecco Angiolieri e la poesia giocosa

 

 

Un uomo così sfaccendato, bighellone, perdigiorno e sfaticato, credo di non averlo mai incontrato nella storia della Letteratura Italiana. Chissà, può darsi si infastidì pure di nascere, a Cecco-AngiolieriSiena, nel 1260. Il padre Angioliero, della nobile e ricchissima schiatta degli Angiolieri, banchiere solerte e intraprendente, anche se un po’ avaro, a sua volta figlio di un finanziatore di papa Gregorio IX e dei principi di mezza Europa, Angioliero detto Solàfica, si crucciò ogni giorno della sua vita per quel rampollo così diverso da lui, anzi, proprio il suo opposto, tanto da dubitare della sua stessa paternità: “Mater semper certa est, pater numquam! Che cosa hai combinato, moglie?”, soleva ripetere alla consorte, Lisa dei Salimbeni. Nulla poté col suo erede, comunque. Anzi, dovette pure sentirsi augurare, più volte, dal figlio ingrato, la morte. Cecco frequentò le scuole dell’obbligo senza voglia, quel tanto che bastava per prendere il diploma, e si interessò giusto un pochino di politica, combattendo, con i guelfi, contro alcune città ghibelline della Toscana. Spesso fu multato perché, senza chiederne il permesso, si allontanava dal campo di battaglia, andava a imboscarsi, si sdraiava dietro qualche cespuglio e schiacciava un pisolino. Come lui stesso ci ha raccontato, ebbe tre grandi passioni: le donne, la taverna e ‘l dado. Alla sua morte, i cinque figli rifiutarono addirittura il lascito paterno perché c’erano più debiti da pagare di ciò che avrebbero ereditato. “Alla faccia vostra!”, borbottò Cecco quando, fino all’altro mondo, gli giunsero le 20-alimenti_vino_rossotaccuino_sanitatis_casanatense_4182maledizioni della prole. Fu un tipo che, in fin dei conti, volle e seppe godersi la vita: lavorò (si fa per dire!) il minimo indispensabile, spendendo tutto il suo tempo e tutte le sue fortune tra sottane, bottiglie e tavoli da gioco. Cecco era sempre allegro e prendeva in giro tutti. Di sera, all’osteria, quando alzava il gomito, avventori e puttane gli si raccoglievano intorno, non aspettando altro che lui cominciasse le sue tiritere contro le donne e contro chi lo aveva alleggerito al tavolo verde. Anche la sua poesia risentiva delle sbronze della notte prima e del suo modo spensierato e divertente di guardare in faccia alla vita. E infatti, si fece beffe, parodiandolo, dell’amore “sacro” del Dolce Stil Novo. Nei suoi versi, tra dispetti, ripicche, piatti e bicchieri rotti, morti tirati appresso, bisogno continuo di danaro e tradimenti, le donne che lo seguivano nelle bettole malfamate che frequentava, erano spesso popolane volgari, senza alcuna grazia e gentilezza, sessualmente affamate e prive di qualsiasi retta virtù. La sua poesia, per la prima volta nella storia della nostra Letteratura, raggiunse anche i ceti meno abbienti delle città, liberandosi di quell’elitismo, a volte un po’ snob, che gli stilnovisti le avevano conferito, affinché si rivolgesse soltanto a ristrette cerchie di “superiori” amanti del sapere. Sentiamoci questo vivace scambio, da morire dal ridere, tra il poeta e una certa Becchina, la figlia di un cuoiaio:

Becchin’amor! – Che vuo’, falso tradito?
Che mi perdoni. – Tu non ne se’ degno.
Merzè, per Deo! – Tu vien molto gecchito.
E verro sempre. – Che sarammi pegno?
 
La buona fé. – Tu ne se’ mal fornito.
No inver’ di te. – Non calmar, ch’i’ ne vegno.
In che fallai? – Tu sa’ ch’i’ l’abbo udito.
Dimmel’, amor. – Va’, che ti vegn’ un segno!
 
Vuo’ pur ch’i’ muoia? – Anzi mi par mill’anni.
Tu non di’ ben. – Tu m’insegnerai.
Ed i’ morrò. – Omè che tu m’inganni!
 
Die tel perdoni. – E che, non te ne vai?
Or potess’ io! – Tégnoti per li panni?
Tu tieni il cuore. – E terrò co’ tuoi’ guai.
 
(Cecco Angiolieri, Becchin’amor! – Che vuo’, falso tradito?)

Il suo componimento più famoso è una grande e insofferente presa in giro della sua famiglia, dei poeti della sua età e del suo tempo:
 
S’i’ fosse foco, arderéi l’mondo;
s’i’ fosse vento, lo tempesterei;
s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei;
s’i’ fosse Dio, mandereil en’ profondo;
 
s’i’ fosse papa, sare’ allor giocondo;
ché tutti crïstiani imbrigherei;
s’i’ fosse ‘mperator, sa’ che farei?
A tutti mozzarei lo capo a tondo.
 
S’i’ fosse morte, andarei da mio padre;
s’i’ fosse vita, fuggirei da lui;
similmente faria da mì madre.
 
S’ i’ fosse Cecco, com’ i’ sono e fui,
torrei le donne giovani e leggiadre:
e vecchie e laide lasserei altrui.

(Id., S’i’ fosse foco, arderéi l’mondo)

 

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