Archivio mensile:Maggio 2024

La società aperta e i suoi nemici
di Karl Popper

Il manifesto razionale di libertà

 

 

 

 

La società aperta e i suoi nemici, pubblicata da Karl Popper in due volumi, tra il 1943 e il 1945, presenta una critica radicale al totalitarismo e difende con passione il valore delle società democratiche e liberali. La sua analisi si estende attraverso la filosofia, la storia e la politica, rendendola una pietra miliare nel pensiero del XX secolo.
Il testo fu redatto durante gli anni della Seconda guerra mondiale. Popper stesso, originario di Vienna e di famiglia ebraica, visse gli orrori del totalitarismo nazista prima di fuggire in Nuova Zelanda, dove poi scrisse l’opera. Il contesto storico è fondamentale per comprendere l’urgenza e l’impeto con cui l’Autore attacca quelle teorie filosofiche che, secondo lui, avevano pavimentato la via ai regimi totalitari.
Il filosofo descrive la società aperta come un sistema sociale caratterizzato dalla flessibilità, dalla capacità di auto-correzione e dal governo attraverso decisioni consensuali piuttosto che coercitive. La società aperta promuove l’innovazione e il cambiamento continuo, incoraggiando il dibattito, la critica e la diversità di opinioni. La sua essenza sta nell’abilità degli individui di vivere senza imposizioni da parte dell’autorità e di partecipare attivamente alla formazione delle politiche pubbliche. Per meglio comprendere la società aperta è utile considerare il suo opposto: la società chiusa. Questa è caratterizzata da strutture statiche e gerarchiche, dove il cambiamento è percepito come una minaccia all’ordine sociale stabilito. Le società chiuse spesso mitizzano il passato e aderiscono a ideologie rigidamente deterministiche, che giustificano il controllo autoritario e la limitazione delle libertà individuali. Popper vede tali caratteristiche proprio nei regimi totalitari del suo tempo, che sfruttano tali ideologie per sopprimere il dissenso e mantenere il potere.
Il filosofo critica aspramente le teorie storico-deterministiche di Platone, Hegel e Marx, accusandoli di essere “nemici” della società aperta, a causa delle loro visioni utopiche e totalitarie, che sostengono una inevitabile marcia verso determinati ideali politici, giustificando così il sacrificio degli individui per obiettivi collettivi supposti. Egli sostiene che questa visione della storia sia scientificamente infondata e pericolosamente vicina a giustificare i peggiori eccessi dei regimi autoritari. La storia, al contrario, è fatta di scelte imprevedibili e l’azione umana è caratterizzata da una responsabilità morale individuale, non da traiettorie prefissate. Per questo, propone ciò che chiama “razionalismo critico”, un approccio che valorizza la discussione aperta e il miglioramento incrementale della società attraverso la scienza e la critica piuttosto che con rivoluzioni violente.
Popper stigmatizza Platone per il suo idealismo e la sua teoria dello Stato governato da filosofi-re, che giudica come l’antitesi della democrazia. Il modello platonico promuove una società chiusa e statica, dove il cambiamento è inteso quale corruzione dell’ordine ideale. Attacca Hegel per il suo orientamento assolutista e la sua filosofia della storia, che presenta uno sviluppo dialettico verso uno stato finale di libertà assoluta, riscontrandovi addirittura l’antecedente ideologico del nazionalsocialismo tedesco e del fascismo italiano, valutazione che si estende anche a teorie che predicono inevitabili conclusioni storiche, compreso il marxismo. Anche riconosce in Marx un’intenzione morale di migliorare le condizioni delle classi lavoratrici, disapprova il suo determinismo economico, sostenendo che, nonostante le sue intenzioni, finisca per fornire una giustificazione filosofica all’autocrazia rivoluzionaria, che si presume agisca nel nome dell’inevitabile marcia della storia verso il comunismo.La parte conclusiva dell’opera è dedicata alla difesa della società aperta, che Popper identifica con la democrazia liberale, interpretata non solo come un sistema politico, ma come ethos culturale che valorizza la libertà individuale, il pluralismo e il cambiamento progressivo attraverso metodi pacifici e razionali. La democrazia liberale è innanzitutto un processo. Non è statica né definita da una particolare configurazione istituzionale, ma è un sistema dinamico che consente il cambiamento e l’adattamento. Il filosofo critica le visioni utopiche che vedono la politica come ricerca di un ordine ideale e immutabile. Al contrario, asserisce che la società aperta sia caratterizzata da “una disposizione a imparare dall’errore”, qualità che permette alle società democratiche liberali di correggersi e migliorarsi continuamente. Eleva il concetto di tolleranza a principio fondamentale della società aperta, pur avvertendo contro il “paradosso della tolleranza”: infatti, la tolleranza illimitata può portare alla distruzione della tolleranza stessa, se si permette ai tolleranti di sfruttare la libertà offerta per sopprimere i diritti altrui. In una società aperta, la tolleranza richiede un equilibrio attivo, a cui i limiti sono posti per prevenire l’ascesa di forze intolleranti e autoritarie. Un aspetto risolutivo della democrazia liberale è costituito dall’importanza del disaccordo e del dibattito aperto. Popper sostiene che il progresso scientifico e sociale si verifichi per mezzo di un costante processo di congettura e confutazione, dove le teorie sono proposte, testate e spesso confutate. Analogamente, la democrazia deve operare attraverso un dialogo aperto e critico, in cui le politiche sono proposte, discusse e modificate in risposta ai giudizi e ai cambiamenti delle circostanze. Infine, pone una forte enfasi sui diritti individuali quale fondamento della democrazia liberale. La loro protezione non è solo una questione di giustizia legale o morale ma è essenziale per la creazione di un ambiente in cui gli individui possono pensare, esprimersi e agire senza paura di repressione, considerando ciò essenziale per il mantenimento di una società aperta e per il progresso continuo verso una migliore condizione umana.
La società aperta e i suoi nemici, quindi, non è solo un testo di filosofia politica, ma anche un appello accorato alla vigilanza e alla responsabilità individuale nelle società democratiche. L’analisi di Popper rimane estremamente rilevante oggi, in un’epoca in cui le democrazie sono nuovamente messe alla prova da forze autoritarie e populiste. La sua visione della società aperta offre un quadro prezioso per comprendere e affrontare le sfide contemporanee nel mondo politico e sociale. In un’era di crescente polarizzazione, populismo e attacchi alle istituzioni democratiche, il modello di società aperta di Popper serve come promemoria dell’importanza di mantenere e difendere i principi di apertura, tolleranza e dialogo democratico. La sua teoria rimane un potente strumento analitico per i difensori della libertà e della democrazia in tutto il mondo, esortando a non dare mai per scontata quella libertà e a combattere continuamente per la trasparenza, la comprensione e il dialogo, pilastri di ogni società veramente aperta.

