“Posto che la verità sia una donna – e perché no? Non è forse fondato il sospetto che tutti i filosofi, in quanto furono dogmatici, s’intendevano poco di donne? Che la terribile serietà, la sgraziata invadenza con cui essi, fino a oggi, erano soliti accostarsi alla verità, costituivano dei mezzi maldestri e inopportuni per guadagnarsi appunto i favori di una donna? – certo è che essa non si è lasciata sedurre e oggi ogni specie di dogmatica se ne sta lì in attitudine mesta e scoraggiata” (Al di là del bene e del male, Prefazione).
Sono anni che mi chiedo il motivo per cui, su molti libri di storia, anche di una certa autorevolezza, e, soprattutto, in documentari e programmi televisivi, venga continuamente propugnato un sostanziale falso storico: quello secondo cui l’Editto di Milano del 313 d. C., emanato dall’imperatore Costantino, avesse elevato il Cristianesimo a religione ufficiale dell’impero romano. Falso! Falso! Falso! L’editto, in realtà, non decretò alcuna esclusività al Cristianesimo, in quanto consentì la pratica libera della propria religione a tutti coloro che avessero un credo. Le uniche concessioni specifiche a quella particolare confessione consistettero nell’abolizione delle persecuzioni e nella restituzione, ai cristiani, delle chiese e dei beni precedentemente confiscati. Duemila anni dopo, nell’opinione comune, specialistica o meno, si continua a sostenere, con molta leggerezza, questa bugia. Dobbiamo attendere l’opera di un altro Lorenzo Valla, autore, nel 1517, del De falso credita et ementita Constantini donatione declamatio (Discorso sulla donazione di Costantino, contraffatta e falsamente ritenuta vera), scritto in cui il celebre umanista denunciò la falsità della cosiddetta Donazione di Costantino, documento (contraffatto, nell’VIII secolo, dalla stessa curia pontificia) sul quale, per secoli, la Chiesa Cattolica Romana aveva fondato la legittimazione del proprio potere temporale nell’Europa Occidentale?
Signore e Signori, buona sera! Nel romanzo che stiamo presentando vi è una bellissima scena, ambientata nel medesimo luogo in cui ci troviamo adesso: proprio questa piazza. È il 13 giugno del 1952. In prima fila sono seduti don Alfonso Costanzo Iaccarino tra il figlio Luigi e la figlia Olga. Celebrano l’elezione di Luigi a sindaco di Massa Lubrense. Anche noi, stasera, siamo qui per celebrare. Innanzi tutto, l’autore di questo romanzo, “Don Alfonso 1890 – Salvatore Di Giacomo e Sant’Agata sui Due Golfi”, il prof. Lauro. Poi, un uomo speciale, Don Alfonso Costanzo Iaccarino e, con lui, la sua famiglia, che è anche la mia famiglia. Poi, il nipote di don Alfonso Costanzo, mio zio Alfonso, il quale, insieme con la moglie Livia e i figli Ernesto e Mario ha ereditato lo spirito del nonno portandolo ai livelli di eccellenza mondiale che tutti conosciamo. Infine, celebriamo un paese, il mio paese, Sant’Agata sui Due Golfi, tanto che un ulteriore sottotitolo di questo romanzo potrebbe essere, “una storia santagatese”, tanto importante è, nell’opera, questo paese. Prima di proseguire, permettetemi di pronunciare, brevemente, alcune espressioni di stima e di affetto, alle quali tengo tanto. Dovete sapere che fino a pochi minuti fa avevo un grande desiderio nella mia vita culturale: quello di poter partecipare alla presentazione di un libro che fosse moderata dal dottor Milone, la cui professionalità ha ben varcato le mura della città vaticana. Anche per questo motivo sono molto orgoglioso di essere qui stasera. Son riuscito a vedere esaudito questo desiderio e, da oggi, dovrò trovarne un altro. Certo, non sarà facile, ma ci proverò. Signora Marcella, caro Fausto. La presenza di vostro marito e di tuo padre, non solo nel romanzo, la cui seconda parte è proprio un dialogo, immaginario, ma verosimile, tra Nello Lauro e zio Alfonso, qui, tra noi stasera, è chiara. Il