In un punto d’intersezione ideale delle due prospettive psicologico-linguistica dianzi delineate – quella pratico-didascalica che modella il volgare sul latino, e fantastico-giocosa che modula il latino sul volgare – vorremmo collocare un testo famoso: un testo che in ogni trattazione relativa ai primi documenti del volgare occupa un posto notevole e singolare: vogliamo dire l’indovinello veronese…
Nota: scrissi questo racconto quando ero all’Università. Sono trascorsi circa diciotto anni. Pubblicandolo qui, per la prima volta, desidero dedicarlo a ciò che ero a vent’anni, al meraviglioso tempo trascorso ad Urbino, durante gli studi universitari, ai miei carissimi amici e ai miei miti letterari di quel periodo e, soprattutto, a tutte quelle donne, come Francesca, ovunque esse siano adesso, per il cui affetto e amore mostratomi, ne sono divenuto cantore!
Dedicato a Charles Bukowski (1920 – 1994)
Chiusi con forza la portiera della macchina e mi avviai con Luca verso casa. Il suo appartamento era al piano terra, con camere abbastanza grandi, tranne la cucina, che era piccola, ma, a causa del costante disordine, sembrava essere più spaziosa. Entrati, posai due bottiglie di vino bianco sul tavolo, cercando un cavatappi. L’accozzaglia di oggetti e utensili sparsi nei cassetti mi rendeva difficile la ricerca. Lo trovai, poi, e aprii una delle due bottiglie. Luca si allontanò. Versai due bicchieri e cominciai a bere. Improvvisamente, sopraggiunse Cibi salutandomi. Risposi e mi alzai per prendere un altro bicchiere. Lo riempii e lui bevve. “Allora, sarà una bella festa stasera?”, dissi. “Si”. Rispose Cibi continuando a bere. “Quanta gente verrà?”. “Boh! Oggi pomeriggio Luca ha chiamato un po’ di persone, credo dieci, dodici, quindici. Non me ne frega un cazzo, sto benissimo anche da solo basta che…” “Ho capito, ho capito”, lo interruppi. “Sei sempre il solito coglione!”. “Come?”. “Ho detto che sei sempre il solito coglione e io lo sono più di te. Ma alla fine che c’importa, mentre quei fessi si divertono con le loro stronzate, per noi stasera sarà soltanto un’altra sbronza, solita fottuta sbronza”. Tornò anche Luca. “Bastardi”, tuonò. “Così si fa adesso? Bevete senza neppure aspettarmi? Ma come siete messi? Avete quasi finito la bottiglia e io non ho ancora bevuto!”. “Non rompere, ecco il tuo bicchiere”, sbottai. “E invece di lamentarti, dimmi quanta roba da bere abbiamo stasera perché, se non c’è niente dopo le due bottiglie di bianco, ti apro quella testa di cazzo che hai e ti ci ficco dentro il cavatappi! Anzi, apri l’altra bottiglia, ché questa è finita!”. “Calma, calma”, rispose. “C’è n’è da bere, c’è n’è. C’è altro vino, birra, vodka.” “Ah, bene! Prendi la vodka e portami un po’ d’acqua, allora”. “Ma che cazzo ci devi fare con l’acqua, già non ce la fai più dopo mezza bottiglia di vino? Sei una sega!”. Sorrise. “Vodka con acqua, coglione! La bevo per Hank”. “Chi è Hank?”. Chiese. “Ma sei proprio una capra! Non conosci Hank?”. “No”. “Cibi, spiegagli tu chi è Hank!”. “E che ne so, chi lo conosce!”. “Come? Hank, Chinaski, Bukowski”. “Ah sì, Bukowski”. Risposero quasi in coro. “Io so”, aggiunse Luca, “che ci dava dentro alla grande, ma la vodka con acqua…” “Allora, la porti questa vodka o no, cazzo!”. Portò la vodka e bevemmo tutti. Poi, aprii l’altra bottiglia di vino, che finì in pochi minuti. Era il compleanno di Luca quella sera e noi eravamo lì, seduti a bere intorno al tavolo in una cucina disordinata. Aspettando cosa? Per noi sarebbe stata soltanto un’altra sbronza, una solita fottuta sbronza. Poco dopo, già alticci, cominciammo a preparare da mangiare per la festa. Luca bollì il riso e lo condì con del tonno, prezzemolo e limone. Nel frattempo, io e Cibi portammo due tavoli ed una decina di sedie sotto la tettoia, dopo aver sistemato in alcuni vassoi delle tartine farcite alla buona. Quando Luca ebbe finito in cucina, venne fuori ad accendere il barbecue. Erano quasi le nove e nessuno era ancora arrivato. Chiesi a Cibi di portare le bottiglie da mettere sui tavoli. Si presentò con una strana scatola color rosso scuro tra le braccia: “Ma che ci fai con quell’affare in mano?”, urlai. “E’ vino, bisogna aprirlo, ma non so come fare!”