 

 

 

 

La Venere Callipigia

 

 

 

La statua della Venere Callipigia è un’ode marmorea all’eterna bellezza femminile, scolpita con una grazia che trascende il tempo. Realizzata in marmo bianco, ritrae la dea ergersi in una posa delicata e insieme potente. Il suo corpo sinuoso, dalle forme morbide e armoniose, sembra animarsi sotto gli occhi di chi la osserva, raccontando storie di divinità, di femminilità e di miti antichi.
Il nome del suo scultore rimane avvolto nel mistero. Non esistono documenti certi che identifichino l’artista creatore di questa magnifica scultura. Tuttavia, si ritiene che la statua sia stata realizzata durante il periodo ellenistico, dal 323 a.C. al 31 a.C. L’epoca ellenistica fu evo di grande fioritura artistica e culturale, caratterizzato da un’estrema raffinatezza tecnica e da un’espressività marcata nelle opere d’arte. Gli scultori di quel periodo miravano a rappresentare non solo la bellezza fisica ideale, ma anche le emozioni e i movimenti naturali dei corpi. La Venere Callipigia, con la sua postura dinamica e i dettagli anatomici, riflette perfettamente queste caratteristiche.
Il nome Callipigia deriva dal greco antico Kallipygos, che significa “dalle belle natiche”. Tale appellativo mette in evidenza una particolarità specifica della statua: la raffigurazione idealizzata della parte posteriore del corpo femminile.
Secondo la leggenda, la statua fu ispirata da una gara di bellezza tra due sorelle di Siracusa, ciascuna delle quali vantava di avere le natiche più belle. Il giudizio favorevole portò all’edificazione di un tempio dedicato a Venere Callipigia, dove la statua fu collocata come simbolo di quella peculiare bellezza.

“Venere Callipigia”, IV-I sec. a.C., Napoli, Museo Archeologico Nazionale

La posa della statua vede la dea girarsi leggermente per guardare indietro. È come se Venere fosse còlta in un momento di intima riflessione, aggiungendo una dimensione di delicatezza e vulnerabilità alla sua figura divina. I suoi tratti, scolpiti con maestria, risplendono alla luce, creando giochi di ombre che esaltano ogni finitura. La postura, leggermente inclinata, suggerisce un movimento sospeso tra il passo e la stasi, un attimo di grazia catturato per l’eternità. Il volto, sereno ma impenetrabile, invita l’osservatore a immergersi in un mondo di bellezza e mistero, dove il divino e l’umano femminile si fondono in un amplesso senza tempo.
La Venere Callipigia celebra sì la bellezza esteriore, ma anche un ideale di perfezione interiore, una bellezza che risiede nell’equilibrio e nell’armonia. Guardarla (e incantarsi) è come ascoltare una quieta melodia, una poesia scolpita nella pietra, che sussurra segreti di un passato immortale. Ogni linea, ogni curva è un verso di questa poesia visiva, che incanta e affascina, rendendo omaggio alla magnificenza del corpo femminile e alla divina arte della scultura.

