Orfeo si girò troppo presto perchè Euridice continuava a chiamarlo. La naiade non sapeva dell’ordine che l’aedo aveva ricevuto da Ade: poterla riportare nel mondo dei vivi dopo l’anabasi dagl’Inferi, accompagnati dal dio Hermes, il controllore, senza mai potersi girare a guardarla prima dell’uscita. Continuava malinconicamente a chiamarlo. Pensava che il suo amato non si voltasse perché era brutta. Appena vide finalmente la luce, Orfeo credette di essere ormai fuori dagl’Inferi e si girò. La caviglia di Euridice, quella morsa a morte dal serpente mentre fuggiva dal bruto Aristeo che voleva possederla, le doleva ancora. Per questo si era attardata. Orfeo aveva trasgredito il comando di Ade. Si disperò. Euridice intese tutto e gli sussurrò parole struggenti: “Grazie, amore mio. Hai fatto tutto quello che potevi per salvarmi!”. Gli tenne entrambe le mani, consapevole che quella sarebbe stata l’ultima volta. Hermes pianse, ma dovette riportarla da Ade. Euridice scomparve negl’Inferi. Orfeo era distrutto. Sarebbe morto poco dopo, fatto a pezzi da alcune baccanti ubriache alle quali, per rimanere fedele alla memoria dell’amata, non aveva voluto concedersi.
La favola di Orfeo ed Euridice non è didascalica. Non ha alcuna morale, solo dolore. Solo dolore!
Torno, con questa prima delle due pubblicazioni di fine anno, al mio primo amore: la filosofia. Dall’introduzione al volume del prof. Marco Emanuele:
“Medico dello spirito, Riccardo Piroddi ci propone una riflessione filosofica al giorno. È un caso di medico che ritorna, di cura necessaria. Perché il tempo che viviamo ha bisogno di cura. E la filosofia serve, lenta ma radicale, a ricordarci le domande fondamentali sull’uomo e sulla condizione umana. Oggi d’intellettuali c’è bisogno e Riccardo lo è, a tutto tondo. È un appassionato di ricerca, guarda dentro, percorre l’oltre; e lo fa appassionandosi all’arte tutta, a quelle meravigliose sensazioni che ci danno il senso del vivere. La filosofia è in-utile, è dono. Non c’è obiettivo predefinito in questo breviario, che raccoglie pensieri e massime dall’antichità fino a tempi più recenti. Il redattore ci prospetta un viaggio unico, sensibile, per la riflessione. L’invito è a leggere ogni mattina, a meditare, a dimenticare per qualche istante il fare fine a sé stesso per entrare nel meraviglioso mondo del pensiero, e farne tesoro. Il mondo di Riccardo Piroddi è nei suoi occhi sorridenti, in quella malinconia napoletana e decadente che, in me, suscita l’amicizia nella cultura. E la filosofia è anche questo: elogio della decadenza. Nella Napoli dei continui risvegli, nella Napoli che fatica e che rinasce, lì c’è il meraviglioso spettacolo creativo che tutto il mondo cerca e che i troppi ingrati oltraggiano. L’invito è a leggere questo breviario per trovare un po’ di luce nelle nostre difficoltà. Come dice Paolo Conte, ‘qui, tutto il meglio è già qui‘”.
Sono sempre stato convinto che il mondo non si divida in bianchi o neri, religiosi o atei, belli o brutti, buoni o cattivi, ma semplicemente in ricchi e poveri. Sentite un po’ Voltaire:
“Entrate nella Borsa di Londra, lì l’ebreo, il maomettano e il cristiano si trattano reciprocamente come se fossero della stessa religione e chiamano infedeli solo quelli che fanno bancarotta“. “Lettere filosofiche”, 1734
“Alla Borsa di Amsterdam, di Londra, di Surat o di Bassora, il ghebro, il baniano, l’ebreo, il musulmano, il deicola cinese, il bramino, il cristiano greco, il cristiano romano, il cristiano protestante, il cristiano quacchero trafficano insieme; nessuno di loro leverà il pugnale contro un altro per guadagnare anime alla propria religione. Perché, allora, ci siamo scannati a vicenda quasi senza interruzione, dal primo concilio di Nicea in poi?”. “Dizionario filosofico” (voce “Tolleranza”), 1764
Tu si’ ‘na bambulella de chelle cu ‘o vestito ricamato de seta janca tutte a trini e pizzilli e cu ‘e scarpetelle cusute a ‘mmano da ‘na femmena gentile. ‘Na bambulella cu ‘na frangia de oro, ca fa arriva’ ‘e capille quasi fino all’uocchie ca luceno pure quanno ha fatto scuro. Tu si ‘na bambulella de chelle ca me ‘ncantasse a guarda’ ‘a sera ‘ngoppo ‘o cummo’, primma de piglia’ suonno, ‘na bambulella ca me strigno forte ‘mpietto ogne ‘bbota ca penzo ca nun starrai maie cu ‘mmè. Tu si ‘na bambulella, ‘a bambola ‘cchiù bella, de chelle ca ‘sta vucchella de porcellana rosa ‘a regnesse de vasi pigliannome pe’ fesso ca ‘e stongo ranno a te.
