Cosa ti piaceva prima? Le situazioni calme. Non subire le scosse. Non avere sorprese. Così infatti sistemavi. Una stanza in totale disordine poteva occuparti l’intera domenica. Tuo padre si portava tuo fratello a Villa Ada, tua madre di là, e tu rassettavi. Facendo sparire. Levando cose. Una di quelle domeniche per caso ti uscì fuori una bestemmia. Ti attraversò il cervello come un ferro da calza. Dopo non te ne liberavi. Anzi, più tentavi di distrarti, più il ferro ti affondava nelle meningi. E allora hai pensato che presto Dio sarebbe sceso dall’alto dei cieli per ridurti in un mucchietto di cenere. Non avevi il cane ma un paio di minuscole tartarughe d’acqua che arrivato l’inverno si addormentarono. Siccome non sapevi granché del letargo, credendole morte le hai infilate in una scatola di pastiglie Valda e le hai buttate nel cestino della spazzatura. Le hai ammazzate. Con la tua buona fede. Poi un giorno eri in villeggiatura. E c’era la contadina. Nera, con gli incisivi piombati. Prese il coniglio dalla gabbia. Per le orecchie. E lo sgozzò col coltello da cucina. Eri lì, pietrificato davanti a tutto quel sangue che fiottava, la tua bocca senza saliva. Il coniglio stramazzava e la contadina nera con le capsule nere rideva. E tu certe volte sei ancora lì, in piedi, le gambe come il granito, la sera che scivola sul mondo come una cappa asfissiante, senza colori.
Presumibilmente, nemmeno Francesco Petrarca amò se stesso così tanto, quanto quest’uomo. Se il poeta aretino avesse potuto conoscerlo, certamente avrebbe trovato, come desiderò per tutta la vita, un giustissimo estimatore del suo talento e della sua opera. Pietro Bembo nacque a Venezia il 20 maggio del 1470, figlio di Bernardo, patrizio e senatore della Serenissima, ed Elena Morosini. Trascorse l’infanzia seguendo un po’ dovunque il padre, soggiornando a Firenze, dove si innamorò del fiorentino e di quel modo strano di mangiarsi o non pronunciare alcune consonanti (fenomeno fonetico detto “gorgia”) e a Messina, in cui ebbe modo di imparare il greco da un maestro d’eccezione, Costantino Lascaris. Il genitore avrebbe voluto avviarlo alla carriera politica, ma Pietro preferì quella ecclesiastica, che lo portò fino alla berretta cardinalizia. Sebbene ad un uomo di chiesa dovrebbe essere precluso finanche il concetto di amore, se non rivolto a Dio, il futuro porporato non si fece mancare nulla. Pare, addirittura, che durante un lungo soggiorno a Ferrara, avesse avuto una storia al pepe con Lucrezia Borgia, sorella di Cesare e figlia di papa Alessandro VI, all’epoca sposa di Alfonso d’Este. Certo, invece, fu l’amore per Ambrogina Faustina Della Torre, detta la Morosina, dalla quale ebbe tre figli e con la quale visse sfacciatamente, in barba alla condizione di religioso. Si è sempre detto che il buongiorno si veda dal mattino e, infatti, la prima opera letteraria del Bembo fu proprio un dialogo d’amore, intitolato Gli Asolani, tre libri in prosa con qualche canzone. L’operetta è ambientata ad Asolo, cittadina in provincia di Treviso dove, nella villa della regina di Cipro, tre giovani veneziani ragionano d’amore in occasione delle nozze di una damigella della padrona di casa. Apre il tema Perottino: “L’amore è una parola. L’amore non esiste. E’ soltanto un sogno, causa di tutti i malesseri e di tutti i dolori”. Seguita il tema Gismondo: “Non è vero! L’amore è la cosa più bella che possa dare la felicità, la gioia e il piacere”. Conclude Enrico Maria Papes – no, scusate, quelli erano I Giganti (dalla canzone “Tema”, I Giganti, 1966) – conclude Lavinello: “Cari amici, voi non avete capito proprio un bel niente! L’amore è il desiderio della vera bellezza e più si è bello, tanto più si è degni d’amore”. Io aggiungerei: “Allora chi è brutto va a fare l’eremita!” Bembo certamente non lo fece, nonostante, a vedere un suo ritratto, non è che fosse proprio un adone, anzi.