 

 

 

Quel senso di nostalgia nella poesia crepuscolare
di Guido Gozzano

 

 

 

I primi vent’anni della mia vita li ho trascorsi stabilmente a Sant’Agata sui due Golfi, a casa dei miei genitori. Il balcone della mia camera da letto affacciava su un panorama mozzafiato: a sinistra, la collina di Santa Maria della Neve, poi, il Monte San Costanzo, al centro della scena, l’isola di Capri e, sulla destra, il colle del Deserto. Fin da bambino, mi incantavo a guardare, tra ottobre e novembre, il sole tramontare tra Capri e il mare. Ho sempre accostato questa immagine al ricordo della mia infanzia e della mia terra bellissima ogniqualvolta, essendone lontano, ho pensato ad esse. Anche il termine Crepuscolarismo mi rimanda a tale dolce memoria. La definizione di questo movimento poetico ha a che fare con il tramonto, proprio perché fu adoperata per definire quella tendenza compositiva che si sviluppò in Italia nei primi quindici anni del Novecento. Gabriele D’Annunzio aveva celebrato la poesia eroica, ponendo il poeta nella posizione di animatore della storia e creatore delle forze del futuro. I crepuscolari, al contrario, rifiutavano questa concezione del versificatore e della poesia, ripiegando su temi e movimenti più semplici, di declino, smorzati e spenti, comuni e usuali, nostalgici, come il sole che tramonta, appunto. Nel tramonto c’è tutta la nostalgia del giorno che sta per finire. Ecco il perché del termine Crepuscolarismo. Il più famoso poeta crepuscolare fu senza dubbio Guido Gozzano. Nato a Torino nel 1883, studiò con poco profitto alle scuole superiori, si iscrisse all’Università senza, però, laurearsi. Si interessò soltanto alla letteratura e alla poesia. Visse molto poco, 33 anni, distrutto dalla tisi. Il suo compendio poetico che vale la pena leggere è “Colloqui”. La poetica di Gozzano risente della malattia e del continuo confrontarsi con essa, dell’incertezza del futuro e del rifugio in un passato tutto da ricordare. Ecco perché essa è dotata di una forte componente nostalgica. Il poeta avrebbe desiderato solo essere felice, poter amare ed essere amato, ma la malattia glielo impedì. Ne sono dimostrazione due tra le sue liriche migliori: “L’amica di Nonna Speranza” e “Cocotte”. Non ebbe mai la pretesa di voler essere considerato un grande poeta. Verseggiò con tristezza, quasi piangendo!

Pubblicato l’1 giugno 2017 su La Lumaca

 

 

Pia de’ Tolomei

 

 

 

Nel soave fluire dei versi danteschi, tra le righe vergate di un’opera eterna come la Divina Commedia, appare la figura di Pia de’ Tolomei, donna di nobile lignaggio e tragico destino. La sua storia si intreccia con le trame del Purgatorio, nel canto V, dove le anime dei morti di morte violenta si purificano prima di ascendere al cielo.
Pia de’ Tolomei appare con grazia eterea, avvolta in un’aura di melanconia. Il suo spirito, sospeso tra ricordi terreni e speranze ultraterrene, evoca una tenerezza infinita e una dignità senza tempo. Dante, con il suo sguardo attento e pietoso, cattura l’essenza di questa donna che, pur nel dolore, conserva una bellezza immacolata e una forza d’animo rara.

Deh, quando tu sarai tornato al mondo
e riposato de la lunga via
”,

seguitò ‘l terzo spirito al secondo,
ricorditi di me, che son la Pia;
Siena mi fé, disfecemi Maremma:
salsi colui che ‘nnanellata pria
disposando m’avea con la sua gemma
”.

(Purg., V, 130-136)

Con queste parole, Pia si presenta a Dante, rivelando in pochi versi la sua identità e la sua tragedia. Nata a Siena, è stata vittima di un tradimento crudele. Il suo destino è stato segnato dall’inganno e dalla violenza, ma nelle sue parole risuona una pacata accettazione, una serena consapevolezza della sua sorte.
La figura di Pia de’ Tolomei è un simbolo di fedeltà, un’eco lontana di amori perduti e speranze infrante. La sua presenza nel Purgatorio è come un fiore delicato in un giardino di spine, un ricordo dolce e amaro che sopravvive ai secoli. La sua storia, sebbene intrisa di sofferenza, brilla di una luce pura e inviolata, un faro di umanità e compassione.
In Pia de’ Tolomei Dante coglie l’essenza della fragilità umana e della resistenza dell’anima. La sua breve apparizione è sufficiente a imprimere un segno indelebile nel cuore del lettore, un monito sulla vanità delle ambizioni terrene e sulla nobiltà del perdono. Con la sua voce sommessa e il suo sguardo mesto Pia ci invita a riflettere sulla caducità della vita e sull’eternità dello spirito.
E così, nel silenzio del Purgatorio, risuona ancora la voce di Pia, un canto di dolore e di speranza che si leva come un sussurro tra le stelle. La sua figura, scolpita nei versi immortali di Dante, continua a vivere, a parlare, a commuovere, testimone di una bellezza che trascende anche il tempo!

Pio Fedi, “Pia de’ Tolomei e Nello della Pietra”, 1861 – Firenze, Palazzo Pitti

 

 

 

 

 

Novum Organum di Francis Bacon

“Sapere è potere!”