mio affetto per il ricordo di Aniello Lauro, non avendo mai potuto frequentarlo di persona, è legato a due vicende della mia vita: la mia collaborazione con il prof. Lauro ha ai due poli proprio Aniello Lauro: cominciò, infatti, nel 2009, quando ero ancora a Londra, all’epoca in cui il prof. scriveva “Cossiga Suite”, il romanzo dedicato alla vita di suo fratello, e continua, anche se in modo diverso rispetto al passato, occupandomi io, oggi, a Roma, di editoria universitaria, sempre nel nome di Nello, con questo bel ricordo che il prof. ne fa nel romanzo. Voglio raccontarvi l’altro episodio, che rende bene l’idea di chi sia stato Nello Lauro, anche in rapporto all’amato fratello Raffaele. Nel 2010, a Roma, il presidente Cossiga, presente il prof. Lauro, mi disse: “Lo vede quest’uomo?”, indicando il prof. “Suo fratello è stato 10 volte più grande!”. Un’ultima espressione per una donna eccezionale: donna Violetta Elvin, che stasera onora tutti noi della sua presenza. Donna Violetta, oltre ad essere stata una ballerina di fama mondiale negli anni ’50, ha danzato al Teatro Bolshoi di Mosca e con il Royal Ballet di Londra, è anche la protagonista del penultimo romanzo del prof.: “Dance The Love – Una stella a Vico Equense”. Donna Violetta, avervi conosciuto è stato forse il momento più alto della mia collaborazione con il prof. Lauro. Poter dire di essere vostro amico, oltre che devoto ammiratore, mi riempie di gioia e di orgoglio! Bene, mi avvio al mio intervento sul romanzo. In un primo momento avevo pensato di tenere un contributo sulla mia famiglia, parlarvi, cioè, della mia esperienza all’interno di questa famiglia, ma, poi, quando il prof. mi ha comunicato che tra i relatori ci sarebbe stato anche mio cugino Ernesto, ho preferito puntare su un altro argomento. Lui meglio di me può raccontarvi cosa significhi essere parte di questa famiglia, anche per il lavoro che svolge all’interno dell’azienda di famiglia. Tra l’altro, io, tra tutti i cugini carnali, sono l’unico che ha scelto una la carriera professionale in un settore del tutto differente. Per cui, questa sera, con riferimento al sottotitolo del romanzo che stiamo presentando, vi parlerò di Salvatore Di Giacomo, cercando, nella brevità che deve contraddistinguere questi interventi, di fornirvi alcuni ragguagli sulla poetica di questo grande autore napoletano, cosa che, vista la mia professione, mi è certamente più congeniale. La carriera letteraria di Salvatore Di Giacomo cominciò in modo del tutto casuale. Studente di Medicina, alla sua prima autopsia, alla vista del sangue e di membra umane riposte in un recipiente, svenne e capì che avrebbe fatto meglio a dedicarsi ad altro. L’esordio di Di Giacomo avvenne, giovane, su alcuni giornali napoletani. La Napoli di quell’epoca, quella dell’ultima parte dell’Ottocento, era una città culturalmente molto frizzante, certamente diversa dalla Napoli di cui, qualche decennio prima, si lamentava Giacomo Leopardi, definendola culturalmente arruffata. Napoli era piena di giornali e riviste, non soltanto il celeberrimo “Mattino”, fondato nel 1892, piena di circoli letterari, di caffè e di birrerie dove gli intellettuali discutevano, si confrontavano. Questo era il background nel quale Di Giacomo mosse i primi passi della sua carriera letteraria. Il “Corriere del Mattino”, diretto da Martino Cafiero, originario, tra l’altro, di Meta, poi “Pro Patria”, la “Gazzetta letteraria” e “Il Pungolo”. Fu cronista, nel 1884, della grande epidemia di colera che afflisse Napoli, scrivendo, poi, un’opera in versi dedicata a Bartolommeo Capasso, “’O funneco verde”. Furono gli anni in cui Di Giacomo fu a stretto contatto con la Napoli dei vicoli e dei bassi, tormentata e vera, diversa dalla sua Napoli di piccolo borghese, che registrò, fedelmente, sui taccuini e con la macchina fotografica, mai