Sono molto felice di pubblicare sul mio blog, a partire da oggi, gli scritti di Carmela Puntillo. Carmela si è laureata in Lettere all’Università degli Studi di Padova, ha partecipato a concorsi per diventare bibliotecaria e ha insegnato nelle scuole medie, sostenendo anche il concorso a cattedra per l’insegnamento di materie letterarie (classi A043 e A050). Ha collaborato con centri culturali come insegnante, preparando conferenze per il Centro Scaligero degli Studi Danteschi e della Cultura Internazionale di Verona, per la Cordata di Verona e per la Fondazione Toniolo, sempre della stessa città. È stata iscritta all’AMIS (Antiquae Musicae Italicae Studiosi) per 27 anni ed ha un diploma in musica. È membro da 23 anni al Centro Scaligero degli Studi Danteschi e della Cultura Internazionale di Verona e, da più di 10 anni, dell’Associazione Amici dei Musei e dei Monumenti di Vicenza.
LEZIONE DEL CENTRO SCALIGERO DEGLI STUDI DANTESCHI
CANTO IV DEL PARADISO: SPIEGAZIONE E COMMENTO
08/02/2021
Il canto ha un carattere prevalentemente dottrinale, secondo quanto avevano elaborato la cultura e la teologia del tempo, e si divide in due parti, costituite a loro volta da ulteriori suddivisioni: nella prima parte Beatrice dà spiegazioni a Dante sui due dubbi che gli legge nel pensiero (cioè quello sulla verità della dottrina di Platone, che nel Timeo affermava che la sede delle anime sono le stelle, e quello sul merito delle anime che hanno mancato ai voti per violenza subita); nella seconda parte Dante ringrazia Beatrice per i chiarimenti avuti, glorificando Dio, Verità Assoluta, da cui solo possiamo avere la spiegazione dei nostri dubbi, e formula una nuova domanda a cui Beatrice risponderà nel canto successivo…
Il Tractatus Logico-Philosophicus di Ludwig Wittgenstein, filosofo che ha segnato profondamente il pensiero del XX secolo, fu pubblicato nel 1921. Volume molto denso, intreccia logica, linguaggio e realtà e ha influenzato la filosofia coeva e il successivo sviluppo della linguistica e delle scienze cognitive. Il Tractatus fu scritto durante gli anni della Prima guerra mondiale, quando Wittgenstein si arruolò nell’esercito austriaco, partecipando attivamente al conflitto. Gli eventi bellici condizionarono la sua visione del mondo, spingendolo a cercare una forma di espressione che potesse catturare l’essenza della realtà in modo chiaro e inequivocabile. Il lavoro risentì anche dei suoi studi con Bertrand Russell a Cambridge e delle teorie logiche di Gottlob Frege, pur distanziandosi significativamente dai loro approcci più tradizionali alla filosofia del linguaggio. Il nucleo filosofico del Tractatus è costituito dalla relazione tra linguaggio e mondo. Wittgenstein propone una struttura logica del linguaggio che riflette quella della realtà. Il famoso principio “Il limite del mio linguaggio significa il limite del mio mondo” suggerisce che si possa parlare solo di ciò che si possa pensare; tutto quanto è al di fuori del linguaggio è ineffabile. Il filosofo introduce anche l’idea che la filosofia non debba generare teorie o dottrine, ma piuttosto chiarire i pensieri: il suo scopo è terapeutico e non teoretico. Dal punto di vista logico, il Tractatus indaga i fondamenti della logica e del pensiero. Wittgenstein utilizza la notazione logica per costruire e dimostrare le sue proposizioni, argomentando che quelle del linguaggio abbiano valore solo in quanto rappresentazioni logiche di fatti del mondo. Questo punto di vista ha dato un contributo fondamentale alla filosofia analitica e alla logica matematica, ispirando, in seguito, movimenti quali il Positivismo Logico del Circolo di Vienna, che cercava di ridurre la filosofia all’analisi logica del linguaggio. L’opera presenta una struttura rigorosamente organizzata, che riflette l’ambizione dell’Autore di catturare l’essenza della logica e della realtà attraverso il linguaggio. La sua composizione è tanto logica quanto filosofica, ordinata in una serie di proposizioni numerate che si sviluppano in modo gerarchico e deduttivo. Il Tractatus è diviso in sette proposizioni principali, ciascuna delle quali è espansa da sottoproposizioni numerate in modo decimale. Questa impostazione permette a Wittgenstein di costruire argomenti complessi in modo progressivo e strutturato. 1. Il mondo è tutto ciò che accade Questa proposizione contempla il concetto di mondo come totalità dei fatti, non delle cose, inteso dal filosofo quale insieme di tutti gli eventi o situazioni fattuali, non una collezione di oggetti. 2. Ciò che accade, i fatti, è il sussistere degli stati di cose Qui Wittgenstein introduce l’idea degli “stati di cose” (Sachverhalt), combinazioni specifiche di oggetti (Sachen) che possono sussistere o meno. Un fatto è, quindi, una configurazione di oggetti connessi in un modo particolare che esiste nel mondo. 3. Il pensiero logico è l’immagine riflessiva del mondo Il pensiero è rilevato quale rappresentazione (Bild) del mondo. Tali rappresentazioni hanno una configurazione logica che corrisponde a quella dei fatti che rappresentano. Il pensiero può essere vero o falso, a seconda che abbia o meno un corrispettivo nella realtà.