 

 

 

Il Novum Organum, pubblicato nel 1620, costituisce, senza dubbio, una pietra miliare nella storia del pensiero scientifico e filosofico. Francis Bacon, in quest’opera, non solo critica i metodi di conoscenza allora dominanti, ereditati dalla tradizione aristotelica e scolastica, ma propone anche un nuovo metodo, basato sull’induzione e sulla sperimentazione empirica. La sua visione mira a riformare il processo di acquisizione della conoscenza per avanzare nel progresso tecnico e scientifico.
Uno degli aspetti centrali del Novum Organum è rappresentato dall’introduzione del metodo induttivo. Contrariamente al metodo deduttivo aristotelico, che parte da premesse generali per arrivare a conclusioni specifiche, il metodo baconiano suggerisce di partire dall’osservazione di fatti particolari per generalizzare le leggi della natura. Bacon critica aspramente la logica aristotelica, ritenendola inadeguata per la scoperta di nuove verità. Il suo approccio è rivoluzionario, perché propone di costruire il sapere sulla base di dati empirici, organizzati attraverso tavole di presenza, assenza e gradi.
Bacon anticipa l’importanza del progresso tecnologico quale frutto della scienza applicata, mettendo in luce come la conoscenza accurata della natura possa condurre al miglioramento delle condizioni umane attraverso invenzioni e scoperte. Immagina, altresì, una scienza che sia utile e produttiva, non solo speculativa, visione che prefigura lo sviluppo della metodologia scientifica moderna e pone le basi per la futura rivoluzione industriale.
Dal punto di vista logico, Bacon introduce la teoria degli “idola”, termine latino che si riferisce a false nozioni o idoli, che ingannano l’intelletto umano. Gli idola rappresentano pregiudizi o errori sistematici di pensiero, che distorcono la percezione della realtà e ostacolano la scoperta della verità attraverso il metodo scientifico. Il filosofo identifica quattro categorie principali di idola, ognuna delle quali contribuisce in modo diverso alla corruzione della mente umana.
Gli idola tribus sono gli idoli associati alla natura umana in generale. Bacon sostiene che questi pregiudizi siano innati nella mente e derivino dalla sua tendenza a percepire più ordine e regolarità nella natura di quanto in realtà esista. Ad esempio, gli esseri umani tendono a vedere causalità in eventi coincidentali o a percepire modelli e significati anche dove non ne esistono. Questo tipo di errore logico può portare a conclusioni errate e impedire un’indagine oggettiva della realtà. Gli idola specus si riferiscono agli “idoli della caverna”, ovvero ai pregiudizi personali che ogni individuo sviluppa in base alla propria educazione, ambiente, esperienze e inclinazioni personali. Questi idoli sono paragonabili a preferenze personali che possono colorare il modo in cui si interpretano e filtrano le informazioni. Ad esempio, uno scienziato potrebbe favorire teorie che si allineano meglio con la sua formazione specialistica, ignorando o minimizzando l’importanza di dati che supportano teorie alternative. Gli idola fori sono gli “idoli del mercato”, derivanti dall’uso improprio del linguaggio e delle parole. Bacon sostiene che il linguaggio, essendo un costrutto umano, sia intrinsecamente impreciso e spesso carico di ambiguità e connotazioni che avrebbero potuto portare a misconoscimenti e malintesi. Le parole sono spesso inadeguate per descrivere la realtà in modo esatto e possono distorcere la comprensione. Infine, gli idola theatri sono gli “idoli del teatro”, che derivano dalle dottrine filosofiche e dai principi errati delle scienze e delle arti. Questi idoli includono le fallacie che emergono dalle teorie non verificate e dai sistemi filosofici accettati senza questioni. Tali sistemi sono paragonati a “produzioni teatrali”, che presentano una versione della realtà distorta e sceneggiata, lontana dalla verità empirica e oggettiva. La teoria degli idola ha importanti implicazioni per il metodo scientifico. Essa mette in guardia contro il pericolo di affidarsi troppo alla percezione sensoriale e intellettuale non critica. Invece, suggerisce la necessità di un approccio sistematico e meticoloso nella raccolta e analisi dei dati, libero da pregiudizi personali, linguistici e culturali. Bacon propone, quindi, un metodo di indagine che miri a purificare la mente da questi idoli attraverso la sperimentazione ripetuta e l’osservazione accurata, ponendo così le basi per la scienza moderna. La teoria degli idola, quindi, costituisce una critica radicale alla conoscenza umana tradizionale e un appello alla vigilanza epistemologica nell’indagine scientifica. Bacon sottolinea l’importanza di superare questi ostacoli epistemologici per raggiungere una vera comprensione della natura, promuovendo un approccio più rigoroso e sistematico alla scienza.