tralasciando la sensibilità di poeta. Muovendosi per le strade e nelle piazze, osservando tutto con curiosità, elaborò ritratti di Napoli e della sua plebe, un calderone di vita, di sofferenze e di personaggi, non sempre comprensibili, certamente autentici, specialmente nella loro gestualità, intuendone quella umanità e quella infelicità che si nascondevano dietro la facile e apparente gioia di vivere, ribaltando i cliché che pervadevano i giudizi di quanti si accostavano, superficialmente, alla realtà napoletana. E lo fanno ancora oggi. Poi, l’esperienza a Piedigrotta, che gli permise di entrare nell’olimpo dei parolieri napoletani di tutti i tempi. La storia di Di Giacomo a Piedigrotta fu originata dal successo strepitoso, nell’edizione del 1881, della canzone “Funiculì funiculà”. L’anno successivo, infatti, il direttore de “Il Corriere del Mattino”, Martino Cafiero, invidioso del successo del collega Peppino Turco, autore del brano musicato da Luigi Denza, chiese sia a Di Giacomo che a Roberto Bracco, un altro grandissimo intellettuale napoletano, suoi collaboratori al giornale, di scrivere una canzone ciascuno, nel tentativo di riscuotere altrettanti consensi. Fu così che Di Giacomo compose “Nanni’”, musicata da Mario Costa. La canzone ebbe solo una discreta popolarità, ma avviò la proficua collaborazione tra il poeta e il musicista. Per la festa di Piedigrotta, Di Giacomo scrisse, fino al 1907, canzoni celeberrime, che raggiunsero i vertici della moderna canzone napoletana. Tra le canzoni digiacomiane più famose, “Nanni’”, “Era de maggio”, “Marechiaro”, “Oilì Oilà”, ed “’E spingule Francese”, Questa canzone, ispirata ad un antico canto popolare, valicò i confini nazionali, entrando persino nelle corti imperiali europee. Su richiesta dello stesso imperatore Guglielmo II di Germania, infatti, nel 1896, fu suonata in Piazza del Plebiscito, al posto della marcia d’ordinanza, durante una sfilata delle truppe italiane in suo onore. Salvatore Di Giacomo, in tutta la sua opera, è riuscito ad esprimere il senso drammatico e gioioso insieme, che caratterizzava l’anima del popolo napoletano e le bellezze naturali della città partenopea. Era stato capace di raccogliere quei colori, quella musicalità e quella poesia, tipicamente napoletani, sui fogli di carta prima e, poi, musicati da compositori, negli spartiti musicali. Prostituzione, malavita, miseria, bassi, vicoli, umanità sofferente, umanità gioiosa, amore, passione, vi erano rappresentati con una vivacità quasi teatrale. Il sapiente uso del dialetto, così dolce e musicale, tuttavia, perfettamente vero e veridico, faceva di un raffinato intellettuale, un piccolo borghese che si calava nello spirito e nell’anima di un popolo e ne diventava cantore, con un realismo senza pari, esprimendo, nei versi, le sfumature e le sfaccettature peculiari di una plebaglia, di quel ventre di Napoli (Matilde Serao), che, così, acquistava dignità poetica. La grandezza e l’importanza dell’opera di Di Giacomo, rispetto al popolo napoletano, è stata duplice: da un lato, proprio per la sua condizione di piccolo borghese, stupiva la capacità descrittiva di un mondo che doveva, per nascita, per storia personale e per educazione, non appartenergli, ma che, evidentemente, sentiva visceralmente suo; dall’altro, il lascito poetico, divenuto lo specimen di quel mondo. Nessun altro aveva saputo, fino agli inizi del Novecento, diventare un così abile e mirabile testimone poetico del popolo napoletano. La poetica di Di Giacomo risentiva certamente degli influssi del Verismo, il movimento letterario che, ispirandosi al Naturalismo francese, aveva pervaso la letteratura italiana nella seconda metà dell’Ottocento. Lo aveva, comunque, interpretato o, meglio, lo aveva adattato alla propria sensibilità, alla propria condizione e all’ambiente, nel quale si era trovato