Le Prose della volgar lingua e le Rime
Prose di Messer Pietro Bembo nelle quali si ragiona della volgar lingua scritte al Cardinale de’ Medici che poi è stato creato a Sommo Pontefice et detto Papa Clemente Settimo divise in tre libri. Questo è il titolo completo del dialogo, che l’Autore immagina abbia avuto luogo a Venezia, nel salotto di suo fratello Carlo, tra lo stesso Carlo, Ercole Strozzi, Federico Fregoso e Giuliano de’ Medici. Gli schieramenti: a favore del volgare, Carlo Bembo, Giuliano de’ Medici e Federico Fregoso; per il latino, Ercole Strozzi. L’oggetto principale della dotta discussione verte sulle caratteristiche della lingua da usarsi quando si vuole scrivere in volgare. Bembo, il quale parla per bocca di suo fratello, sostiene che la lingua perfetta sia il fiorentino dei grandi scrittori del Trecento. Quindi, è da impiegarsi quello di Petrarca, quando si vogliono comporre poesie, e quello di Boccaccio, quando si vuole scrivere in prosa. Ma non si ferma qui, perché tenta anche di stabilirne una grammatica, con esempi e dimostrazioni. Le Prose della volgar lingua sono state un’opera fondamentale per lo sviluppo della lingua italiana. Conclusero, in parte, quel dibattito, che andava avanti da un secolo e mezzo, sul volgare, sul latino e sui loro usi. Furono parte della base teorica di quel movimento culturale cinquecentesco, detto Classicismo, che influenzò le esperienze letterarie di quel secolo.
L’allegro cardinale, inoltre, durante tutta la sua vita, compose sonetti e canzoni, ispirandosi interamente allo stile del Petrarca (immagine in alto). Esse rappresentano il compendio “pratico” alle Prose della volgar lingua. “Vi ho spiegato come si fa. A adesso ve ne do l’esempio”, è come se avesse voluto dire.
Crin d’oro crespo e d’ambra tersa e pura, Ch’all’aura su la neve ondeggi e vole, Occhi soavi e più chiari che ‘l sole, Da far giorno seren la notte oscura.
(Crin d’oro crespo e d’ambra tersa e pura, vv. 1 – 4)
Io ardo, dissi, e la risposta invano, Come ‘l gioco chiedea, lasso, cercai; Onde tutto quel giorno e l’altro andai Qual uom, ch’è fatto per gran doglia insano.
(Io ardo, dissi, e la risposta invano, vv. 1 – 4)
Amor, mia voglia e l’vostro altero sguardo, Ch’ancor non volse a me vista serena, mi danno, lasso, ognor sì grave pena, ch’io temo no l’soccorso giunga tardo.