4. Il pensiero deve occuparsi di ciò che è pensabile e ciò deve essere possibile Il pensiero deve essere realizzabile nella realtà. La proposizione estende il concetto di logica del pensiero, sostenendo che il pensiero valido deve avere una possibile applicazione pratica o esistenziale. 5. La proposizione è una funzione di verità degli elementi Le proposizioni sono espressioni del nostro linguaggio che possono essere vere o false. Wittgenstein postula il concetto di “funzione di verità”, suggerendo che il valore di verità di una proposizione dipenda dalle condizioni di verità degli elementi (proposizioni elementari) che la compongono. 6. La forma generale della funzione di verità è: [p, ξ, N(ξ)] Questa proposizione complessa dettaglia l’idea che ogni proposizione possa essere vista come una funzione di verità e che esista una forma generale per queste funzioni. Il simbolismo utilizzato è tecnico, indicando una funzione che coinvolge proposizioni (p), variabili (ξ) e negazioni (N). Questa è una delle parti più tecniche del trattato, collegando direttamente la logica alla filosofia del linguaggio. 7. Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere La celebre conclusione del Tractatus traccia un confine epistemologico ed etico. Wittgenstein delimita il territorio della filosofia a ciò che può essere chiaramente espresso attraverso il linguaggio logico. Tutto ciò che ne è al di fuori – valori etici, estetici, metafisici – dev’essere lasciato al silenzio, non perché sia meno importante, ma perché trascende i limiti del linguaggio. Ogni proposizione principale ha sotto di sé una serie di proposizioni secondarie, che approfondiscono e chiariscono i contenuti delle prime. Questa struttura numerica non è solo un metodo di disposizione, ma anche un mezzo per mostrare come ciascun pensiero sia logicamente collegato al precedente e prepari il terreno al il successivo. Wittgenstein utilizza questa sistemazione proprio per esplorare e definire i limiti del linguaggio e del pensiero. Ogni proposizione, infatti, mira a delimitare cosa possa essere detto chiaramente – ciò che può essere espresso logicamente – e ciò che, invece, sfugge alla capacità descrittiva del linguaggio, come l’etica e l’estetica, che secondo il filosofo si collocano al di là dei confini del linguaggio. Il Tractatus Logico-Philosophicus rimane un volume profondo anche se a tratti enigmatico. Sebbene Wittgenstein stesso, n alcune sue opere successive, principalmente in Ricerche Filosofiche, ne abbia criticato talune conclusioni, continua a essere un testo imprescindibile per chiunque sia interessato alla filosofia del linguaggio, alla logica e alla relazione tra linguaggio e realtà. Attraverso la sua concisa e talvolta criptica scrittura, Wittgenstein sfida a riflettere sulle limitazioni del linguaggio e sull’essenza della comunicazione umana.
La Cybersecurity nel ‘Metaverso’ di Giuseppe Ferrigno, edito da Eurilink University Press, 2024, presenta un’analisi approfondita e strutturata delle sfide e delle prospettive legate alla sicurezza informatica nei mondi virtuali, un argomento di crescente rilevanza nell’era digitale. Il testo si articola in dodici capitoli, che esaminano vari aspetti della cybersecurity nel contesto virtuale, iniziando con una panoramica storica e tecnologica, passando per la disamina delle attuali piattaforme e approfondendo le applicazioni e le problematiche specifiche legate alla sicurezza dei dati, dell’identità dell’avatar, dell’economia virtuale e della psicologia cibernetica. Il capitolo I introduce il lettore ai mondi virtuali, tracciandone la storia e l’evoluzione tecnologica, mentre il II elenca e descrive le principali piattaforme di realtà virtuale in uso oggi, come Second Life, Roblox e Fortnite, evidenziando la loro popolarità e il numero di utenti attivi. Questo capitolo fornisce una base essenziale per comprendere il contesto in cui la cybersecurity diventa rilevante. Nel capitolo III, l’Autore esplora le diverse applicazioni dei mondi virtuali, che spaziano dai luoghi di lavoro virtuali all’istruzione, dai giochi alla socializzazione, fino alla moda e al turismo virtuale. Questo capitolo illustra l’ampio raggio di interazioni e transazioni che possono necessitare di protezione da rischi informatici. Il cuore del testo si trova nei capitoli dal IV all’VIII, dove si analizzano i quattro layer della cybersecurity nel metaverso: la rete Internet, l’identità dell’avatar, l’economia e la cyberpsychology. Questi capitoli espongono un’analisi dettagliata delle minacce specifiche e delle strategie di mitigazione, ponendo l’accento sulla complessità e l’interdipendenza dei vari aspetti della sicurezza nei mondi virtuali. Il capitolo IX si concentra sulla blockchain e il suo impiego per la gestione della proprietà intellettuale e delle transazioni nel metaverso, argomento che unisce considerazioni tecniche e legali. Gli ultimi capitoli trattano le prospettive future, i problemi normativi aperti e il ruolo crescente dell’Intelligenza Artificiale nei mondi virtuali.
Il volume costituisce un’opera essenziale e tempestiva. Attraverso una disamina dettagliata e meticolosamente organizzata, il testo fornisce un panorama esaustivo delle minacce, delle soluzioni tecniche e delle implicazioni legali legate alla crescente prevalenza dei metaversi nella vita quotidiana. Una delle principali forze di questo libro è la sua capacità di integrare una varietà di temi – dalla tecnologia blockchain all’identità digitale e alla psicologia cybernetica – in un unico tessuto narrativo coeso. L’Autore riesce a guidare i lettori attraverso la storia e l’evoluzione tecnologica dei mondi virtuali, fornendo un contesto critico che aiuta a comprendere la natura e la scala delle sfide di sicurezza attuali. Questo approccio storico non solo arricchisce la comprensione del lettore ma stabilisce anche una solida base per le discussioni sui moderni aspetti della cybersecurity nel metaverso. Il volume brilla particolarmente quando tratta le specifiche applicazioni dei mondi virtuali. Dall’istruzione al lavoro, passando per il turismo e il sociale, l’Autore indaga come ogni ambito presenti sfide uniche in termini di sicurezza e privacy. Questa analisi multisfacettata non solo aumenta la consapevolezza delle potenziali vulnerabilità ma stimola anche la riflessione su come mitigarle in modo efficace. Un altro punto di forza significativo del libro è l’esame dettagliato dei “quattro layer” della cybersecurity nel metaverso. Questa strutturazione permette di sondare in profondità le diverse dimensioni della sicurezza, dal livello di rete fino agli aspetti più personali e psicologici. Il trattamento olistico di queste tematiche informa e invita anche a un approccio più integrato e sistematico alla sicurezza nei mondi virtuali. Il volume, inoltre, offre una riflessione critica sull’uso della blockchain e delle tecnologie associate quali strumenti per la gestione della proprietà intellettuale e delle transazioni sicure nel metaverso. L’Autore presenta una discussione equilibrata sui benefici e sui rischi di queste tecnologie, fornendo una valutazione ponderata che è rara nella letteratura attuale su questi argomenti. La Cybersecurity nel ‘Metaverso’ è, dunque, un’opera preziosa, che propone un contributo significativo al campo della sicurezza informatica, consegnando un’analisi approfondita e comprensiva che è sia educativa che provocatoria. È una risorsa indispensabile per professionisti della sicurezza, sviluppatori di software, legislatori e quanti siano interessati al futuro della nostra interazione con i mondi virtuali.