a vivere. Di Giacomo, infatti, rispetto a Giovanni Verga, il quale riproduceva la realtà in modo diretto, crudo, impersonale, tale da rendere i suoi personaggi protagonisti di storie volte a mostrare quadri di decadenza, di fallimento, di impotenza, nei confronti degli eventi, ancorché di passiva e fatale accettazione degli stessi, tratteggiava, quasi dipingeva i suoi personaggi e le loro storie, con la fresca aria del mattino, con i raggi tenui della luna, con una petrarchesca idealizzazione di tipi e di modi, che sembravano cristallizzati in una realtà fuori dal tempo, grazie all’uso del dialetto napoletano, dolce e raffinato, il cui impiego aveva lo scopo non della mera rappresentazione, quanto piuttosto del vero che diventa musica, timbro, colore e sensazione, alla maniera dei pittori impressionisti. Ecco perché io ritengo che Sant’Agata fosse scritta, già molto prima che lui vi soggiornasse, nel suo destino letterario. Quando arrivò qui per la prima volta, nel 1909, aveva già composto quanto lo rese famoso. Nel nostro paese scrisse molto poco, anche perché, soprattutto nell’ultima parte del soggiorno, la sua vita fu tormentata dalla malattia che, nel 1934, lo avrebbe condotto alla morte, dalle delusioni, tra cui la mancata nomina a Senatore del Regno, nonché le difficoltà economiche in cui versava. L’aria fresca che lui tanto amava, era quella che avrebbe trovato qui. Le cerase di “Era de maggio”, sono quelle che avrebbe mangiato qui, le donne, gli amici che cantava, sono quelli che avrebbe incontrato qui. Mi piace pensare che Di Giacomo avesse vissuto qui tutto ciò che aveva immaginato e composto prima di arrivarvi. Voglio concludere con qualche accenno al rapporto di Di Giacomo con le donne le quali, per un poeta, rimangono sempre e comunque la somma fonte di ispirazione. Pur volendo attribuire una fortissima valenza al legame di Di Giacomo con la madre (si sarebbe sposato tardi, nel 1916, con la giovane Elisa Avigliano, dopo la morte della genitrice), non era divenuto così totalizzante nella sua visione della donna e nel suo rapporto con essa. Si poteva ipotizzare una incapacità, da parte del poeta, di sostituire, nel suo cuore, l’immagine della madre, con quella di un’altra donna, in grado di occupare un posto altrettanto importante. Con il rischio, tuttavia, di giudicare le donne cantate dal poeta nient’altro che la stessa rappresentazione, con caratteri diversi, della madre. Quelle donne, quindi, sarebbero state figure femminili fittizie, meri artifici della sua poesia. C’era anche chi, tra gli stessi amici e colleghi, leggeva la presenza delle donne, nell’opera digiacomiana, come strettamente collegata al suo concetto di amore. Le donne, in Di Giacomo, diventavano lo strumento con il quale il poeta offriva se stesso e i suoi sentimenti al mondo, rappresentando l’amore nei suoi molteplici aspetti, tutti umani. In questo caso, la stessa varietà delle figure femminili di Di Giacomo rifletteva l’umanità del suo sentimento amoroso, che si manifestava inquieto, instabile, dispettoso e a tratti doloroso. L’amore era intenso, malinconico e perduto nelle tante sfaccettature della vita quotidiana. Le donne e l’amore, in Di Giacomo, erano l’aspirazione alla personificazione, non cosciente, di un desiderio molto più complesso: ricercare e concentrare l’essenza dell’umanità. Quasi una galleria-museo, dove erano esposti i diversi quadri dell’amore, tutti rappresentati attraverso donne diverse, con storie diverse, con passioni diverse. Come avrete certamente potuto capire, nonostante la brevità di queste mie riflessioni, Salvatore Di Giacomo è stato un grandissimo intellettuale e poeta. Un ulteriore orgoglio, per la nostra cittadina, è averlo avuto ospite qui e onorarlo, ogni anno, anche con l’omonimo premio, istituito quasi vent’anni fa da Donato Iaccarino. Grazie a tutti!