Il Novum Organum si inserisce in un contesto filosofico dominato dal razionalismo e dall’empirismo, influenzando profondamente entrambe le correnti. Bacon, pur non essendo un empirista nel senso stretto, promuove un’indagine della realtà basata sull’esperienza sensoriale come antidoto alle false nozioni e ai pregiudizi che, secondo lui, ostacolano la conoscenza vera. La sua critica verso le autorità del passato, come Aristotele, e la sua sfiducia nei confronti della pura deduzione razionale lo collocano in un movimento di pensiero che cercò di liberare la ricerca scientifica dalle catene della tradizione e della superstizione.
L’opera, perciò, costituisce molto più di un semplice trattato di metodologia scientifica; è un manifesto che chiama a un nuovo ordine cognitivo in cui la scienza diventa il motore del progresso materiale e morale dell’umanità. Riflette e contribuisce a una trasformazione epocale nella concezione del sapere, promuovendo una visione pragmatica e utilitaristica della conoscenza. Bacon, con la sua logica induttiva e l’enfasi sull’importanza delle scoperte tecnologiche, non solo ha disegnato il contorno del moderno metodo scientifico, ma ha anche preparato il terreno per la rivoluzione scientifica che avrebbe preso piede nel corso del secolo successivo.
Il Novum Organum, pertanto, rimane un testo fondamentale per comprendere l’evoluzione del pensiero scientifico e la sua interazione con le correnti filosofiche del Seicento, evidenziando come la scienza possa essere strumentalizzata per il miglioramento sociale e tecnologico.

 

 

 

State, sovereignty, law and economics
in the era of globalization

 

 

 

Taken from my lectures as a Teaching Fellow in International Law, these reflections highlight how State sovereignty and International Law are profoundly influenced by globalization, economic integration and digital technologies, raising fundamental questions about global governance, State autonomy and the adaptation of legal structures to new economic and technological realities.

 

Part VII

International Law and Tax Law

 

 

The process of conflict mediation emerges as a daunting challenge at the nexus of law and politics, embarking on a journey through duality and transformation. This text is imbued with deep reflections on the genesis of legal systems: every stable structure springs from chaos, perpetually sailing on the turbulent waters of uncertainty and potential dissolution. The figure of Janus, the Roman god with two faces looking towards both past and future, symbolizes this endless transition between creation and destruction, order and chaos, the internal and the external. Law, akin to Janus, embraces this essential duality, delving into the dynamics of construction and deconstruction, and contrasting warfare with peace, justice with force, State with territory, and politics with economy. “Janus in the mirror” mirrors the complex self-examination of law, challenging static perception and inviting to a fourfold reflection. This duality extends to the sovereignty of States, transformed and expanded beyond national boundaries by technology, suggesting a new understanding of space and territoriality in the digital age. The relationship between “de-nomosized” spaces and those to be “re-nomosized” reveals an ongoing dialogue between past and future, highlighting the need for a balance between tradition and innovation in law.
The sovereignty of a State, characterized by its capacity to autonomously regulate other wills within a given territory, is confronted with the challenges of globalization and power sharing. Legislation, inherently linked to State sovereignty, becomes a battleground between traditional exercises of power and the pressures of globalization, which reshape the coordinates of political and legal space. The progressive erosion of State sovereignty, catalysed by global interconnectedness and supranational dynamics, questions the very foundations of State power. In this context, new forms of cooperation and governance emerge, requiring a rethinking of traditional norms and principles in favour of a more inclusive and multilateral approach, reflecting the complexity of international and transnational relationships in an interconnected world.
The concept of fiscal sovereignty, understood as the State’s capacity to levy taxes within its territorial borders and as an expression of independence in international relations, reflects the complexity of global economic dynamics. The distinction between the power of taxation tied to territory and the transnational nature of investments raises fundamental questions about the regulation and application of fiscal laws. With the expansion of international trade, there is a highlighted need to adapt fiscal regulations to the realities of a globalized economy, recognizing both the territorial limits of the State and its ability to influence economic situations beyond its borders. This debate on the extraterritorial character of tax discipline underscores the importance of finding a balance between national sovereignty and international cooperation in the era of globalization.
The context of international law is characterized by its intricate web of rules, distinguished by the diversity of their sources and a substantive consistency in their aims. This framework reflects the sovereignty of each nation, seen as an autonomous and sovereign entity, particularly in the context of tax legislation, where the principle of exclusive territorial jurisdiction prevails.
Despite this, there is no unified body of laws governing international tax matters between States. Instead, tax law and international law merge to facilitate the harmonious coexistence of States, considered equal in their right to exercise sovereignty and in maintaining their supreme authority. This integration is based on international cooperation to resolve disputes between different tax jurisdictions, driven by global interaction and economic relations.
Thus, the concept of international tax law relies on conventions against double taxation in the absence of direct tax imposition. This branch of law, unlike private international law, does not aim to resolve discrepancies between laws but rather to manage conflicts between different fiscal claims. International tax treaties seek to limit the legislative power of States to mitigate instances of double taxation, with each State agreeing to relinquish a portion of its taxation right in favour of the other, based on principles of reciprocity and mutually agreed arrangements.
On the other hand, supranational tax law is distinguished by being issued by entities that override States, such as international organizations with their own legal personality, significantly broadening the scope of application compared to convention-based tax law. While the latter focuses primarily on preventing double taxation, supranational law can directly regulate the substance of tax laws, deeply influencing national legislations.
A prime example is the tax law of the European Union, which highlights the EU’s supremacy over its member States and whose impact on national laws is widely recognized. However, this does not necessarily imply a divergence between international tax law and EU law. Community law integrates into national legal systems through a process of adoption based on the founding treaties of the EU, thus highlighting its uniqueness and its particular effect on national legal systems, while remaining part of the broader context of international tax law.