Giacomo Leopardi e Lucio Dalla. Un poeta-filosofo e un cantautore. Cosa possono avere mai in comune? Lo scoprirete presto! Voglio, però, condurvici pian piano, cominciando da un elemento naturale, visibile, di notte, da qualche parte nel cielo: la luna. La luna ha eccitato la fantasia dei poeti sin dalla notte dei tempi. Gli antichi greci la deificarono, arrivando a conferirle una triplice personificazione: Proserpina, moglie di Ade e regina degli Inferi (simbolo della luna calante); Artemide, dea della caccia (simbolo della luna crescente), e Selene, la luna propriamente detta (la luna piena). Anche Dante Alighieri cedette al fascino di questa triplice personificazione e, nel canto X dell’Inferno, ai versi 79-81, mise in bocca a Farinata degli Uberti, fiero capo ghibellino, una profezia post eventum, scritta, cioè, quando gli eventi predetti erano già accaduti: “Ma non cinquanta volte fia raccesa/ la faccia de la donna che qui regge/ che tu saprai quanto quell’arte pesa”. Dante si riferiva proprio alla luna (Proserpina, la donna che qui regge, in una commistione tra mitologia classica, dottrina cristiana e astronomia medievale), e le cinquanta volte in cui si sarebbe “riaccesa” rappresentavano i cinquanta mesi mancanti alla sua condanna all’esilio. Più vicino a noi, come non citare i tenerissimi versi di uno dei miei migliori conterranei: il principe De Curtis, Totò, il quale, nella poesia “A cunsegna”, esplora il topos poetico della luna quale benevola protettrice degli innamorati: “’A sera quanno ‘o sole se nne trase/ e dà ‘a cunzegna a luna p’ ‘a nuttata/ lle dice dinto ‘a recchia: I’ vaco ‘a casa:/ t’arraccumanno tutt’ ‘e nnammurate”. La luna, quindi, è il trait d’union tra i due protagonisti di questo mio breve scritto.
Nonostante tutto ciò, mi si potrebbe obiettare: “Cosa c’entra uno dei più grandi, se non il più grande poeta italiano con Lucio Dalla, un cantante, seppure famoso? Cosa possono avere in comune un uomo che, a 10 anni, aveva una cultura vasta quanto quella di un paio di centenari messi insieme con un personaggio che ha giusto terminato le scuole medie? Cosa c’entra, dunque, Giacomo Leopardi con Lucio Dalla? Posso assicurarvi che hanno molti punti in comune e cercherò, qui, di esporveli nel modo più breve ma più esauriente possibile. Il materialismo del pensiero marxista, dal punto di vista filosofico-letterario (ciò, in Italia, è avvenuto soprattutto grazie all’opera di Antonio Gramsci), ha avuto il merito di permettere ai critici di concentrarsi su problematiche, relative agli autori, non soltanto di poetica ma anche, e soprattutto, di vita reale, materiale. Ecco perché, allora, gli elementi biografici di un autore assumono una importanza fondamentale nel tentativo di ricostruire e motivare l’arte dello stesso. Detto questo, andiamo ad analizzare cosa successe nelle vite di questi due personaggi, Leopardi e Dalla, in quella fase delle loro vite dove, per usare una felice espressione, andò in scena, per entrambi, il “preludio del genio”. Giacomo Leopardi, il conte Giacomo Taldegardo Leopardi (immagine a destra), nacque a Recanati, il 28 giugno 1798. Era figlio di genitori molto particolari. Il padre Monaldo, nobile, intellettuale, era il responsabile del dissesto economico familiare. Un uomo che viveva con la testa tra le nuvole, o, meglio, tra i libri, e incapace ad amministrare i beni di famiglia, terreni, fattorie, campi. Fu scrittore anch’egli, eclissato, ovviamente, dalla fama del figlio. Fu lui ad istillare nel piccolo Giacomo l’amore per le lettere. Aveva una biblioteca prodigiosa, visitabile, ancora oggi, a Recanati. Era un brav’uomo, a modo suo affettuoso con i dieci figli, ma, ripeto, totalmente incapace nella gestione degli affari di famiglia. La madre, Adelaide dei marchesi Antici, fu l’amministratrice economica della casa, riuscendo anche ad assestare il patrimonio, a prezzo di grandi sacrifici. Una donna dura, che non mostrava affetto, arida, molto religiosa, ai limiti della superstizione. Una figura, quindi, tutt’altro che materna. Il rapporto di Leopardi con la madre è, ancora oggi, oggetto di studio. Vi è un solo luogo nella sua opera, nelle Operette morali, in cui il poeta identifica la cattiva Natura con la madre, ma è comunque troppo poco per ritenere che sia l’interpretazione preponderante del suo rapporto con donna Adelaide. Lucio Dalla nacque a Bologna, il 4 marzo 1943. Il padre, Giuseppe, era un commesso viaggiatore, poco impegnato nel suo lavoro, quanto piuttosto nelle sue passioni, la caccia e la pesca. Un bell’uomo, alto e prestante. Morì di tumore quando Lucio aveva solo 6 anni. Il dolore di quella perdita avrebbe accompagnato il cantante per tutta la vita, influenzandone anche la poetica. La madre, Iole, era una sarta, una donna energica e risoluta, che dovette farsi carico dell’educazione del figlio e della sua crescita, in una Italia che usciva devastata dalla guerra. Una figura fondamentale nella vita di Lucio. La balena bianca, come è stata spesso chiamata. Giacomo Leopardi trascorse l’infanzia e la prima giovinezza nel palazzo di famiglia a Recanati, più propriamente, nella biblioteca del palazzo, in lunghissime ore di studio. A quindici anni già conosceva il latino, il greco, l’ebraico, l’inglese e il francese. Componeva trattati di astronomia e di chimica. Era già un vero e proprio erudito. Aveva mostrato, quindi, a quell’età, le caratteristiche del genio letterario che lo avrebbero consacrato alla fama immortale. Lucio Dalla (immagine a sinistra) ebbe, in sua madre, il vero incentivo della sua carriera d’artista. La donna lo faceva esibire prima delle sfilate di moda che teneva d’estate, a Manfredonia, dove si recava per vendere i capi delle sue collezioni. A dieci anni, Lucio era un animale da palcoscenico. Ci sono delle