Vi è mai successo di ritrovarvi di notte, in un locale semi deserto, a bere un drink in compagnia di qualche sconosciuto e di avvertire un profondo senso di solitudine? Probabilmente, è ciò che è accaduto ai tre personaggi seduti al bancone del bar raffigurato da Edward Hopper in Nighthawks…
Esistesse una Commissione Disciplinare anche nella Letteratura Italiana, Cino da Pistoia dovrebbe essere sanzionato pesantemente per discriminazione territoriale! Guittoncino, detto Cino, della nobile famiglia dei Sighibuldi, nacque a Pistoia nel 1270. Studiò legge all’estero, prima a Bologna (per un pistoiese del XIII secolo, Bologna era all’estero!), poi, a Orleans, in Francia. Tornato in patria, esercitò l’avvocatura ma pochissimo tempo dopo, nel 1303, fu costretto a lasciare Pistoia perché i guelfi avevano cacciato i ghibellini dalla città. Rientratovi dopo tre anni, si dedicò alla scrittura di opere giuridiche, guadagnandosi, così, molti apprezzamenti e la cattedra di diritto presso le Università di Siena, di Perugia e di Napoli. All’ombra del Vesuvio conobbe e frequentò Giovanni Boccaccio, col quale, molto probabilmente, ragionava di donne e di poesia d’amore. L’insegnamento accademico, comunque, non gli impedì di celebrare, in versi, la sua amata, Selvaggia. Compose venti canzoni, undici ballate e centotrentaquattro sonetti (dopo Dante è lo stilonovista di cui ci sono giunte più rime). Quando morì, nel 1337, Francesco Petrarca, suo allievo di stile, gli dedicò un sonetto, Piangete, donne, e con voi pianga Amore. Se lo scontroso, geloso e un po’ invidioso letterato aretino si scomodò per Cino, è la prova che questi era stato un uomo e un poeta di grande valore. Quando lo incontrai al Liceo per la prima volta, mi fu subito simpatico perché il suo nome mi faceva tornare alla mente quello di un personaggio che ho molto amato durante la mia infanzia: il mago Zurlì, il cui vero nome è, appunto, Cino Tortorella. Mia madre aveva regalato a me e a mia sorella Tiziana un cofanetto di musicassette con le più famose fiabe, raccontate proprio dal mago dello Zecchino d’Oro. Ricordo ancora il mangianastri nero con i pulsanti rossi e i pomeriggi trascorsi insieme con Anna, la nostra babysitter, ascoltando Pollicino, La bella addormentata nel bosco, Cenerentola, Biancanevee i sette nani, Heidi, Lutra la lontra e Raperonzolo. Quando, però, cominciai a ricercare materiali per la miaStoria della Letteratura Italiana, il pistoiese si rese antipatico perché scoprii che aveva scritto, non un semplice sonetto, ma una lunga canzone contro i napoletani, Deh, quando rivedrò ‘l dolce paese, in cui ci conciò davvero male:
“Deh, quando rivedrò ‘l dolce paese di Toscana gentile, dove ‘l bel fior si mostra d’ogni mese, e partiròmmi del regno servile ch’anticamente prese per ragion nome d’animal sì vile? Ove a bon grado nullo ben si face, ove ogni senso fallace – e bugiardo senza riguardo – di virtù si trova, però ch’è cosa nova, straniera e peregrina di così fatta gente balduina. O sommo vate, quanto mal facesti (non t’era me’ morire a Piettola, colà dove nascesti?), quando la mosca, per laltre fuggire, i n tal loco ponesti, ove ogni vespa deveria venire a punger que’ che su ne’ tocchi stanno, come simie in iscranno – senza lingua la qual distingua – pregio o ben alcuno. Riguarda ciascheduno: tutti compar’ li vedi, degni de li antichi viri eredi. O gente senza alcuna cortesia, la cu’ ‘nvidia punge l’altrui valor, ed ogni ben s’oblia; o vil malizia, a te, perché t’allunge di bella leggiadria, la penna e l’orinal teco s’aggiunge. O sòlo, solo voto di vertute, perché trasforme e mute – la natura, già bella e pura – del gran sangue altero? A te converria Nero o Totila flagello”.
