Non pagherà rovistare il bosco che incupa se crolliamo bocconi ai rimorsi del tronco, inabili per le radure più cave, recisi alla base come risultato d’una selezione efferata. Noi salutati dalla vecchiaia che orba incede su zampe di porco, ha stivali di sterco, vesti di rovina. Per familiarità congenita a quel che di più modesto ci riservò a suo tempo l’attimo fragile che zampettammo nel latte. Presi a sassate – stralci di rimproveri semiseri e puerili. O dietro porte sbattute, il fracasso. Che ci fece l’amore prima del sangue. Come i tuoi amanti sbandati. E luridi. Come i tuoi padri. Che prima ti furono figli. Non ci varrà uno sputo nel fango. Calpestare il domicilio straniero. Lo sforzo inumano d’una foresteria nel tinello. Ribattezzare la fatica del tarlo a pensione nei tuoi cassetti, l’asprezza dei terrazzi esposti al buio del Nord, il buco dell’alba che impaglia l’Orsa Maggiore. Non griderà questa pupilla grondante di nebbia, il ginocchio che dalla rabbia storce e poi piega, ribollire il fragore dell’angelo affiorato dal viola dei pruni. Se brandiremo la falce. Per ferirci a ogni ora. Abbatterci l’uno con l’altro, sazi, nauseati, controvoglia. Nel sonno dei principii che adombra il rossore ondivago del bimbo. Siamo cani tramortiti dalle carezze superflue, i guinzagli perduti. Questa è la morte. Che adagia sul prato le risa e spegne le torce e gli abbai finiti.