bellissime fotografie nel libro di Angelo Riccardi, “Ti racconto Lucio Dalla” (2014), che lo ritraggono con gli abiti di scena. Fa tenerezza. Era davvero un bel bimbo, disinvolto, sicuro di sé. Gli insuccessi scolastici, l’abbandono della scuola al quinto ginnasio e l’amore per la musica, per quel clarinetto, che gli era stato regalato da un amico di famiglia, il forsennato studio dello strumento, da autodidatta, e l’arrivo a Roma, lo proiettarono nel mondo della musica, grazie anche alla protezione di Gino Paoli. Questi, infatti, gli aveva consigliato di affrancarsi da I Flippers e di intraprendere la carriera solista. Appare chiaro, quindi, come entrambi, sin dall’infanzia, manifestassero quelle qualità che, poi, avrebbero sublimato nelle proprie creazioni artistiche. Vi ho già detto della luna. La poetica di Leopardi e di Dalla è una poetica naturalistica, in cui con gli elementi della natura è costante. Sono riuscito a contare almeno cinquanta occasioni in cui, nelle canzoni di Dalla, compaia la luna. Di meno nelle poesie e prose di Leopardi. Questo dialogo dei due, però, si compie in modi differenti. Dalla vi dialoga come un innamorato che si rivolge al garante del suo amore per la natura. Nella poetica dalliana la luce della luna illumina l’esistenza notturna degli uomini, nella notte della vita, quando le cose non appaiono ben chiare e definite nei loro contorni. La luna di Dalla ha anche una funzione salvifica e apotropaica. Pensate ai versi di Caruso: “Ma quando vide la luna uscire da una nuvola/ gli sembrò più dolce anche la morte”. In Leopardi, invece, le invocazioni alla luna sono disperate richieste di aiuto contro una Natura che il poeta giudica essenzialmente maligna e dannosa per gli uomini. Sono grida infelici di una grande mente che si sforza di ricercare qualche positività in un sistema di elementi che lui giudica pernicioso per l’uomo. Questa concezione viene fuori, principalmente, nel Canto notturno di un pastore errante per l’Asia e in Alla luna, opere al cui dialogo con l’astro l’autore affida lo svelamento delle proprie concezioni filosofiche sulla natura, sulla vita e sulla condizione degli uomini. Un altro elemento che accomuna i due autori, è un concetto di derivazione classica: il binomio Eros-Thanatos, Amore e Morte. Esso sottintende al capolavoro di Dalla, Caruso, perché ha attraversato anche la sua vita. Lucio si è portato dietro, per sempre, il ricordo della tragica fine del padre e, altre volte nella vita, ha perso persone a lui care. Questi sentimenti sono presenti nella sua canzone più celebre. Il grande tenore Enrico Caruso, nell’ora della morte, è innamorato della fanciulla sorrentina, alla quale sta dando lezioni di canto. L’amore, Eros, nell’ora della Morte, Thanatos, la rende più dolce, in un binomio indissolubile. “Amore e morte”, invece, è il titolo di un canto di Leopardi, scritto all’epoca dello sfortunato amore per Fanny Targioni Tozzetti, per cui, certamente risente della delusione per la mancata corrispondenza amorosa. Anche per Leopardi, Amore e Morte rappresentano un binomio indissolubile: “Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte/ ingenerò la sorte”, recita il citato canto. Nella concezione leopardiana, tipicamente estremista, la morte non è soltanto un male a cui bisogna rassegnarsi, ma, vista in contrapposizione con il dolore, la malattia e le pene dell’esistenza, assume connotazioni positive, come una sorta di miglioramento rispetto allo stato abituale dell’uomo, una liberazione dai laceranti dolori dell’animo. La morte è un punto di arrivo, una soluzione finale, una meta verso cui tendere, un traguardo indolore e quieto, che rappresenta la fine di ogni tormento. Un ultimo, importante legame, che accomuna questi due personaggi straordinari: l’amore per Napoli. Quello di Lucio Dalla per Napoli, per Sorrento e per il Sud Italia, come è ormai noto, grazie anche alle recenti pubblicazioni di Raffaele Lauro (“Caruso The Song – Lucio Dalla e Sorrento”, 2015, “Lucio Dalla e San Martino Valle Caudina – Negli occhi e nel cuore”, 2016, e “Lucio Dalla e Sorrento Tour – Le tappe, le immagini e le testimonianze”, 2016), è stato un amore fatto di rapporti sinceri con le persone, di lunghe frequentazioni, di curiosità per gli aspetti della vita delle genti del Sud. Lucio era interessato alla vita del Sud. Aveva dei taccuini neri sui quali annotava sempre tutto. Era un curioso come il don Ferrante de I promessi sposi. Anche Leopardi amò Napoli, seppure di un amore bisbetico e insofferente, per un ambiente, soprattutto intellettuale, che considerava alquanto arruffato. Leopardi morì a Napoli, a 39 anni, più precisamente, a Villa delle Ginestre, a Torre del Greco, ospite del fidato amico Antonio Ranieri. A Napoli è, ancora oggi, la sua tomba. In quella villa aveva composto il suo testamento spirituale, quella La ginestra, che nel 2014, è stata protagonista della scena di chiusura del film di Mario Martone, Il giovane favoloso, dedicato proprio alla breve esistenza del poeta di Recanati. L’attore Elio Germano, che interpreta Leopardi, ne recita alcuni versi, mentre il Vesuvio, lo “sterminator Vesevo”, erutta. Pochi giorni prima di morire, a Torre, Leopardi aveva composto Il tramonto della Luna. Ancora una volta, la luna.
These my brand-new reflections on geopolitics present it as a philosophical field, emphasizing the influence of geography on political strategies and the impact of geopolitical actions on collective identities and human conditions. It integrates classical philosophical thoughts on power and State acts, aiming to deepen the understanding of nations’ strategic behaviours and ethical considerations. This reflective approach seeks to enhance insights into global interactions and the shaping of geopolitical landscapes.