Presentazione del romanzo di Raffaele Lauro, “Don Alfonso 1890 – Salvatore Di Giacomo e Sant’Agata sui Due Golfi”
Serata incantevole, emozionante, memorabile, spettacolare, irripetibile, sublime, un mix di cultura, musica e di alta cucina! Questi alcuni degli aggettivi pronunziati dai numerosi e qualificati partecipanti, in Piazza Sant’Agata, alla presentazione, in anteprima nazionale, del nuovo romanzo di Raffaele Lauro “Don Alfonso 1890 – Salvatore di Giacomo e Sant’Agata sui Due Golfi”, e al successivo, sontuoso e raffinatissimo party, offerto agli ospiti da Alfonso e Livia Iaccarino, nel giardino incantato di uno dei templi della gastronomia mondiale, il “Don Alfonso 1890”. I padroni di casa sono stati sommersi dai complimenti e dai riconoscimenti del sindaco Lorenzo Balducelli, del moderatore, Massimo Milone, e dei relatori Riccardo Piroddi, Antonino Siniscalchi, Salvatore Ravenna, Ernesto Iaccarino e Sergio Corbino, con interventi spumeggianti, ricchi di contenuti inediti, che hanno scatenato reiterati applausi del pubblico. Di alto livello, culturale e politico, le conclusioni dell’onorevole Ettore Rosato, il quale ha voluto anche ricordare la straordinaria carriera istituzionale dell’autore. I ringraziamenti di Lauro, con in braccio il nipotino Nello Lauro di Lugano, sono stati affidati alla voce incantevole di Francesca Maresca, la quale ha interpretato, in maniera eccelsa, accompagnata dal maestro Luigi Belati, le sei canzoni, citate nel romanzo, dedicate a Salvatore Di Giacomo, a Lucio Dalla e a Mireille Mathieu. Presenti numerosi giornalisti, prefetti, artisti, registi, danzatrici, personalità della cultura, autorità civili e militari, imprenditori e albergatori. Ospite d’onore la splendida danzatrice anglo-italo-russa, Violetta Elvin, la quale ha illuminato la serata di grazia e di eleganza.
Continua, con questa seconda parte (leggi la prima parte), la brevissima trattazione sul ruolo delle donne nel Risorgimento. A questo punto, dunque, è bene volgere un rapido sguardo sulle esistenze di alcune di esse, anche per riparare, in piccolissima parte, al torto commesso sia dai loro contemporanei, sia dagli storici, che le hanno confinate nel limbo della storia.
Cristina Trivulzio di Belgiojoso: milanese, ebbe una travagliata vita familiare e comportamenti, per il tempo, ritenuti scandalosi (sposata, lasciò il marito ed ebbe una figlia da un nuovo compagno). Fuggita in Francia dopo il 1831, divenne giornalista. Tornata in Italia nel 1840 si stabilì a Trivulzio. Colpita dalle condizioni di miseria dei contadini, si dedicò ai problemi sociali. Seguendo le teorie utopistiche di Henri de Saint Simon e Charles Fourier, aprì asili e scuole per figli e figlie del popolo. Nel 1848-’49 fu ancora in prima linea: raggiunse Milano guidando la Divisione Belgioioso, 200 volontari da lei reclutati e trasportati in piroscafo da Roma a Genova e, da lì, a Milano. A Roma, nei mesi della Repubblica Romana, guidata da GiuseppeMazzini, lavorò giorno e notte negli ospedali durante l’assedio della città, creando le infermiere laiche e chiamando a questo compito nobili, borghesi e prostitute. Alla caduta della Repubblica (luglio 1849), dopo essersi battuta per salvare feriti e prigionieri, fuggì prima a Malta, poi, ad Atene e, infine, a Costantinopoli. Alla sua morte, nessuno dei politici d’Italia partecipò ai suoi funerali. Anna Grassetti Zanardi: bolognese, fu moglie di uno degli organizzatori del tentativo insurrezionale mazziniano di Savigno. Anch’essa ardente mazziniana, fu infermiera nel corso della campagna del 1848 e a Roma, nel 1849. Durante la successiva restaurazione pontificia, per incarico di Mazzini, si occupò