Nella latta del cielo tralucemmo – zeppi ferrosi – laggiù a cavalcioni di un pomeriggio bigio da fare spavento. Senza scampo colti sul finire affilato dell’estate viperina. Settembre 1982. Morti sul colpo a causa di un frontale mentre rientravano dalla villeggiatura: Dario Politi, nove anni da finire e sua madre appena trentenne. Padre si salva, così la sorella. Si chiusero feritoie convergenti su noi come fossimo bestie prese al laccio. Il cartoccio bisunto per celare la vergogna del sole precipitato sul fondo bollito, svilire il carbonio di cui s’impregnò l’aria prima del mezzogiorno. Guardammo agli eventi come ad unghie incarnite, nello stesso identico modo le stalattiti, i rivi, le siepi. E come sarebbe tornata a brulicare la spiaggia. Le nostre opinioni più scialbe. Le nostre scelte incontrovertibili, manuali di pronto intervento, prospettive a medio termine, i viaggi che avremmo organizzato con intelligenza sommaria. Come valve di una sola conchiglia Fummo in forza delle epifanie. In ragione delle collisioni. E poi tangenti. Risoluti e fermi. Cresciuti col pelo sullo stomaco. E una fronte sulla spalla. Ambimmo a farci garza, bisturi, flebo. Il corridoio, il portone, il giardino. E tornammo d’aprile.
Vittime di un attacco terroristico. Docili cavie, colla carie ad un dente. Noi venuti al delta tra la strada e le scarpe, lo sgancio e l’introduzione. Noi che morte non tacemmo, mentre vita ci tacque.