(Amor, mia voglia e l’vostro altero sguardo, vv. 1 – 4)
Se delle mie ricchezze care e tante, E sì guardate, ond’io buon tempo vissi Di mia sorte contento, e meco dissi: – Nessun vive di me più lieto amante;
Gli inglesi, per quel che concerne la storia del pensiero, si sono distinti dagli altri popoli europei, antichi e moderni, a causa di quella impronta, ad essi del tutto peculiare, tendenzialmente antimetafisica ed essenzialmente pragmatica. A scorrere rapidamente quella storia, infatti, ciò può essere facilmente notato: quando il Medioevo volgeva ormai al termine, mentre nelle scuole del resto d’Europa i dotti erano ancora impelagati nelle dispute scolastiche sulle prove dell’esistenza di Dio, sugli universali, sulla Trinità e sui quodlibeta, Roger Bacon (immaginea sinistra), filosofo, scienziato e mago, il Doctor mirabilis (Dottore dei miracoli), fondava la gnoseologia empirica, secondo la quale l’esperienza sia il vero e unico mezzo per acquisire conoscenza del mondo. Tre erano, secondo il filosofo, i modi con cui l’uomo potesse comprendere la verità: con la conoscenza interna, data da Dio tramite l’illuminazione; con la ragione, la quale, però, non è bastevole, e, infine, con l’esperienza sensibile, ovvero tramite i cinque sensi, il non pus ultra di cui esso possa disporre e che gli consente di avvicinarsi alla reale conoscenza delle cose. Il frate francescano William of Ockham, il Doctor invincibilis (Dottore invincibile), con il suo famosissimo rasoio, semplificò al massimo la spiegazione dei fenomeni, mostrando l’inutilità di moltiplicare le cause e di introdurre enti al di là della fisica: “Frustra fit per plura, quod fieri potest per pauciora” (è inutile fare con più, ciò che si può fare con meno). Francis Bacon (immagine a destra), il filosofo dell’adagio “Sapere è potere”, padre della rivoluzione scientifica e del metodo scientifico nell’osservazione e nello studio dei fenomeni attraverso l’induzione, meglio definita e rinnovata rispetto a quella aristotelica, fu avversatore dei pregiudizi, da lui chiamati idola (idoli o immagini), che impedivano la reale conoscenza e intelligenza della natura, e fu ispiratore di un’altra grande mente inglese, Isaac Newton, lo scienziato-osservatore empirico per eccellenza. Thomas Hobbes diede spiegazione a tutti gli aspetti della realtà col suo materialismo meccanicistico, annullando la res cogitans (sostanza pensante) di Cartesio e il suo ambiguo rapporto con la res extensa (sostanza materiale), retroterra sul quale basò la sua concezione della natura umana, della condizione di guerra di tutti contro tutti (l’homo homini lupus), del patto di unione e del patto di società, dai quali sarebbero poi nati, rispettivamente, la civiltà e, attraverso la rinuncia da parte di ogni uomo al suo diritto su tutto e la cessione di questo al sovrano, lo Stato, il Leviatano. John Locke (immaginea sinistra), l’empirista, l’autore di An essay concerning human understanding (Saggio sull’intelletto umano), sosteneva che tutta la conoscenza umana derivasse dai sensi. Indagò le idee e i processi conoscitivi della mente, criticando l’innatismo cartesiano e leibniziano, e, tra l’altro, fu strenuo propugnatore del liberalismo politico e della tolleranza religiosa. David Hume, l’estremo dell’empirismo inglese, asseriva, come Locke, che la conoscenza non fosse innata, ma scaturisse dall’esperienza. Egli negò sia la sostanza materiale che quella spirituale, tutto riducendo a sensazione e stato di coscienza. Demolì il concetto di causa, ritenendolo mero costume della mente, suscitato dall’abitudine, e postulò, quali conoscenze universali e necessarie, soltanto quelle della geometria, dell’algebra e dell’aritmetica. Adam Smith (immaginea destra), filosofo ed economista, teorizzò l’idea che la concorrenza tra vari produttori e consumatori avrebbe generato la migliore distribuzione possibile di beni e servizi, poiché avrebbe incoraggiato gli individui a specializzarsi e migliorare il loro capitale, in modo da produrre più valore con lo stesso lavoro. E, infine, l’Utilitarismo di Jeremy Bentham e John Stuart Mill prima, con tutte le implicazioni morali (o moralmente inglesi), legate ai concetti di “utile” e di “felicità“, e quello di Henry Sidgwick (immagine a sinistra), poi, col suo edonismo etico, mediante il quale aggiunse importanti precisazioni ai concetti dell’utilitarismo classico. Queste riflessioni filosofiche hanno certo corrispettivo pratico allorquando si osservano attentamente tutte le sfaccettature dell’English way of life e dei princìpi che, ancora oggi, lo animano. Il motivo per cui gli inglesi, fino a circa settant’anni fa, hanno realmente dominato il mondo (basti pensare al British Empire e al Commonwealth), ha le proprie basi nel pragmatismo che, dal 1200 in poi, ha caratterizzato le sue classi intellettuali e, di riflesso, quelle deputate all’azione. Un popolo non condizionato dalla religione, come lo sono stati, dal Medioevo alle soglie dell’età contemporanea, la maggior parte dei Paesi cattolici europei, libero di sottomettere altre genti, che non ha combattuto in nome di Dio ma degli uomini, era destinato ad avere il ruolo che ha avuto e che ancora ha. Del resto, negli stessi anni in cui un bardo venuto dalle Midlands incantava gli spettatori del Globe Theatre a Londra, mettendo in scena l’amore tra Romeo e Giulietta, la filosofia dell’essere e del non essere e la gelosia di Otello, la regina Elisabetta I nominava baronetto il più astuto e lesto pirata della storia: sir Francis Drake!