di creare comitati in città e anche in altri centri vicini. Sorvegliata e più volte perquisita, fu arrestata nel 1851 e trasferita nel carcere di Ferrara. Le cronache cittadine di fine Ottocento la segnalavano, ormai vedova, sempre in testa al gruppo dei reduci garibaldini, durante i cortei patriottici, con in dosso la camicia rossa garibaldina e il petto coperto da numerose medaglie. Giuditta Tavani Arquati: romana, incinta del quarto figlio, si trovava in Trastevere, nel lanificio Aiani, insieme con il marito, il figlio dodicenne e molti altri cospiratori, che preparavano la rivolta, in attesa dell’arrivo di Garibaldi da Monterotondo. L’entrata degli zuavi pontifici scatenò un aspro combattimento e, nonostante una strenua resistenza, i congiurati vennero sopraffatti e Giuditta, che aveva spronato, aiutato e soccorso i rivoltosi, venne massacrata dopo aver visto uccidere il marito e il figlio. Sara Levi Nathan: pesarese, si profuse nell’impegno politico e per nelle iniziative sociali: fu una fervente patriota, grande amica di Mazzini, che morì a Pisa, nel 1872, proprio a casa di sua figlia Janet. Fu sorvegliata dalla polizia e accusata di cospirazione. Riuscì a fuggire, prima di essere arrestata, e riparò a Lugano. Tornata a Roma, dette vita a numerose iniziative educative, filantropiche e sociali. Fondò, nel quartiere di Trastevere, una scuola intitolata a Mazzini, destinata alle ragazze, e aprì una casa per prostitute, l’Unione benefica, con l’intento di prevenire la prostituzione, offrendo a ragazze indigenti o in difficoltà, alloggio, mezzi e possibilità di lavoro. Giorgina Craufurd Saffi: di famiglia inglese, si innamorò dell’Italia, anche grazie al favore che la sua famiglia esprimeva per la causa italiana. Sposò Aurelio Saffi, esule italiano a Londra, già triumviro della Repubblica Romana nel 1849. Dalle idee mazziniane trasse il profondo interesse per l’educazione delle donne e dei giovani, cui andava inculcato il rispetto dei diritti e dei doveri dell’uomo, e l’idea che solo attraverso l’emancipazione e la partecipazione alla vita civile e civica si sarebbe potuto essere cittadini e non sudditi, partecipando, così, all’emancipazione della Patria e del Popolo. Giorgina scelse di occuparsi, in primo luogo, dell’educazione di tutte le donne, prime e fondamentali educatrici dei propri figli, cosa che la porterà ad appoggiare i movimenti emancipazionisti che, in quella seconda metà dell‘800, faticosamente stavano facendosi strada. Adelaide Cairoli: milanese, a 18 anni sposò Carlo Cairoli, professore di chirurgia di Pavia, di sentimenti patriottici. Donna di vasta cultura, curò lei stessa l’educazione dei figli, indirizzandoli all’amore per la società e per la patria. Finanziò giornali patriottici, ospitò un salotto politico-letterario, mantenne una corrispondenza con gli intellettuali del periodo. Così scrisse, lei stessa, una volta: “Prima ancora dunque che alla causa femminile, io mi ero votata a quella della mia patria e il mio amore per la prima nacque dal mio amore per la seconda”. Anita Ribeiro Garibaldi: fu la moglie di Giuseppe Garibaldi, nonché compagna di tutte le sue battaglie. Nel 1840, fu catturata nella battaglia di Curitibanos, ma riuscì a sfuggire alla prigionia. Nel 1849 era a Roma, per la proclamazione della Repubblica Romana, dove combatté a fianco dei garibaldini, i quali, però, dopo una lunga resistenza contro gli eserciti francese e austriaco, che invasero la città, dovettero ritirarsi dopo la battaglia del Gianicolo. Durante quella fuga le condizioni di Anita, al quinto mese di gravidanza, peggiorarono, e fu proprio in quell’occasione che, a 28 anni, la donna-guerriero spirò.