. “Ci fosse una cosa che tu sai fare! Da’ a me, fammi vedere”. “Ci sono le istruzioni”, gridò Luca. “Apri il cartone dove c’è il buco e infilaci quella specie di spina”. “Hai visto?”, dissi. “E’ facile. Basta leggere le istruzioni. Fai presto a montare questo coso così ci facciamo due bicchieri”. Appena fu pronto, versammo e bevemmo. Andai a prendere le birre e le portai sul tavolo. “Adesso ci sono le birre. Quando saranno pronte le salsicce berremo altro vino. A proposito, Luca, quante ne hai comprate?”. “Quaranta.” “Quaranta? Sei peggio di un cinghiale, cristo! Chi le mangia tutte quelle salsicce? E c’è pure l’insalata di riso”. “E le tartine”, aggiunse Cibi. “Che me ne frega”, rispose. “Io le ho comprate. Chi vuole le mangia e se avanzano le butto nel cesso!”. “Va bene”, dissi. “Fai come vuoi!”. “Basta!”, aggiunse lui. “Beviamo invece di pensare a queste stronzate!”. Riempimmo i bicchieri di birra e trangugiammo velocemente. Che coglioni siamo. Una pancia ormai enorme, i risvegli mattutini con i postumi da smaltire, le pile di piatti da lavare, la casa che va a puttane, gli esami all’Università… E noi? Sempre a bere, sempre a cercare non so che cosa. Come se, poi, barcollare tra le persone o vomitare con la testa tra le gambe in qualche angolo maledetto o svegliarsi con un fottuto mal di testa o che altro so, ci desse la sensazione di essere diversi o migliori degli altri. Ma noi continuiamo, perché ci va così, perché ci piace, perché sì, cristo! Finalmente, alla spicciolata, arrivarono tutti. Vidi una decina di persone ma non riuscii a riconoscere neppure un essere umano. “Ciao Luca, ciao Luca”, starnazzavano avvicinandosi a lui. “Auguri, auguri!”. “Grazie”. Rispondeva lui abbracciandoli. Quando ebbero finito con i saluti, vennero verso di noi: “Ciao Cibi, ciao Brik.” “Ciao”. Rispondemmo, accompagnandoli verso il buffet. “Servitevi come volete”, dissi. “C’è l’insalata di riso, le patatine, i pop corn e le tartine”. “Sì, sì, grazie”. Io e Cibi, incuranti degli altri, ci sedemmo vicino al tavolo dove c’erano le birre, versandoci da bere. Accesi una sigaretta e fumai in silenzio, un po’ osservando Cibi, un po’ osservando i nostri amici, i quali, come papere in uno stagno che seguono mamma papera, seguivano Luca zigzagante tra le sedie. Era già sbronzo. Eravamo tutti e tre sbronzi! Quando finii di fumare, mi si avvicinò Francesca per salutarmi. Risposi: “Se scrivessi un libro sulle belle donne, tu saresti la conclusione”. “Grazie”, replicò arrossendo. “Già sei ubriaco, vero? Non cambi mai!”. “Se mi incontrassi tra vent’anni e non fossi sempre lo stesso, mi sentirei fallito!”. “Non dire stupidaggini!”, mi si rivolse affettuosamente. “Tu cambierai, ne sono sicura! Diventerai grande!”. “Chi te lo dice?”. “Ti ho detto che ne sono sicura!”. “Mah! Se lo dici tu! Dai, bevi qualcosa con me. Vino, birra?”. “Vino, grazie”. Versai e bevemmo. “Senti”, continuai. “Dopo mi fai vedere le mutandine, come quella volta due anni fa?”. “Ma sei pazzo?”, si arrabbiò. “Le mie mutandine non le hai mai viste e non te le farò vedere mai!”