Quando dicesti che è meglio non porsi domande, – sai, per esperienza -, sentii il dramma della collisione imminente sul fondo doppio di un bicchiere, buono per ingrandirmici i piedi attraverso. Hai ragione, il mondo umano che cos’è. Lo ammisi sottovoce, eccoci: noi apatici, noi sciancati e sordi. Martoriata sapienza, che per oggi almeno sia un rintanarsi di granate, il varco al culmine del vivere. Fosse anche sudare la cresta, comunque basterebbe. E, se credi, le maestosità severe purché sia prima di un accartocciarsi dei seni. O tu ci lasci solo il germoglio naufrago, il vero infido mostruoso. Vecchia speranza disperata. Assassina vile. Non la rabbia. Oblio, mormorio, ch’io ti supplicavo contro i giorni percorsi dalla terribilità che annera. Annega. La putredine uniforme di questo vissuto. Nonostante il mondo umano, che torno torno, è solo un posto muto.
Capita, talvolta, che i nuovi strumenti della tecnologia, sovente, e a ragione, vituperati, possano divenire, di contro, forieri di positività, altrimenti non raggiungibili. E’ questo il caso occorso a me. Grazie ad un social network, infatti, ho potuto stringere una tra le amicizie, seppure ancora soltanto virtuale, più intellettualmente stimolante della mia vita: quella con Patrick Gentile, autore di questa collectanea di pensieri, di riflessioni, di sentenze. Avendolo ospitato, quotidianamente, per poco più un anno, sul mio blog, è stato deciso di raccogliere tutto il prezioso materiale prodotto, per realizzarne una pubblicazione. Ho imparato a conoscere Patrick nel modo in cui amo di più. Attraverso la letteratura. Patrick è divenuto, per me, non un personaggio delle letteratura, ma frammento stesso della letteratura, perché ha mostrato, direi scoperto, giorno dopo giorno, a me e ai lettori del mio blog, parti di sé, a volte con garbo, altre volte con durezza, ma sempre con onestà. L’onestà di chi, davanti allo specchio, non ha alcuna paura di vedervi riflessa, chiara e limpida, l’immagine della propria anima. Splendente! Ciò, per me, è letteratura.
