“I professori della domenica. Così ci chiameranno: e chi se ne frega. Non vogliamo insegnare, vogliamo comunicare. E allora a chi ci chiederà il perché di questa rivista, diremo a gran voce: perché una rivista come ‘La Lumaca’ non c’è e quello che vuole fare è chiaro e lo porta scritto sotto il titolo: vuole essere un elogio della lentezza e del contrappunto. Elogio della lentezza vuol dire che ribadiamo la necessità di non correre, ribadiamo la necessità di soffermarsi sulle cose, di poter parlare di altro; elogio del contrappunto vuol dire che ribadiamo la necessità di una cultura che vada per strada, che sappia comunicare, che sappia essere nel mondo. ‘La Lumaca’ è il luogo degli artisti che vogliono confrontarsi su un tema, di pensatori (non di opinionisti), di politici (non di amministratori)”. Queste le parole del professor Domenico Palumbo, fondatore della rivista, dall’editoriale del primo numero de “La Lumaca”, nelle edicole di Massa Lubrense, a partire da martedì 1 novembre 2016 e disponibile, gratuitamente, on-line, sul blog www.rivistalalumaca.blogspot.com. “Quattro pagine – continua Palumbo – che usciranno ogni 15 giorni, a costo zero (per il lettore): gli articoli saranno in relazione con una parola-chiave specifica, tema unico indagato, secondo differenti e opposte visioni del mondo”. Redattori iniziali della rivista che, comunque, è aperta a tutti i contributi, sono l’archivista Gennaro Galano e il pubblicista e blogger Riccardo Piroddi. “Noi vogliamo un posto in Europa e nel mondo – conclude il fondatore Palumbo – non una sedia qui o lì: vogliamo radunare avanguardisti, progettisti di futuro, appassionati di radici e amanti del territorio”.
Senza di te tornavo, come ebbro, non più capace d’esser solo, a sera quando le stanche nuvole dileguano nel buio incerto. Mille volte son stato così solo dacché son vivo, e mille uguali sere m’hanno oscurato agli occhi l’erba, i monti le campagne, le nuvole. Solo nel giorno, e poi dentro il silenzio della fatale sera. Ed ora, ebbro, torno senza di te, e al mio fianco c’è solo l’ombra. E mi sarai lontano mille volte, e poi, per sempre. Io non so frenare quest’angoscia che monta dentro al seno; essere solo.
(Pier Paolo Pasolini, “Senza di te tornavo“, da “Tutte le poesie”, Volume 2, “I Meridiani” Mondadori, 2003)
Edward Hopper (1882-1967), Opere (video da www.restaurars.altervista.org)
Ascoltate una donna quando vi guarda, non quando vi parla. Nei suoi occhi vedrete voi stessi e la vostra storia, velata dalla struggente malinconia del ricordo e della sua trasfigurazione in ideale. Ma, soprattutto, ravviserete la delicatezza della redenzione. Gli occhi di una donna sono il solo luogo in cui l’abisso conduce alla purificazione, all’empatia universale.
Non pagherà rovistare il bosco che incupa se crolliamo bocconi ai rimorsi del tronco, inabili per le radure più cave, recisi alla base come risultato d’una selezione efferata. Noi salutati dalla vecchiaia che orba incede su zampe di porco, ha stivali di sterco, vesti di rovina. Per familiarità congenita a quel che di più modesto ci riservò a suo tempo l’attimo fragile che zampettammo nel latte. Presi a sassate – stralci di rimproveri semiseri e puerili. O dietro porte sbattute, il fracasso. Che ci fece l’amore prima del sangue. Come i tuoi amanti sbandati. E luridi. Come i tuoi padri. Che prima ti furono figli. Non ci varrà uno sputo nel fango. Calpestare il domicilio straniero. Lo sforzo inumano d’una foresteria nel tinello. Ribattezzare la fatica del tarlo a pensione nei tuoi cassetti, l’asprezza dei terrazzi esposti al buio del Nord, il buco dell’alba che impaglia l’Orsa Maggiore. Non griderà questa pupilla grondante di nebbia, il ginocchio che dalla rabbia storce e poi piega, ribollire il fragore dell’angelo affiorato dal viola dei pruni. Se brandiremo la falce. Per ferirci a ogni ora. Abbatterci l’uno con l’altro, sazi, nauseati, controvoglia. Nel sonno dei principii che adombra il rossore ondivago del bimbo. Siamo cani tramortiti dalle carezze superflue, i guinzagli perduti. Questa è la morte. Che adagia sul prato le risa e spegne le torce e gli abbai finiti.
Questa pubblicazione, firmata daRaffaele LauroeRiccardo Piroddi, in uscita a dicembre 2016, in solo formato eBook, raccoglie, in ordine cronologico, nella versione italiana e, di seguito, in quella inglese, le interviste rilasciate daLauro, autore del romanzo “Dance The Love – Una stella a Vico Equense”, terzo e ultimo capitolo de “La Trilogia Sorrentina”, e le testimonianze dei relatori, raccolte ed editate daPiroddi, alle manifestazioni culturali di presentazione dell’opera, dal luglio al novembre 2016, da Vico Equense (27 luglio) a Presenzano (19 novembre). Un omaggio collettivo alla protagonista del romanzo, la grande danzatrice russaVioletta Elvin, nata Prokhorova. Un ringraziamento doveroso agli organizzatori delle manifestazioni e ai relatori, per il loro prezioso contributo di riflessione sull’opera.