Il ruolo delle donne nella costruzione dello Stato italiano è sempre stato considerato subordinato a quello maschile. Queste, infatti, nonostante la poca o nulla visibilità pubblica, non solo ebbero un ruolo rilevante in quel processo, ma furono numerose, di diverse estrazioni sociali e si dimostrarono volitive, determinate, con idee e progetti da costruire, impegnate direttamente nelle cospirazioni così come nelle lotte vere e proprie, anche se, in genere, con funzioni di organizzatrici – una delle poche che imbracciò il fucile fu Anita Garibaldi – passate poi, dopo l’unificazione, a ruoli di impegno sociale, a beneficio delle donne e dell’infanzia, per il riscatto sociale delle classi disagiate, per l’organizzazione e la promozione dell’educazione. Queste donne, senza esagerare, furono centinaia. Anche se, in gran parte, dimenticate, non mancarono di essere coraggiose protagoniste nelle vicende che portarono all’unificazione d’Italia. Sebbene, quindi, fossero state figure di primo piano in quel processo storico, sono finite troppo presto nel dimenticatoio, tanto che, i loro nomi risultano oggi quasi scomparsi dai manuali di storia e, dunque, sconosciuti ai più. Nella stragrande maggioranza dei casi, il loro apporto non si limitò alla partecipazione più o meno attiva alla fase di unificazione dello Stato italiano, ma proseguì nel tempo, concretizzandosi in iniziative di alto valore civile e sociale, in grado di far crescere la nuova nazione e di avviare la costruzione di una società più libera e giusta. Il percorso che trasformò un’idea nella realtà dell’Italia unita, dalla Lombardia alla Sicilia, fu contrappuntato dal progressivo coinvolgimento delle masse, dunque l’apporto femminile fu determinante in tutte le sue tappe. Questo percorso, però, si espresse in forme di partecipazione diverse, che lo resero meno “eroico” e, perciò, più oscuro e anche più facilmente oscurabile da parte degli stessi contemporanei. Il medesimo destino, del resto, che è sempre toccato nei secoli, e in parte ancora oggi, al ruolo della componente femminile, peraltro numericamente maggioritaria, in tutte, o quasi, le società umane. La storia delle donne e dell’Unità d’Italia è stata una storia scritta con un inchiostro invisibile. Una trama fitta e sottile di presenze operose, generose, importanti, anche se taciute, come spesso accade all’agire femminile. Le donne furono presenti attivamente nel processo risorgimentale e vi contribuirono con atteggiamenti diversi, coraggiosi e innovativi, con scelte di libertà. Una perpetrata omertà della storia e degli storici non ha reso loro giustizia. Giuseppe Mazzini nell’utopia universalistica della sua visione della realtà, manifestò posizioni aperte e rispettose circa l’importanza del ruolo della donna nella società, anche se ammise l’immaturità dei tempi affinché qualcosa potesse cambiare e la donna partecipare alla vita politica del Paese: “L’emancipazione della donna – scrisse Mazzini – sancirebbe una grande verità, di base a tutte le altre, l’unità del genere umano, e assocerebbe nella ricerca del vero e del progresso comune una somma di facoltà e di forze, isterilite da quella inferiorità che dimezza l’anima. Ma sperare di ottenerla alla Camera come è costituita, e sotto l’istituzione che regge l’Italia (la monarchia) è, a un dipresso, come se i primi cristiani avessero sperato di ottenere dal paganesimo l’inaugurazione del monoteismo e l’abolizione della schiavitù”. L’emancipazione della donna passò, senza dubbio, attraverso l’esperienza dell’associazionismo, che diffuse la pratica del dibattito e della democrazia. In questo senso, il “salotto” fu il primo strumento di apertura alla sua partecipazione e all’impegno intellettuale e civile. Fu in ambiti aristocratici e alto-borghesi, il cui livello culturale e l’internazionalità della formazione consentivano