 

 

 

 

La religione entro i limiti della semplice ragione
di Immanuel Kant

Critica della ragion religiosa

 

 

 

 

La religione entro i limiti della semplice ragione di Immanuel Kant, pubblicata nel 1793, analizza il rapporto tra la religione e la razionalità, proponendo una visione in cui la prima è interpretata attraverso il prisma della ragion pura, senza dipendenza dalle rivelazioni o dagli insegnamenti specifici di una fede particolare.
Kant si muove nell’ambito della sua critica della ragion pura e pratica, estendendo l’indagine alla religione. Sostiene che la moralità, non la dottrina dogmatica o i miracoli, dovrebbe essere la vera essenza della religione. La tesi principale è che la vera religione debba essere universale, basata sulla ragione e accessibile a tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla loro cultura o background religioso.
Il filosofo comincia la trattazione operando una distinzione tra religione naturale e religione razionale, entrambe considerate alternative alle religioni rivelate, come il cristianesimo tradizionale, ma differenti significativamente nei loro approcci e presupposti.
La religione naturale si fonda sull’osservazione del mondo naturale e dell’universo, da cui si traggono inferenze sulla natura e sull’esistenza di un Creatore. Questa forma di religione è accessibile agli esseri umani attraverso l’uso della ragione e dell’esperienza sensoriale, senza necessità di rivelazione divina o testi sacri. Kant ritiene che la religione naturale sia una forma di fede che rispetta i limiti della conoscenza umana ed evita superstizioni e dogmi. Nonostante ciò, la religione naturale da sola è limitata, poiché non può fornire una guida completa per la moralità, che il filosofo considera essenziale.
La religione razionale, invece, è strettamente legata all’etica kantiana e si basa interamente su principi razionali. Non solo accetta l’esistenza di Dio, causata dalla necessità di un ordine morale universale, ma pone anche i principi morali come fondamentali per la comprensione e la pratica della religione. La religione razionale trascende la semplice osservazione del mondo naturale e integra le nozioni di dovere e legge morale come manifestazioni della volontà divina. La religione razionale è quindi superiore alla religione naturale, perché incorpora la ragione pura e pratica, fornendo una base solida per un’etica universale che promuova la giustizia e la benevolenza.
Nel trattare il cristianesimo, Kant si impegna in una critica costruttiva, riconoscendone il valore delle dottrine centrali, pur sottoponendole al giudizio della ragion pura. La sua analisi del cristianesimo non mira a respingere la religione rivelata in toto, ma a purificarla dagli elementi superstiziosi e dogmatici, per rivelarne il nucleo morale universale. Critica aspetti del cristianesimo che ritiene basati su dogmi irrazionali, come la dipendenza da miracoli e rivelazioni che non possono essere giustificate attraverso la ragione, sostenendo che tali elementi distolgano dalla vera essenza della religione, ovvero il perseguimento del bene morale. Al contempo, stima il cristianesimo per il suo forte accento sulla moralità, in particolare, l’etica dell’amore e del sacrificio personale, rappresentati dalla figura di Gesù Cristo, visto come l’archetipo dell’“uomo morale”, la cui vita esemplifica la conformità alla legge morale universale, elementi ritraenti l’ideale della moralità che la religione razionale cerca di favorire. Il filosofo, pertanto, propone una reinterpretazione razionalizzata del cristianesimo, un cristianesimo purificato che funga da guida morale universale.

La sua concezione è quella di una religione che, pur mantenendo le sue radici storiche e culturali, sia riformata per rispettare i principi della ragion pura e pratica, rendendola, così, vera e universale. Questa prospettiva sfida i credenti a riflettere sulle basi razionali della loro fede e suggerisce che la vera religiosità dovrebbe promuovere, anziché ostacolare, il progresso morale dell’umanità.
Tra le questioni più significative affrontate in quest’opera vi è quella riguardante la natura del male e del peccato. Kant introduce il concetto di “male radicale” nella natura umana, un’inclinazione verso il male che coesiste con la capacità dell’uomo di riconoscere e seguire il bene morale. Questo conflitto interno è generale e non può essere superato soltanto attraverso gli sforzi umani, richiedendo, invero, un cambiamento del cuore o una sorta di rinascita spirituale. Kant rimarca che la religione dovrebbe assecondare la moralità, non sostituirla, opponendosi a interpretazioni religiose che pongono la fede sopra la moralità o che giustificano azioni immorali attraverso la fede.
Altro aspetto importante è il ruolo di Dio nell’etica kantiana. Dio emerge non tanto come una figura da temere o adorare in senso tradizionale, ma come un ideale morale supremo verso il quale l’umanità dovrebbe tendere. Kant sostiene che l’idea di Dio serva quale punto di orientamento morale per facilitare l’aspirazione dell’uomo alla santità, ritenuta conformità alla legge morale.
La religione entro i limiti della semplice ragione è un’opera che sfida sia i credenti che gli scettici, invitandoli a considerare la religione da una prospettiva critica e razionale. Nonostante le sue premesse possano essere considerate radicali, specialmente nel contesto del XVIII secolo, il tentativo di Kant di armonizzare la fede con la ragione rimane una pietra miliare nel pensiero filosofico e religioso. L’opera sollecita una riflessione continua sulle basi della fede e sull’importanza della moralità, rendendola perennemente rilevante nel dialogo contemporaneo tra filosofia e religione.