. “Perché no, dai! Ci conosciamo da tanto tempo”. E quasi le caddi addosso perché, per rendere più solenne la richiesta, mi ero alzato, ma le mie gambe, evidentemente, erano rimaste sedute. “Basta Brik, basta! Smettila”. La lasciai lì e andai con Cibi in cucina a bere un po’ di vodka e fumare qualche sigaretta. “Che palle!”, disse Cibi. “Troppa gente! È l’ultima cosa che ci vuole quando sei ciucco duro”. “Soprattutto, poi”, aggiunsi, “se non sono sbronzi come noi. Te li trovi davanti che ti guardano in modo strano, quasi a dirti: ma come cazzo sei messo? Ti ridacchiano alle spalle, loro, si fanno sorrisini, si dicono paroline del cazzo! Vai, torniamo fuori. Forse sono pronte le salsicce”. “Lo spero, ho fame”. Appena usciti, intravedemmo Luca avvolto nel fumo del barbecue che bestemmiava perché le salsicce gli scappavano dal forchettone. Andai a prendergli un bicchiere di vino e glielo portai. “Sono pronte?”. Chiesi. “Vaffan’culo”, rispose alzando la voce. “Non riesco ad infilzarle, cristo!” “Sono pronte oppure no, cazzo?”, domandò Cibi. “Non vedi? Sono pronte. Devo soltanto metterle nel vassoio”. “E quanto tempo ti ci vuole?”. “Il tempo che ci metto a farmi tua sorella!” “Ma se non ti si alza nemmeno, coglione impotente!” replicò Cibi. “Vaffan’culo!”. Lo liquidò Luca. Siamo così. Burberi, per niente gentili, a volte triviali, quasi osceni, ma, in fondo, ci vogliamo bene. Tanto. Finalmente la nostra cena era pronta. Riempii un bicchiere di vino e mi avventai sulle salsicce. Con la mia forchetta riuscii ad infilzarne tre e pensai: “Quel coglione non era capace di tenerne una col forchettone. Dev’essere un bel po’ andato”. Mangiai velocemente perché volevo prenderne delle altre. Trangugiai ancora salsicce e vino, con voracità che stupì chi mi guardava, ma io me ne fregavo: era il compleanno di uno dei miei migliori amici e io ero sbronzo, sbronzo per onorare la sua festa. Al diavolo tutti, cazzo! Quando ebbi finito di mangiare riempii di nuovo il bicchiere e, con una certa felicità, mi accorsi che Francesca mi si avvicinava. Poiché spesso mi aveva parlato dei suoi progetti riguardanti il lavoro, le dissi: “Io posso farti condurre il telegiornale, sai?” “Io voglio scrivere sui giornali, invece”. Rispose. “Non c’è problema! Conosco un tipo a Roma che è una specie di garante della carta stampata, può muovere qualsiasi cosa in quell’ambito e, quindi, figurati se non ti può aiutare”. “Grazie Brik”, rispose con espressione soddisfatta, quasi come se credesse a tutte quelle cazzate. “Grazie Brik una sega!”, ripresi io. “Un paio di giorni prima del colloquio col tipo, io e te ce ne andiamo a Roma nella suite di qualche albergo e ce la spassiamo tutto il giorno. Scusa, un tornaconto lo debbo pure avere, no? Tu mi tiri troppo! E, poi, dove lo trovi un altro come me, dove? Dove?”. Urlai. “Tu sei pazzo!”. “Basta Brik!”, si intromise Roberta, portandomi via. “Come al solito, stai esagerando!”. Non risposi perché l’avrei mandata affan’culo e mi allontanai. Luca portò la torta. Facemmo alcune fotografie, mentre lui spegneva le candeline, e aprimmo lo spumante. Quando i bicchieri di tutti furono pieni, farfugliai: “Brindiamo a questo fottuto coglione che oggi compie ventitré anni. Che possa passarne altri cento ad ingozzarsi come un porco, a sbronzarsi come un cammello e a scopare come un riccio!”. “Sì, sì”, risposero tutti in coro, con espressioni alquanto infastidite dalle mie parole. Alla tua, Luca, alla tua!”. Io, Luca e Cibi finimmo il resto dello spumante. Pian piano, gli invitati andarono via. Entrammo in casa e ci sedemmo attorno al solito tavolo per bere un po’ di vodka. Luca aveva le mani quasi ustionate dal caldo della brace. Cibi andò a prendergli della pomata. Accesi una sigaretta, li salutai e mi avviai verso casa. Il vento mi schiaffeggiava il volto. Appena arrivato, entrai in bagno, lavai i denti e mi buttai sul letto. In cielo non c’erano stelle.