A Philosophy of Geopolitics
Part II
The neglect of substantial plurality precedes a deontological approach to historical action that denies any normative significance to any semantics of interest. The choice of “semantics” is deliberate: what we commonly encounter is a widespread aversion to a normative sense that is embodied in a subjectivity, or in a design, preceding the specific meaning conveyed by any particular historical interest. Every productive impulse, and thus every theoretical justification for it, which finds its essential basis in a specific historical reality, is systematically stripped of any normative prerogative, hence any ethical character, the right to be included in a properly ethical discourse. Looking back, what might appear as an externality in a discourse of self-understanding of the historical subject is in fact a natural corollary: how to establish an ethical claim on a postulated reality? If the very existence of a particular historical reality is accidental, incidental, and almost necessarily an obstacle to any anthropological optimism, how can its value be recognized in a sense that is inherently intersubjective and often universally so? Moreover, while it might be strong to claim, thinking of Aristotle, that every ethics is an “ontoteleology”, the thought of ethics cannot be divorced from the thought of its field of application, particularly the subject that realizes it within that field. What, then, is the ethics, or rather, the field of ethics, that the thought of our epoch suggests to us? Perhaps by filling the argument with the typically Western content of entrenched rationalism, we are directed towards an ethically normative sense of truth. Truth must command: in this preliminary and purely abstract sense, the postmodernists have offered a truly effective critical reading. Ultimately, despite some voluntarist deviations, the West and Western thought have based their philosophy of praxis on analysis, on the (presumed?) ethical power of fact, of truth. The ups and downs of ethical intellectualism? Perhaps it is more accurate to speak of its depowered version, lacking the psychological assumptions universally imposed by the Socratic precedent. In any case, we are inclined to conceive of political action as directly emanating from the “right principles” (here too, we refer to Sieyes) and their more or less precise possession. “Auctoritas, non veritas, facit legem” is typically suspended as the cynical muttering of the darkest of philosophers, or occasionally applied as an interpretative lens to the status quo of countries that do not enjoy our certification of civilization. We prefer the faith-based, justificatory reference to a meta-historical, and thus meta-empirical, reality that would inevitably crown a political praxis consistent with it, thereby reversing the order of causes, which requires a deontological code as the luxury afforded by fulfilling one’s key strategic duties. If political action results from the accessibility or, conversely, the obfuscation of political principles, it nonetheless means that there is a gradation among political realities that populate history. We indeed have a thematization of subjectivity, but only from these premises, which provide just enough space for a transient subjectivity, oriented towards its own obsolescence. Thus, the nation-State, protagonist of the modern saga despite hasty announcements of its demise. The State remains, however, only a significant example of a broader cultural text that develops around the theme of subjectivity. Kant’s famous response to the question of what Enlightenment is—man’s emergence from his self-imposed immaturity—illustrates a historical sense of subtraction, of clarification, of a fundamentally deconstructive and fundamentally cognitive work. Years later, a thinker aligned with quite different positions, Joseph De Maistre, will lament the historically deconstructive, diabolical significance of those philosophes, whom he never distinctly separates from the political protagonists of the French Revolution. Rightly so. The first revolution to be exported was not the Bolshevik one, but the French revolution; the ideological meaning of this export is to restore man to himself, against the powers of the old order that hold him hostage. Modernity delivers us a formally transient subjectivity, as a vector that ferries man outside of history. The specific content of this form is a pedagogical, educational content. It is futile to enumerate the ideal of civilization that guided the Age of Empires. However, with the reductio ad Americam of the West, this imaginary has been replaced by that, quite sensible, of the global policeman. A minimal discontinuity, certainly, but perhaps still imprecise. The fundamental ideological cipher remains not so much to punish but to educate, often combined in the illusion that imposing a minimal moralia will steer the course of things towards the inevitable arrival of the other at oneself. A “Foucauldian” policeman, who imposes discipline only because he is interested in the educational and productive sense it embodies. A policeman who can produce a discipline that stands on its own, well aware of the right principles that sustain it. A policeman who, therefore, has a historical task that on paper remains transient, occasional.
Geopolitics embodies a profoundly different epistemology. Truth finds its place only in the mapping of reality, but it plays no leading role. Or rather, it plays no unifying, distinguishing role. It does not animate history. In the analytical practice, truth is dethroned, sidelined; mapping reality means identifying the conflicting interests that traverse it, maintaining a decisive agnosticism about the real possibilities of sacrificing them in the name of a rational, communicative type of pacification. For such an approach, everything is equally legitimate: emotion, symbolism, irrationality. Everything that exists in reality, concerning which, we repeat, the observer’s task is merely one of simple mapping. The meta-empirical approach is disavowed, belittled. The only truth is the effective truth. The conditions for such a pure fidelity to historical matter lie in the recognition of the substantial nature of the subjectivities that comprise it. This fits within a broader approach that loses all meta-historical trust, all eschatological deformation. Beyond history, nothing. The historical fact derives its legitimacy from itself, and relations with history are finally pacified. The only law is the ability to impose oneself, hence the accusations of cynicism directed at geopolitics. This too is an epistemological approach: it is not an exact science to be contrasted with the pseudoscience of modern political philosophy and its sole surviving offshoot, the liberal variant. Geopolitics presents at a unique moment the alternative to the dual problematic of subjectivity developed earlier. By recognizing an absolute value in the subjectivities that populate history, by disavowing any possibility of misinterpreting them as “mis-leadings” or of arranging them according to a hierarchy of legitimacy, it recognizes their plurality. Plurality and substantiality, therefore. The possibility of imagining a monistic meta-history vanishes, on the one hand because monism is a myth, and on the other because the demystification of this myth precisely passes through the idea of the perennial, plural, and conflictual fabric of history. That, in turn, presupposes the rejection of any “outside” of history: it is for this reason that geopolitics embodies the long-awaited overcoming of the post-historical posture that, rightly, all culturally sensible realities diagnose in Europe in general, and Italy in particular. We repeat: the dualism between the current thought and geopolitics is not that between a pseudoscience and a science. Geopolitics is not the philosopher’s stone or a rigorous science: like all historical disciplines, it is rough and imprecise. Beyond its predictive outcomes, it is not premature to suggest the cultural import of the advancing epistemology it represents. Namely, not because, as a science, it will make its way by dint of scientific successes, but because, if it is true that the succession of worldviews is the result of the succession of historical periods, geopolitics may represent a vision more suited to the historical phase we are preparing to face. In the hope of confronting it with adequate concepts, for not knowing how to think reality is equivalent to not knowing how to inhabit it.