 

 

 

Recensire la Filosofia
Trenta grandi opere del pensiero filosofico occidentale

 

 

 

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Il volume presenta l’analisi critica e approfondita di trenta significative opere del pensiero filosofico occidentale. Come una guida per appassionati, offre al lettore l’opportunità di esplorare le diverse epoche che hanno plasmato la storia della filosofia, dalle teorie di Platone e Aristotele fino alle complesse idee di Nietzsche e Heidegger. Attraverso il dialogo tra il passato e il presente, l’Autore esamina il valore filosofico intrinseco di ciascuna opera e il suo impatto duraturo sulla cultura e la società, stimolando il lettore a riflettere criticamente e a interpretare nuovamente quegli scritti, arricchendo così la comprensione della filosofia stessa. La raccolta serve da punto di partenza per indagini ulteriori, promuovendo una comprensione più profonda della filosofia come disciplina perpetuamente rilevante.

 

 

 

Il Fedro di Platone

L’anima ricorda e vola

 

 

 

Il Fedro, dialogo sublime di Platone, presumibilmente composto nel 370 a.C., si erge come una maestosa colonna nell’atrio del tempio della filosofia antica, intrecciando, con sapiente ardire, pensiero filosofico, religioso e mitologico. Tra le sue pagine, come in un giardino di allori divini, si passeggia fra discorsi sull’amore, sulla conoscenza e sull’arte retorica.
Platone vi dipana la trama dell’eros, il desiderio d’amore che muove l’anima verso il bello assoluto. Con slancio poetico, il filosofo eleva questo sentimento dal terreno fisico a quello delle Idee pure, dove l’amore si trasfigura in veicolo di ascensione filosofica. Questa visione è intimamente connessa alla teoria platonica delle Idee, secondo cui la conoscenza vera si raggiunge contemplando tali forme pure, accessibili solamente attraverso un processo di reminiscenza intellettuale. Questo processo, tema caro alla dottrina platonica, qui si colora di toni mistici: il ricordo delle verità eterne diventa un rito di passaggio, una rinascita dello spirito che ascende al cielo delle idee immutabili e può essere interpretato anche come un ritorno all’origine divina dell’anima, una sorta di pellegrinaggio spirituale verso la purificazione e l’illuminazione.
Il dialogo insinua l’idea che l’anima umana possa essere migliorata e redenta attraverso il potere dell’eros filosofico, che spinge l’individuo a una comprensione più profonda della realtà e della propria natura spirituale. Questo processo di ascesa è intricatamente legato al concetto di dialettica, un metodo di questionamento e argomentazione che Socrate, personaggio del dialogo, utilizza per guidare il suo interlocutore verso la verità, innalzando l’intelletto di questi dalla conoscenza sensibile a quella intellegibile.
Il Fedro è impregnato anche di riferimenti e simbolismi religiosi, che richiamano le credenze e le pratiche cultuali dell’antica Grecia. La preghiera iniziale a Pan e alle Naiadi serve sì da omaggio formale alle divinità, ma stabilisce altresì un contesto in cui il discorso può essere visto come un’offerta spirituale. Inoltre, il concetto di anima che Platone sviluppa riflette la visione religiosa greca dell’immortalità e della metempsicosi, ovvero la trasmigrazione delle anime.
Il mito della biga alata è forse l’immagine più potente e incisiva del dialogo. Questa allegoria riferisce di un auriga divino che guida due cavalli: uno nobile e l’altro ribelle, simbolo del conflitto interno tra ragione e desiderio, mentre l’auriga rappresenta l’elemento spirituale, il logistikon, che deve controllare i cavalli per mantenere la biga sulla giusta strada verso il cielo delle Idee, l’Iperuranio. La narrazione incanta per la sua vivida carica immaginifica e si spinge oltre, fungendo da metafora del viaggio dell’anima verso la conoscenza e la divinità. Il mito, così, non è semplice racconto ma epifania filosofica, che svela l’incessante lotta dell’essere per raggiungere l’armonia celeste. Tale mito sottolinea anche la tensione tra il destino divino dell’anima e le sue inclinazioni terrene. La biga alata, infatti, simboleggia il viaggio ascensionale dell’anima verso il divino, sforzandosi di superare l’attrazione gravitazionale delle passioni basse per ritornare alla sfera delle forme pure.