La seconda versione del celebre dipinto di Henri Matisse, “La Danse” (1910, olio su tela, 260×391 cm), conservato presso il Museo dell’Hermitage di San Pietroburgo, ispira la copertina del libro. Il capolavoro fu commissionato da Sergej Ščukin, grande collezionista d’arte russo, il quale acquistava, con regolarità, i lavori del pittore francese. Sulla cover, realizzata da Teresa Biagioli per la GoldenGate Edizioni, viene riportato anche un commento di Matisse sul quadro, nel quale predominano tre colori (il blu, il rosso e il verde): “Il mio obiettivo è rappresentare un’arte equilibrata e pura, un’arte che non inquieti né turbi. Desidero che l’uomo stanco, oberato e sfinito, ritrovi, davanti ai miei quadri, la pace e la tranquillità”.
La terribile ombra d’un invisibile Potere fluttua in mezzo a noi, benché non vista – e visita questo svariato mondo con incostante ala, come le brezze dell’estate che strisciano di fiore in fiore. Come raggi di luna che dietro una montagna fitta di pini scrosciano, visita con sguardo incostante il cuore e il volto di ogni uomo; come colori e armonie la sera, come nuvole disperse nel chiarore delle stelle, come il ricordo d’una musica fuggita, come qualcosa che per sua grazia possa essere cara, e tuttavia più cara per il suo mistero.
II
Spirito di bellezza, che consacri coi tuoi colori ogni pensiero e ogni forma umana su cui splendi – dove te ne sei andato? perché trascorri e lasci il nostro stato, questa oscura e vasta valle di lacrime, deserta e desolata? Chiedi perché per sempre il sole non tessa arcobaleni sul torrente, perché quello che appare, scolori e si dissolva, – perché paura e sogno e morte e nascita sulla giornata della terra gettino un’ombra tale, – e all’uomo venga dato tanto d’amore e d’odio, e di sconforto e di speranza?
III
Da mondi più sublimi nessuna voce ha mai dato ai poeti o ai saggi la risposta – perciò i nomi di Dio, dei demoni e del Cielo, non sono che tracce del loro vano sforzo, incanti fragili, che recitati non aiutano a staccare da tutto quello che sentiamo e vediamo il dubbio, il caso e la mutevolezza. Soltanto la tua luce – come una nebbia sopra i monti, o musica che il vento della notte manda attraverso uno strumento immoto, o il chiaro della luna sulle acque, dà grazia e verità al sogno inquieto della vita.
IV
Speranza, Amore, e Orgoglio, passano come nuvole e ritornano, per qualche incerto attimo concessi. L’uomo sarebbe immortale, e onnipotente, se tu, ignota e terribile, fissassi col tuo glorioso seguito dimora nel suo cuore. Tu messaggero degli affetti che crescono e declinano negli occhi degli amanti – tu – che alimenti il pensiero umano, come l’oscurità una fiamma morente! non ti partire come la tua ombra venne, non ti partire – o la tomba sarà come la vita e la paura, un’oscura realtà.
V
Fanciullo ancora, andavo in cerca di spettri e attraversavo fugace stanze vigili, rovine e anfratti, e boschi al chiarore delle stelle, con timorosi passi perseguendo speranze d’alto conversar coi morti. E invocavo i nomi velenosi che nutrono la nostra giovinezza; non fui ascoltato – non li vidi – quando, mentre ero assorto sul destino del vivere, nel dolce tempo in cui i venti corteggiano tutte le cose vive che si destano per recare nuove gemme e fiori, – all’improvviso, la tua ombra cadde sopra di me; io detti un grido, e giunsi le mani in rapimento!
VI
Allora feci il voto di consacrare le mie forze a te e a ciò che t’appartiene – non l’ho mantenuto? Con cuore palpitante e occhi in lacrime, adesso dai loro taciti sepolcri invoco i fantasmi di mille ore, che in pergolati chiari di visioni, d’ardente studio o dilettoso amore, hanno vegliato con me l’invida notte – e sanno che mai gioia illuminò questa mia fronte non giunta alla speranza che tu avresti liberato il mondo dalla sua oscura schiavitù che tu – terribile splendore, avresti dato ciò che la parola non può esprimere.
VII
Il giorno diventa più solenne e più sereno, trascorso il meriggio – c’è un’armonia in autunno, e una luce nel suo cielo, che nell’estate non si sente e non si vede, come se non potesse esserci, come se non ci fosse stata! Così il tuo potere, che come la verità della natura sulla mia inerte giovinezza discese, alla mia vita d’ora innanzi doni la sua calma – a uno che ti adora, e venera le forme in cui sei infuso, e che i tuoi incanti, spirito bello, spinsero a temere se stesso, e amare tutti gli uomini.
(Percy Bysshe Shelley, Inno alla bellezza intellettuale, 1816)
Sandro Botticelli, “La nascita di Venere” (1482-1485) tempera su tela di lino (172×278 cm), Firenze, Galleria degli Uffizi (video da www.restaurars.altervista.org)
Se incapaci saremo di ricondurre alla notte la via, o indomabilmente affrancati in prossimità del rovo, (fratello di colpe spino severo), dalla polvere stancamente sospinta in fondo al tappeto salveremo forse il filaccio, il refe ritorto, la treccia che mise insieme i pensieri. E faremo quest’ultimo musicare di dischi, il danzare lugubre delle camere spente, un abbuiare di neve. Invogliati a salpare verso gli anni che ci lamparono incontro. Là dove l’alba ci parve. Ridente. Glaciale.
Gli alberi squamano obliqui ai bordi dell’inverno, come noi ottusi e torti, digiuni nel grande spreco di dicembre,
sgraziati a un fervore sbandato di semafori, miseri capricci di foglie avanzate dai giorni dello scalpore, quelli in cui io ti spogliai di me, tu di te.