La città di Dio di Agostino, vescovo di Ippona, è un testo fondamentale nella storia del pensiero cristiano occidentale, una difesa del cristianesimo contro le accuse di aver causato il declino di Roma e una profonda riflessione sul destino dell’uomo e sulla storia universale. Agostino iniziò a scrivere La città di Dio nel 413 d.C., tre anni dopo il sacco di Roma da parte dei Visigoti guidati da Alarico. Questo evento fu traumatico per l’Impero Romano e molti pagani attribuirono la catastrofe al rifiuto degli dèi tradizionali in favore del cristianesimo. In risposta, il filosofo elaborò l’idea secondo cui la storia umana fosse un campo di battaglia tra due “città”: la Città di Dio e la città terrena (o città del diavolo), che si contendono le anime degli uomini. Agostino propone un modello della storia profondamente radicato nella teologia cristiana, che si discosta dalle interpretazioni classiche e pagane del suo tempo. Ritiene, infatti, che la storia non sia un ciclo di ascese e cadute senza significato o un semplice sfondo per le gesta umane, ma un palcoscenico su cui si svolge un dramma divino. Questa visione lineare e teleologica è guidata dalla volontà del Signore e orientata verso una conclusione definita: la realizzazione del regno di Dio. Secondo Agostino, ogni evento storico, comprese le calamità e le tragedie, dev’essere visto come parte del disegno provvidenziale divino. Tale approccio rassicura i credenti, suggerendo che, nonostante le apparenze, tutto contribuisce al bene ultimo dell’umanità sotto la sovranità di Dio. Ciò infonde un senso di speranza e scopo, in quanto la storia non è caotica o arbitraria, ma ha una direzione e un significato imposti da Dio. L’opera di Agostino è celebre soprattutto per la sua distinzione tra due città metaforiche: la Città di Dio e la città terrena. Queste non sono località geografiche, ma rappresentazioni di due modi di esistenza, due ordini d’amore e due destini eterni. La Città di Dio è caratterizzata dall’amore di Dio fino al disprezzo di sé. Gli abitanti di questa città amano Dio sopra ogni cosa e il loro amore è disinteressato e puro. Seguono le leggi divine e cercano la pace eterna, che viene solo da Dio. La Città di Dio non è limitata al cielo o alla vita dopo la morte; inizia nel cuore dei credenti qui sulla terra e si estende all’eternità. È una comunità fondata sulla fede, la speranza e la carità. La città terrena, invece, è dominata dall’amore di sé fino al disprezzo di Dio. Gli abitanti di questa città pongono se stessi e i loro desideri al di sopra di tutto, cercando potere, ricchezza e successo mondani. Questa città simboleggia la corruzione, l’avidità e l’orgoglio umano e sarà inevitabilmente destinata alla distruzione. Agostino chiarisce che le due città si intrecciano nella storia umana; i loro abitanti vivono fianco a fianco, spesso indistinguibili l’uno dall’altro, ma i loro destini sono opposti. La distinzione tra le due città permette ad Agostino di interpretare la storia umana come una lotta morale e spirituale, piuttosto che solo politica o militare. Ogni individuo, ogni comunità e ogni evento possono essere valutati in base a questa dualità, offrendo una chiave interpretativa che va oltre il visibile e il temporaneo.
L’opera è divisa in due parti, distinte ma interconnesse. Nei primi dieci libri, il teologo critica la religione pagana e la storia romana, demolendo l’idea che la grandezza di Roma fosse legata al favore degli dèi pagani. Qui Agostino utilizza la sua vasta erudizione e argomentazioni filosofiche per dimostrare la superiorità morale e teologica del cristianesimo. I libri 1-5 costituiscono una risposta alle accuse che i pagani rivolgevano ai cristiani, attribuendo loro la colpa delle sfortune di Roma, inclusi il sacco del 410 e altri disastri. Agostino ripercorre la storia di Roma, evidenziando come catastrofi simili si fossero verificate anche in epoche di devozione agli dèi pagani. Inoltre, riflette sulla natura della vera giustizia e sulla caducità dei beni terreni. Nei libri 6-10 continua la sua critica della religione romana, discutendo la natura degli dèi gentili e la loro inadeguatezza a fornire una guida morale o a garantire il benessere della comunità. Confronta poi le virtù praticate dai cristiani con quelle dei romani, sostenendo che le cristiane siano superiori perché radicate nell’amore per Dio piuttosto che nella ricerca della gloria terrena. Nei successivi dodici libri espone la sua visione teologica della storia quale dramma cosmico tra bene e male, introducendo concetti che saranno poi fondamentali per la teologia cristiana, come la predestinazione e la grazia divina. I libri 11-14 trattano delle origini delle due città, la città di Dio e la città terrena. Agostino esamina la storia biblica, da Adamo fino al diluvio e all’Alleanza di Dio con Abramo, interpretando questi eventi come manifestazioni del conflitto tra l’amore per Dio (che definisce la Città di Dio) e l’amore per sé (che definisce la città terrena). Nei libri 15-18 l’analisi si sposta sulla storia di Israele e sulle sue figure chiave, come Davide e i profeti, che Agostino intende quali prefigurazioni di Cristo e della Chiesa. Questa parte illustra come la Città di Dio si sia sviluppata e mantenuta attraverso la storia ebraica, nonostante la corruzione e le cadute periodiche. Nei libri 19-20 vaglia il fine ultimo delle due città. Il libro 19 è famoso per la sua trattazione della natura della pace, che definisce come “la pace dei cieli”, superiore e diversa da qualsiasi pace terrena. Il libro 20 tratta della resurrezione dei morti e del Giudizio Finale, momenti in cui le sorti delle due città saranno eternamente decise. Infine, gli ultimi due libri, 21 e 22, mostrano le pene eterne che attendono gli abitanti della città terrena e le beatitudini eternamente godute dagli abitanti della Città di Dio, descrizioni adottate per esortare i lettori a cercare la città celeste e a vivere una vita in conformità con i valori cristiani. L’influenza di La città di Dio si estende ben oltre il contesto religioso, ispirando anche la filosofia politica e la teoria del diritto. L’opera ha contribuito alla formazione della concezione medievale del regno di Dio sulla terra e ha edificato una base per la teologia della storia, che vede gli eventi umani sotto la guida della provvidenza divina. La città di Dio non è solo un’apologia del cristianesimo in un’epoca di crisi ma anche un profondo esame del significato della storia e del destino umano. La dualità tra la città celeste e quella terrena costituisce una potente metafora della lotta eterna tra bene e male, riflettendo le ansie e le speranze di un’epoca in trasformazione. Attraverso questo testo, Agostino difende la sua fede ma traccia anche una mappa per la comprensione cristiana del mondo che resisterà per secoli.