Patrick si muove tra le angosce di questo nostro tempo tormentato. Per quanti sono stati giovanissimi tra la fine degli anni ’80 e i primi ’90, vivendo, con gli occhi di ragazzini, quella stagione, che sembrava potesse portare a personale compimento, nella maturità, il percorso di sviluppo materiale e morale, avviato in Italia fin dagli anni ’60, questo tempo si è rivelato, invece, essere un deserto. Di opportunità, di realizzazioni, di valori. La profonda analisi poetica di tali elementi pervade le riflessioni di Patrick. Più volte, in altri luoghi, l’ho definito quale “penetrante e crudo cantore della realtà del nostro tempo”. Mi sovviene l’immagine di un albero spoglio, tra i cui fitti rami, aggrovigliati in un intrico soffocante e immobilizzante di sensazioni, fondamento della percezione dell’esistente, ci sia un nido. L’anima dell’Autore. Questa, offre rifugio al lettore, proteggendolo benevolmente, dopo averlo edotto sul presente, spatolato con l’asprezza della lucida presa di coscienza e pennellato con la tenue malinconia del ricordo. Ma è un nido intrecciato di fili d’erba e di fiori. I fiori sono il “fare” della Natura, la “pars construens” dell’Universo. Il “fare” è il futuro del mondo. E’ il brillio dal quale si accende e si illumina il futuro. Il nido di Patrick è anelito, è “conatus” al futuro. Alla bellezza del futuro. Le pagine che seguono ne sono prova. Mai, più di oggi, è capitale tendere se stessi al futuro! Questa raccolta è il granello di luce che l’imperatrice di Fantàsia tiene tra le mani. E’ tutto quanto rimasto di un mondo che Patrick, io e molti della nostra generazione avevamo immaginato diverso. Allo stesso tempo, però, rappresenta l’occasione per crearlo da noi un nuovo mondo. Proprio come capitò al piccolo Bastian.
In occasione del 695° anniversario della morte di Dante Alighieri (14 settembre 1321 – 14 settembre 2016), la Libreria Indipendente di Sorrento ha reso omaggio al poeta con la videoproiezione della “Lectura Dantis: INFERNO. I Personaggi”, realizzata da Riccardo Piroddi, pubblicista, blogger e autore, nel 2011, del saggio dal titolo, Storia (non troppo seria) della Letteratura Italiana, Edizioni Albatros.
Sin dai decenni immediatamente successivi alla morte di Dante cominciarono a tenersi pubbliche letture dei suoi versi, sovente accompagnate da interventi analitici di commentatori. Tra i primi, Giovanni Boccaccio, nel 1373, a Firenze. La grandezza e l’immutato fascino dell’opera del Sommo Poeta si aprono, oggi, alla tecnologia, pur nella secolare tradizione della lectura espressiva e della lectura esegetica. Questo è lo spirito che anima la realizzazione di Riccardo Piroddi. Immagini, musiche, effetti sonori e gli stessi versi danteschi, magistralmente interpretati dalla potente voce recitante di Giulio Iaccarino, hanno dato vita ad alcuni tra i più celebri personaggi dell’Inferno, prima cantica del “Divino Poema” (Paolo e Francesca, Farinata degli Uberti, Pier delle Vigne, Ugolino della Gherardesca e altri), le cui vicende storiche e poetiche sono state oggetto di riflessioni, da parte dell’autore. In conclusione della serata, Mimmo Bencivenga, proprietario della Libreria Indipendente di Sorrento, ha letto pagine su Dante e Beatrice, tratte dalla “Storia (non troppo seria) della Letteratura Italiana” di Riccardo Piroddi.
LA LIBRERIA INDIPENDENTE DI SORRENTO OMAGGIA DANTE ALIGHIERI, NEL 695° ANNIVERSARIO DELLA MORTE, CON LA “LECTURA DANTIS: INFERNO. I PERSONAGGI”, REALIZZATA DA RICCARDO PIRODDI
In occasione del 695° anniversario della morte di Dante Alighieri (14 settembre 1321 – 14 settembre 2016), la Libreria Indipendente di Sorrento rende omaggio al sommo poeta con la videoproiezione della “Lectura Dantis: INFERNO. I Personaggi”, realizzata da Riccardo Piroddi, pubblicista, blogger e autore, nel 2011, del saggio dal titolo, “Storia (non troppo seria) della Letteratura Italiana”, Edizioni Albatros. L’evento culturale si terrà sabato 17 settembre 2016, alle ore 20.00, presso i locali della libreria, in Corso Italia, 258/c, a Sorrento. “Sin dai decenni immediatamente successivi alla morte di Dante – ha dichiarato Piroddi – cominciarono a tenersi pubbliche letture dei suoi versi, sovente accompagnate da interventi analitici di commentatori. Tra i primi, Giovanni Boccaccio, nel 1373, a Firenze. La grandezza e l’immutato fascino dell’opera di Dante si aprono, oggi, alla tecnologia, pur nella secolare tradizione della lectura espressiva e della lectura esegetica. Questo è lo spirito che anima la mia realizzazione. Immagini, musiche, effetti sonori e gli stessi versi danteschi, magistralmente interpretati dalla potente voce recitante di Giulio Iaccarino, danno vita ad alcuni tra i più celebri personaggi dell’Inferno, prima cantica del Divino Poema (Paolo e Francesca, Farinata degli Uberti, Pier delle Vigne, Ugolino della Gherardesca e altri), le cui vicende storiche e poetiche saranno oggetto di mie riflessioni nel corso della serata”.