Nel Fedro, Platone non esplora solo tematiche filosofiche e mitologiche profonde, ma si immerge anche nella natura e nel valore dell’arte retorica. Attraverso il dialogo tra Socrate e Fedro, il filosofo ateniese critica le pratiche retoriche a lui coeve, spesso vuote e manipolative, proponendo un modello di retorica basato sulla verità e sulla giusta conoscenza. Due concetti fondamentali in questo contesto sono la synopsis e la dihairesis, ovvero la visione d’insieme e l’arte di dividere correttamente i concetti.
La synopsis rappresenta la capacità di vedere l’argomento nella sua interezza, di comprendere il quadro generale prima di procedere con un’analisi dettagliata. Per Platone è essenziale, perché permette all’oratore di non perdere di vista il contesto più ampio in cui si inserisce il discorso. Una vera comprensione degli argomenti richiede una visione olistica che colleghi le parti al tutto, assicurando che ogni pezzo del discorso sia allineato con il principio guida o la verità fondamentale che si vuol comunicare. La synopsis aiuta a evitare manipolazioni e sofismi, promuovendo una retorica persuasiva, eticamente fondata e intellettualmente rigorosa. La diairesis, invece, è il processo di suddivisione accurata di un argomento in categorie e sottocategorie, che permette di trattare ogni parte con precisione e dettaglio. Questa tecnica è cruciale per affrontare qualsiasi tema complesso, poiché organizza il materiale in modo che ogni elemento sia esaminato secondo criteri chiari e razionali. Nel dialogo, Platone usa la diairesis per distinguere tra diverse forme di amore, evidenziando come una vera comprensione dell’eros non possa prescindere dalla capacità di discernere i suoi aspetti nobili da quelli bassi. Analogamente, una retorica efficace deve poter identificare e isolare i diversi aspetti di un argomento per trattarli con la specificità che meritano. La combinazione di synopsis e diairesis forma la base di ciò che Platone considera l’arte della vera retorica: una disciplina che persuade, educa e migliora chi ascolta. Tale approccio eleva la retorica da semplice tecnica di persuasione a strumento di verità e giustizia, facendo dell’oratore non un mero istigatore, ma un maestro, un guidatore di anime. In questo modo, la retorica acquisisce un valore etico ed epistemologico: da arte di parlare bene, ad arte di pensare e agire correttamente.
Il Fedro, velo iridescente di parole e concetti, dove il filosofico, il religioso e il mitico danzano in un balletto celestiale, non è solo un trattato sull’amore o un manuale di retorica, ma un viaggio dell’anima che, tra le spirali dell’ascensione spirituale e i vortici del discorso logico, cerca di raggiungere la verità ultima. Lettura indispensabile per chi anela a comprendere non solo Platone ma la natura stessa del pensiero umano, rimane una stella polare nel firmamento della letteratura filosofica, guidando gli “astronauti del pensiero” attraverso i cieli tumultuosi della vita verso ciò che è al di là del cielo, l’Iperuranio della saggezza eterna.

 

 

 

Le maschere della Commedia dell’arte

 

 

 

La Commedia dell’arte, fenomeno culturale nato in Italia nel XVI secolo, prese il nome dall’accezione medievale del termine arte, ovvero mestiere, perché, per i recitanti, il teatro costituiva un lavoro e non una passione a cui dedicarsi nel tempo libero. Unitisi in cooperative, la compagnie teatrali, attori e, per la prima volta sulle scene, attrici, portavano le loro rappresentazioni sia nei palazzi signorili che nelle piazze e nei mercati. Tra le più celebri compagnie, quelle di Ser Maphio, padovana, dei Gelosi, milanese, dei Confidenti, fiorentina, degli Accesi, dei Fedeli e degli Uniti, mantovane. Tra gli attori, invece, degni di essere ricordati, Francesco Andreini, Alberto Naselli, Pier Maria Cecchini e la moglie Orsola, Francesco Gabrielli, Flaminio Scala, Silvio Fiorillo, Virginia Rotari e Giovanni Pellesini. La vera novità della Commedia dell’Arte era nel fatto che gli artisti non interpretavano testi scritti od opere drammaturgiche vere e proprie, quanto piuttosto recitavano rifacendosi ad un canovaccio, cioè all’insieme, a grandissime linee, degli elementi di una trama. Salivano sul palcoscenico improvvisando, con grande bravura e abilità, le situazioni più varie e divertenti possibili, ma che avevano sempre gli stessi protagonisti, le maschere, personaggi facilmente riconoscibili dall’abbigliamento e da caratteri propri, ogni volta identici. Esse avevano le stesse fattezze di quelle con le quali molti dei bimbi della mia generazione, me compreso, si travestivano a Carnevale: Arlecchino, servo imbroglione e sempre alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti; Balanzone, chiacchierone e presuntuoso; Brighella, servitore furbissimo e macchinatore di truffe e inganni di tutti i tipi; Colombina, giovinetta intelligente e maliziosa; Pulcinella, gobbo, spaccone e bugiardo; Tartaglia, cieco e balbuziente; Pantalone, vecchiaccio che correva sempre dietro alle donne. Queste maschere rappresentavano spettacoli davvero comici, i quali, però, a causa del carattere di improvvisazione, non sono stati quasi mai trascritti, per cui, oggi è alquanto difficile ricostruire con precisione, né tanto meno poter rappresentare, un’opera della Commedia dell’arte. Accanto a questi attori, comunque, ci fu, tuttavia, chi, tra il XVI e XVII secolo, continuò a fare teatro alla vecchia maniera, vale a dire, seguendo i soliti generi, la commedia, la tragedia e i drammi, ma con linguaggi e significati diversi, rispetto alla tradizione precedente: Giovan Battista Guarini, Federico Della Valle e Carlo de’ Dottori.

Pubblicato l’1 marzo 2017 su La Lumaca