di produrre opinioni e confrontarle diffondendo così la passione per l’impegno sociale e civile, che ciò ebbe luogo. Nobildonne aprirono i loro salotti a letterati, patrioti e artisti, contribuendo, in modo sostanziale, alla creazione di un humus fertile alla diffusione dei fervori unitari e risorgimentali. Spesso simpatizzanti delle idee mazziniane, o vicine alla carboneria, come, poi, lo saranno alla teosofia, alla massoneria, esse hanno meno combattuto tra le barricate a colpi di moschetto, e più lavorato per la costruzione del paese civile. Nel salotto di via Bigli, ad esempio, la contessa Clara Maffei riunì patrioti e artisti, uniti dall’anelito di indipendenza e dall’ardore libertario, quegli stessi che, nel 1859, avrebbero imbracciato le armi contro l’aquila Asburgica. Filantrope più che patriote, quindi, fondarono ospedali, organizzazioni per l’assistenza alle minorenni, aprirono asili e scuole per affrancare le donne da quella indigenza di cultura che si traduceva in mancanza di libertà. Le sottili trame del femminile legarono fatti e persone e spesso, i destini di queste donne, si incrociarono o si sfiorarono. Alcune di esse sono entrate nei libri di scuola, come Anita Garibaldi, compagne di eroi, o astute strateghe dell’intrigo e della politica, come la Contessa di Castiglione. Altre contribuirono, con i loro sforzi e le loro idee, ad un’azione collettiva e diffusa in cui è difficile far emergere singole individualità. Sono prime forme di associazionismo intorno a veri e propri progetti politici, sono comitati di filantrope dedite ad un progetto sociale, sono gruppi di giornaliste e intellettuali riunite intorno ad un periodico, comitati clandestini di patriote e congreghe dal carattere religioso. Spesso queste storie si coloravano di episodi avventurosi e rocamboleschi, e queste non sempre famose eroine si destreggiavano vestendo, il più delle volte, panni maschili, nascondendosi sotto travestimenti e false identità. Se gli uomini del Risorgimento, quindi, furono i protagonisti dell’Unità politica del Paese, le donne, nell’ombra, operarono alla creazione dell’unità sociale e culturale della nuova e giovane Italia. Nel fare questo, avviarono, contemporaneamente, la prima riflessione sulla condizione femminile, cominciando ad elaborare l’identità della donna dell’Italia unita. Esse tracciarono la strada sulla quale avrebbero camminato le donne del futuro, quella stessa strada sulla quale, oggi, più di 150 anni dopo, esse sono ancora in cammino.
Quell’attimo in cui le mie labbra toccano le tue altro non è che un frammento d’eterno, in una sera, al tramonto, da un’altana affacciata sul mare. Su un pianeta nell’Universo.
Gli autori, più o meno illustri, della Letteratura Italiana, spesso non sopportati in tempi di studi liceali, altro non erano che uomini, illuminati sì, ma pur sempre uomini. E allora, Dante Alighieri, i cui versi hanno segnato parte della vita di ognuno di noi, lui, così impeccabile e intransigente, avrà avuto pure qualche difetto, o no? E Cecco Angiolieri è soltanto quel poeta così simpatico ai meno volenterosi, perché darebbe fuoco a tutti e prenderebbe tutte le belle donne per sé? Tra aneddoti e realtà, non senza mancare di approfondite riflessioni critiche, questo saggio propone un piacevole racconto dei più importanti personaggi letterari italiani, dando spunto agli “intellettuali” per prenderla un po’ meno sul serio e agli “scettici” per rendersi conto che, in fondo, il Decamerone non è solo un mattone destinato ad accumulare polvere su uno scaffale.
Nuova edizione, più critica, in tre volumi, della precedente opera, Storia (non troppo seria) della Letteratura Italiana. Questo è il primo volume,“Dalle origini al Trecento”. Seguiranno, nel 2020, il secondo volume, “Dal Quattrocento al Settecento”, e, nel 2021, il terzo, “L’Ottocento e il Novecento”.