Agli inizi del ‘200, in quella regione della Francia meridionale chiamata, all’epoca, Linguadoca, poiché vi si parlava la lingua d’oc, la lingua delle poesie dei trovatori e dell’amor cortese, imperversava, dal punto di vista della Chiesa Cattolica Romana, la tremenda eresia catara. Questa postulava il dualismo teologico, ovvero l’esistenza di due divinità, un Dio malvagio e un Dio buono. I catari ritenevano che il mondo materiale fosse l’inferno, che il corpo degli uomini fosse stato creato dal Dio malvagio e l’anima, invece, dal Dio buono. La salvezza, credevano, avvenisse attraverso Gesù Cristo: egli avrebbe rivelato la verità, liberato gli spiriti imprigionati nei corpi e indicato la via per giungere al Dio Buono. Codeste dottrine, unite al rifiuto in toto dei beni materiali e di tutte le espressioni della carne, risultarono terribilmente pericolose agli occhi di Sua Santità Innocenzo III (immaginea destra) e dell’establishment cattolico. Il papa, quindi, si prodigò alacremente per sterminare i catari ed estirpare, così, il loro credo velenoso. Dopo aver tentato invano di coinvolgere il re di Francia Filippo Augusto, riuscì ad armare un esercito, capeggiato da alcuni feudatari del sovrano, al comando di Simon de Montfort. Il 22 luglio del 1209, i mercenari del papa penetrarono dentro le mura della città di Béziers, abbandonandosi agli assassinii più laidi e alle devastazioni più truci. Colà, però, non vi erano rifugiati solo i catari, ma anche cattolici fedeli al papa e alla santa dottrina della Chiesa. Il legato pontificio Arnaud Amaury, interrogato da un soldato sul modo con cui distinguere gli eretici dagli altri, rispose: “Uccideteli tutti! Dio riconoscerà i suoi!”. Questa terribile storia fornisce il pretesto per una riflessione più che attuale: in quelle zone della Terra attanagliate da gravi problemi come la malavita organizzata, il terrorismo, le guerre civili, le prepotenze, i soprusi, quelle zone in cui, insomma, i problemi sono cagionati dagli uomini, se si potesse adottare il metro di Arnaud Amaury, probabilmente, si risolverebbe tutto, tanto, poi, Dio riconoscerà i suoi!
L’etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber, pubblicata nel 1905, è un’opera fondamentale che sonda l’influenza della religione sullo sviluppo economico e culturale dell’Occidente. Attraverso un’analisi meticolosa e interdisciplinare, l’Autore intreccia filosofia, storia, letteratura e religione, per rivelare come l’etica protestante abbia contribuito a modellare il moderno capitalismo. Il filosofo-sociologo principia con un’indagine filosofica sul senso del lavoro nella società capitalista, postulando che la “professione” o “vocazione” (Beruf, che nel suo significato di “compito assegnato da Dio” trae origine della traduzione luterana della Bibbia) sia diventata un elemento cardinale per comprendere l’individualismo occidentale. Esamina il concetto di predestinazione calvinista e la sua influenza sullo sviluppo di un’etica del lavoro, argomentando come il successo materiale venisse spesso visto quale segno dell’elezione divina. Questa fusione tra il dovere religioso e l’attività economica offre una lente filosofica unica per vagliare la natura del capitalismo, dove il lavoro non è solo una necessità economica ma anche un imperativo morale. Storicamente, Weber collega lo sviluppo del capitalismo moderno a specifici periodi e regioni, in cui il protestantesimo era prevalente, in particolare il nord Europa e le parti degli Stati Uniti colonizzate dai puritani, mostrando come queste aree abbiano adottato il capitalismo come sistema economico ed ethos culturale, influenzandone profondamente le strutture politiche e sociali. Weber utilizza una vasta gamma di dati storici per tracciare le correlazioni tra pratiche religiose e sviluppi economici, provando che il protestantesimo abbia fornito lo “spirito” necessario per la nascita del capitalismo. Dal punto di vista letterario, l’opera è un capolavoro di narrazione analitica. Con un linguaggio chiaro e accurato, Weber trasforma argomenti complessi in un racconto affascinante, che si legge quasi come un romanzo storico. L’uso di fonti primarie, sermoni e diari arricchisce il testo, presentando uno sguardo autentico sulle convinzioni e sulle pratiche dei protestanti dell’epoca. La sua capacità di tessere insieme aneddoti e analisi è un esempio eccellente di come la scrittura accademica possa essere rigorosa ma anche coinvolgente. L’aspetto religioso è il più centrale nel lavoro di Weber. Egli dettaglia minuziosamente le dottrine del calvinismo, del luteranesimo e di altre sètte protestanti, sottolineando come queste abbiano prediletto la disciplina, l’ascetismo e l’etica del lavoro. Non solo descrive le pratiche, ma le interpreta in relazione allo sviluppo economico, proponendo una tesi provocatoria: la religione ha plasmato le sfere personali della vita, avendo anche avuto un impatto profondo e diretto sul corso economico e sociale del mondo occidentale. L’analisi si concentra significativamente sulle divergenze tra le visioni luterano-calviniste e quelle cattoliche, in particolare riguardo al lavoro e al profitto. Queste differenze teologiche ed etiche non solo hanno influenzato la vita dei fedeli ma hanno anche avuto un impatto profondo sullo sviluppo economico nei vari contesti geografici e storici.