Julius Evola (1898-1974) è stato uno dei filosofi italiani più controversi del XX secolo, noto per le sue posizioni radicali e la sua visione del mondo che abbraccia il tradizionalismo e il misticismo. Pensatore poliedrico, le sue opere spaziano dalla filosofia alla metafisica, dalla critica culturale alla storia delle religioni. La sua eredità intellettuale continua a suscitare dibattiti sia in ambito accademico che politico. Giulio Cesare Andrea Evola, conosciuto come Julius, nacque a Roma, il 19 maggio 1898. Dopo aver frequentato il liceo classico, si iscrisse alla facoltà di Ingegneria, che abbandonò per dedicarsi alla pittura e alla letteratura. Durante la sua giovinezza, fu influenzato dai movimenti avanguardistici e dal dadaismo, prima di rivolgersi definitivamente alla filosofia e alla spiritualità. Il pensiero di Evola è caratterizzato da una forte critica della modernità e da un ritorno ai valori tradizionali e aristocratici. Si opponeva al materialismo, al razionalismo e al progressismo, che considerava responsabili della decadenza dell’Occidente. La sua filosofia si fonda su principi chiave, quali la tradizione, vista come antidoto alla disgregazione moderna e considerata un insieme di principi eterni e universali, trasmessi attraverso le civiltà antiche e le grandi religioni; il superamento dell’Io, influenzato dalle filosofie orientali e dall’esoterismo, sosteneva la necessità di superare l’ego individuale per raggiungere una dimensione spirituale superiore; gerarchia e ordine, una società ideale deve essere gerarchica e ordinata, guidata da un’élite spirituale e aristocratica, vedendo nell’epoca medievale un esempio di tale struttura contrapposta al livellamento democratico moderno; simbolismo e misticismo, cui attribuiva grande importanza come vie per comprendere la realtà trascendente.
Tra le sue opere principali, Rivolta contro il mondo moderno (1934), in cui delinea una critica radicale della civiltà moderna e propone un ritorno ai valori tradizionali; Metafisica del sesso (1958), dove esplora la dimensione spirituale della sessualità vista come un mezzo per raggiungere stati superiori di coscienza; Il cammino del cinabro (1963), un’autobiografia intellettuale in cui riflette sulla sua vita e sulle sue opere, offrendo una visione d’insieme del suo percorso filosofico; Cavalcare la tigre (1961), un manuale di sopravvivenza spirituale per l’individuo moderno, in cui consiglia come affrontare la crisi dei tempi a lui presenti senza compromessi con il decadimento. L’influenza di Evola si estende ben oltre il suo tempo, avendo avuto un impatto significativo su vari movimenti tradizionalisti, spirituali e politici. Tuttavia, la sua vicinanza a ideologie estremiste e il suo coinvolgimento con il fascismo hanno sollevato numerose controversie e critiche. Rimane comunque una figura polarizzante, il cui pensiero continua a essere studiato e reinterpretato. La sua critica alla modernità e il richiamo a valori trascendenti trovano ancora risonanza in certi ambienti intellettuali e spirituali, dimostrando la perenne attualità delle sue riflessioni.
Monadologia, scritta nel 1714 e pubblicata postuma nel 1720, è certamente l’opera filosofica più influente di Gottfried Wilhelm Leibniz, filosofo, matematico e scienziato tedesco. Si colloca nel contesto del razionalismo del XVII secolo, un periodo in cui la filosofia e la scienza tentavano di spiegare l’universo anche attraverso il principio di ragion sufficiente e l’uso della logica e della matematica. Monadologia presenta una metafisica molto originale, con l’introduzione del concetto di monade, entità semplice e indivisibile, che costituisce tutto l’esistente. Ogni monade è una sostanza semplice, senza parti, che esiste indipendentemente da altre monadi. Nonostante, quindi, l’indipendenza e isolamento metafisico, ciascuna monade riflette l’intero universo, in un modo unico alla propria prospettiva particolare. Ciò implica che le monadi non possano influenzarsi fisicamente l’una con l’altra, poiché sono sincronizzate in una maniera non causale, attraverso l’armonia prestabilita da Dio. Leibniz distingue diversi tipi di monadi, classificandole in base alle loro capacità percettive e cognitive. Questa differenziazione è fondamentale per comprendere come il filosofo concepisca l’organizzazione gerarchica del cosmo, dalla materia inanimata alle anime umane e agli angeli. Le monadi entelechiali o semplici sono quelle più basiche e rudimentali. Caratterizzate da percezioni molto confuse, che non permettono una consapevolezza distinta o riflessiva, sono associate alle entità inanimate, come le pietre e i minerali, e sono poste al livello più basso della scala ontologica, la pura esistenza potenziale o “entelechia” in forma basilare. Le monadi animate o anime possiedono percezioni più chiare e distinte rispetto a quelle entelechiali. Non solo percepiscono, ma sono anche capaci di memoria, il che permette loro una forma minima di consapevolezza temporale. Le monadi animate corrispondono agli animali e differiscono dalle semplici monadi entelechiali per la loro capacità di rispondere in modo più complesso agli stimoli esterni. Le monadi razionali o spiriti, invece, si collocano al livello più elevato nella gerarchia e sono associate agli esseri umani e agli spiriti puri, come gli angeli. Queste monadi non solo hanno percezioni chiare e distinte, ma possiedono anche la ragione, la capacità di riflettere su se stesse e di riconoscere le verità etiche e universali. Queste facoltà permettono alle monadi razionali di essere consapevoli delle leggi immutabili dell’universo e di comprendere il proprio posto nel grande ordine delle cose. La monade suprema, Dio, possiede una infinita capacità di percezione e il potere di prevedere tutti gli eventi dell’universo. Dio differisce da tutte le altre monadi in quanto è l’origine dell’armonia prestabilita, coordinando le relazioni tra tutte le monadi senza alcuna interazione causale diretta tra loro. La monade divina è causa ultima e spiegazione di tutto ciò che esiste, mantenendo il cosmo in un ordine perfetto e razionale. Ciascuna monade è poi caratterizzata da due qualità principali: percezione e appetizione. La percezione è la rappresentazione interna dello stato dell’universo che ogni monade contiene; l’appetizione è la forza che spinge ogni monade a passare da una percezione all’altra, guidando il suo sviluppo e la sua evoluzione. Le monadi cambiano i loro stati interni non a causa di interazioni esterne, ma a causa dei principi interni che guidano la loro evoluzione.