Concluse, poi, passando la palla agli juventini, ai milanisti, agli interisti, agli atalantini e ai veronesi, anche se, oggi, da Roma in su, non c’è tifoseria, tranne quella genoana, che non canti, quasi ogni domenica, “Noi non siamo Napoletani!” o “Vesuvio lavali col fuoco!”:
“Vera satira mia, va’ per lo mondo, e de Napoli conta che ritén quel che ‘l mare non vole a fondo”.
Ad ogni modo, a parte la discriminazione territoriale contro i miei conterranei dell’epoca, Cino fu un rimatore molto bravo che seppe cantare il dolore e l’inquietudine per la mancanza d’amore, in uno stile dolce e armonioso, malinconico e mesto, espresso con un’accuratezza linguistica da grande poeta. Il pistoiese era capace di arrivare al cuore delle donne, di tutte le donne, tranne, evidentemente, a quello della donna bramata (succede sempre così!).
“La dolce vista e ‘l bel guardo soave de’ più begli occhi che lucesser mai, c’ho perduto, mi fa parer sì grave la vita mia ch’i vo traendo guai”.
E ancora:
“Angel di Deo simiglia in ciascun atto questa giovane bella che m’ha con gli occhi suoi lo cor disfatto”.
Che tenerezza, poi, la canzone Oïmè lasso, quelle trezze bionde, composta quando l’amata Selvaggia morì. Le bionde trecce, gli occhi azzurri e poi… il viso, il suo sorriso, la morte s’era portata via tutto, pure le sue calzette rosse (W Mogol-Battisti!).
E allora sì, sì, ca t’abbraccio forte, t’astregno accussì forte a te fa ‘mmanca’ ‘o ciato, ma me l’aie chierere tu pecchè ‘a quanno te ne si’ ghiuta so’ addiventato scemo, e tanta cose nun ‘e capisco cchiu’. Nun ave’ paura. Stiennele ‘sti braccia, io stongo ‘cca’ nun me ne vaco. Io c’aggio sempe stato. Vieni, vieni ccà, fatte leva’ sti capille ‘e oro annanze all’uocchie, ca te voglio guarda’ ancora. M’aggio sfasteriato ‘e te sunnà sultanto. Io voglio sta’ scetato!
E allora sì, sì, ca t’abbraccio forte. Stiennele ‘sti braccia, fatte ‘na risata e arape ‘o core, io stongo ‘cca’ nun me ne vaco. Io c’aggio sempe stato, pecchè tu, nenne’, si’ troppa bella, ‘o ‘bbuo’ cape’ o no ca over si’ ‘a cchiu’ bella, e chesto m’è abbastato pe’ me fa ‘nnammura’.
Riflettendo su La pioggia nel pineto di Gabriele D’Annunzio, pensavo alla sostanziale inutilità di quella pratica, in voga quando io ero studente elementare, di far imparare a memoria le poesie più famose della Letteratura Italiana. Ecco quanto scrivevo, qualche anno fa, a proposito del mandare le cose a memoria, in una mia pubblicazione sulla Letteratura Italiana: “Che sia maledetto! (riferito a Carducci e alla sua San Martino). Mi ricordo, quando frequentavo la quarta elementare, di aver passato un pomeriggio ad imparare a memoria questa poesia, di essermi svegliato un’ora prima la mattina dopo per ripassarla e, nonostante ciò, davanti alla maestra, piansi perché non la ricordavo tutta. Ho sempre odiato dover imparare le cose a memoria. Che vantaggio c’è a conoscere il testo di una poesia senza poi riconoscerne e capirne i temi?” Per tornare al Vate ed a La pioggia nel pineto, qualcuno riesce a spiegarmi cosa può capirne un bambino dei “freschi pensieri/ che l’anima schiude/ novella,/ su la favola bella/ che ieri/ t’illuse, che oggi m’illude”, oppure, è in grado di sapere che si possa piangere anche di piacere? “Piove su le tue ciglia nere/ sì che par tu pianga/ ma di piacere”. E tantissimi altri esempi potrei addurre, non soltanto relativi a questa poesia. Ecco, allora, a cosa serve la memoria di una poesia se, poi, non se ne capisce il senso? Pensate che un poeta abbia appagamento a che i suoi versi siano mandati a memoria senza intenderne il significato? Non credo proprio!
Ho provato a inventare
i modi più diversi per farti brillare, te, già bella e terribile come un angelo, ballando sugli oceani cupi, torcendomi nell’acqua spumosa, senza paura d’affogare. Sono stato lì per giorni, muovendo le labbra soltanto per respirare il tuo nome e restare vivo. Ho riaperto gli occhi e mi son trovato solo, sopra il mare in tempesta e t’ho annegata nel profondo di me. Ed è già domani.