Te ne stai lì, acquattato e zitto, nascosto nel ciglio torvo delle ore maiuscole, fra le grinze di un divano, randagio e curvo ma a modo tuo aggraziato.
E t’ingozzi, silenzioso cecchino, in combutta col pelo sregolato del sonno. Consumi e rosicchi, corto e amaro spago, passato per la cruna, divenuto capestro, acaro elegante infilato nelle trame avite dell’ultima sciarpa, ultima scialuppa, ti arruffi in coda alla truppa, acquattato e zitto, nel garbuglio umido della reginella e delle barbe caprine.
E scalfisci e t’umili, per te passa lo scorcio dei ricordi migliori. Acquattato e zitto, filo di requie, lama che gratta dal bassofondo congiunto al soffitto, acquattato, lurido e zitto.
Il tuo seno è velluto che sboccia dal futuro del mondo e travolge ogni argine noto. E’ tormento e follia. Il tuo seno è velluto che intossica, è filtro amoroso e insieme veleno. Il tuo seno è velluto vestale è sacro, è divino, è puro e beato, benedetto e perfetto. Il tuo seno è velluto dannato, è infernale e terribile, tremendo e pauroso. Superlativo assoluto. Il tuo seno è velluto che riveste le porte del sole, è sogno con le ali bagnate che mi illude di essere tale, per avverarsi, al risveglio, sul tuo seno di velluto d’aurora.
Nel futuro del verbo fare ci siamo io e te a piedi scalzi, sforbiciati da uno strappo di sole, due rami di leccio intrecciati alla neve, la coniugazione breve fra le messi del grano, la dismisura del giusto in un pugno lieve o una stretta di mano.
Dal giorno che gratta alle profondità dell’erba, a queste unghie rapaci, siamo io e te polpacci e caviglie, due franche radici. Non il capello che arruffa, né i buoni auspici, ma una breccia puntuta, questa ghiaia cruda, la vigna, la cantina, la radura brada.
A volte per una fervida mutevolezza di gronde formeremo parentesi tonde, poi quadre poi graffe, frazioni da complicare, nel futuro del verbo fare dove c’è un tal nostro modo di stare un po’ come due transenne al singolare, fra un prima ed un dopo, inesperte teorie da sbandierare in cerca del punto per poi andare a capo.
Nel futuro del verbo fare c’è un incontro di ascisse a tracciare il diagramma fedele di certe piccole inezie, minuzie, discordie represse, il mio scattare mentre tu annoti attenta le scosse pronunciate come queste solenni promesse, la mia forza che si fa conca attraverso le tue mani che addosso mi stanno e si fanno convesse.
Dopo la rada, la cala opposta alla foce, se nel futuro del verbo fare c’è un campo contiguo o l’occhio bruciato del mare, sarà doppia la voce, il rispetto del dare con cui spezzeremo il silenzio tenace, che è giovane ora ma tra le labbra loquace, e fiorisce, e perdura, e di noi due dice, e di noi due tace.