Questa gerarchizzazione delle monadi consente a Leibniz di spiegare sia la varietà dell’esistenza che l’unità dell’universo. Attraverso questa struttura, egli propone un modello organico dove ogni livello di esistenza contribuisce all’intero, in un modo che riflette la perfezione e la saggezza divine. Le diverse capacità delle monadi, dalla semplice percezione alla piena razionalità, mostrano come l’universo di Leibniz sia profondamente interconnesso e finalizzato, con ogni monade che gioca il suo ruolo specifico all’interno dell’armonia generale. Uno degli aspetti centrali della filosofia di Leibniz è il principio di ragione sufficiente, secondo cui nulla accade senza una causa o una spiegazione. Tale principio è strettamente legato al cosiddetto ottimismo leibniziano, espresso nella famosa affermazione, “viviamo nel migliore dei mondi possibili”. Il filosofo, infatti, sostiene che, data la sapienza e la bontà di Dio, il mondo esistente sia il migliore che potesse creare, nonostante la presenza del male e del dolore. Monadologia si può dividere in tre sezioni principali: Principi metafisici generali; Natura e qualità delle monadi; Dio e l’ordine dell’universo, strutturate in una serie di brevi paragrafi, ciascuno dei quali sviluppa un aspetto del sistema filosofico leibniziano. Il filosofo comincia delineando i postulati fondamentali della sua filosofia, l’esistenza delle monadi e il principio di ragione sufficiente. La seconda sezione dettaglia la natura interna delle monadi, il loro funzionamento e come queste riproducano l’universo. La terza esplica il ruolo di Dio quale monade suprema, che contiene le ragioni ultime di tutte le cose e ha creato e organizzato l’universo. Nella parte finale, approfondisce come la sua teoria delle monadi influenzi la comprensione dell’etica, del destino dell’anima umana e la giustizia divina. La struttura di Monadologia riflette l’intento dell’Autore di offrire una visione coerente e compatta del cosmo. Il suo sistema filosofico risponde alle domande metafisiche sulla natura della realtà, offrendo anche una base per affrontare questioni di etica e teologia in modo razionale e ottimista. La visione di un universo ordinato e determinato da una divinità benevola fornisce una giustificazione filosofica per l’accettazione del destino e per l’impegno nel perseguire il bene, in accordo con l’ordine divino. Monadologia ha avuto un impatto significativo sulla filosofia e su altre discipline quali la teologia, la scienza e la matematica. Quest’opera di Leibniz rimane una delle più profonde e complesse del periodo moderno. La capacità di sintetizzare questioni di metafisica, teologia ed etica sotto un unico sistema coesivo dimostra la genialità del filosofo e il suo duraturo impatto sullo sviluppo del pensiero occidentale. Attraverso la sua lettura, ci si trova di fronte a una visione del mondo che sfida la comprensione della realtà e del posto dell’uomo in essa, rendendola lezione essenziale per chiunque sia interessato alla filosofia e alla sua storia.
Tratto dal mio “La Letteratura Italiana – Dalle origini al primo Novecento”, Eurilink University Press, 2022, pp. 42-43
“…Verso la metà dell’XI secolo, tuttavia, qualcosa cominciò a cambiare. Qualcuno decise di mettersi in concorrenza con la Chiesa. “Perché devono essere solo loro a insegnare, a scegliere le materie e i programmi? Perché la Bibbia deve essere l’unico manuale in uso di storia, geografia, letteratura, lingua, psicologia, fisica, chimica, architettura, ingegneria, astronomia, religione e pure educazione fisica?”. Molti uomini, allora, estranei ai ranghi ecclesiastici, quando si incontravano all’osteria, la sera, dopo cena, cominciarono a discutere di filosofia aristotelica la quale, anche attraverso le traduzioni e i commenti dei dotti arabi Avicenna e Averroè, era giunta in Occidente. Così, parla oggi, discuti domani, leggiti il libro per dopodomani, i conversanti aumentavano sempre di più. Gli osti facevano affari d’oro, perché avevano messo la consumazione obbligatoria e, quando si faceva tardi, fittavano pure qualche camera per la notte con la prima colazione compresa. La cuccagna, per i gestori di osterie e taverne, però, durò poco. Ben presto, in tanti decisero di riunirsi in luoghi più adatti alle discussioni, alla lettura e allo studio. Ed ecco che nacquero le Università e, in due secoli, dall’XI al XIII, ne sorsero in tutta Europa. Ogni città importante aveva la propria. Vi si poteva studiare la filosofia, le lettere, il diritto e le cosiddette arti liberali, fondamento di tutta l’istruzione dei secoli precedenti: la grammatica, la retorica, la dialettica, la musica, l’astronomia, l’aritmetica e la geometria. Tutto era molto ben organizzato: gli studenti, dopo aver letto i testi consigliati dai maestri, sceglievano quale corso seguire e in che materia diventare dotti. Essi, inoltre, erano liberi di discettare con i docenti, senza dover sostenere esami, né scritti, né orali, ma, semplicemente, confrontando il loro pensiero con quello degli antichi, come, ad esempio, Aristotele e tanti altri, e con i compagni di banco. Era, dunque, un metodo di insegnamento e apprendimento molto particolare. Se oggi fosse ancora così, molti studentelli ne approfitterebbero e non imparerebbero un bel niente…”.