Il cuore dello studio di Weber è nel modo in cui il calvinismo ha interpretato la predestinazione e il lavoro. Secondo la dottrina calvinista, il destino eterno dell’uomo è predestinato da Dio e non può essere cambiato; tuttavia, segni di una vita favorita da Dio possono manifestarsi attraverso il successo e la prosperità nel mondo terreno. Il lavoro, quindi, assume una dimensione quasi sacra – non solo è un dovere verso Dio ma diventa anche un segno del favore divino. Questa interpretazione è meno accentuata nel luteranesimo, per cui comunque il lavoro è ritenuto una vocazione divina, un mezzo attraverso cui il fedele serve Dio nella vita quotidiana. La prosperità risultante dal lavoro diligente ed etico non è però considerata come un fine in sé ma come una conferma che si sta vivendo una vita in linea con i comandamenti divini. In questo modo, il profitto e il successo economico sono accettabili e addirittura potenzialmente indicativi di salvezza. Al contrario, la dottrina cattolica tradizionale non pone un’enfasi simile sulla predestinazione o sul successo economico come segno di salvezza. Il cattolicesimo, con la sua struttura ecclesiastica più centralizzata e la dottrina della libera volontà, permette ai fedeli di influenzare il proprio destino spirituale attraverso le opere, inclusi i sacramenti e la carità. Il lavoro ha sì un valore etico e spirituale, ma è disgiunto dalla nozione di predestinazione. Di conseguenza, il profitto e il successo materiale sono visti in una luce più neutra o persino problematica, se perseguiti a scapito di valori più elevati. Weber ritiene che la visione calvinista del profitto come segno di grazia divina abbia giocato un ruolo chiave nella formazione dell’etica del capitalismo. L’accumulo di ricchezza, purché ottenuto attraverso il duro lavoro e l’adempimento etico, era percepito come moralmente accettabile e anche desiderabile, un’indicazione della propria elezione. Ciò contrasta nettamente con la visione più scettica o critica del profitto che si può trovare in molte interpretazioni cattoliche, dove l’accumulo eccessivo di ricchezza è considerato un ostacolo alla vera pietà e un rischio di corruzione spirituale. La visione protestante, pertanto, con la sua interpretazione del lavoro e del profitto, ha favorito un ambiente in cui il capitalismo non solo è nato ma è anche fiorito, mentre la tradizione cattolica ha promosso un approccio più cauto ed equilibrato verso il successo materiale. L’etica protestante e lo spirito del capitalismo è un’opera straordinariamente ricca e complessa, che spinge i lettori a considerare il ruolo della religione e dell’etica nell’economia moderna. Weber fornisce la base per ulteriori studi interdisciplinari e invita altresì a una riflessione critica su come i valori culturali e religiosi continuino a influenzare le pratiche economiche contemporanee.
Adolfo Celi incarna l’essenza dell’arte drammatica con una presenza che risuona tanto nella memoria collettiva quanto nelle anime individuali. Nato il 27 luglio 1922, a Messina, si è distinto come attore, regista e sceneggiatore, navigando con maestria tra le acque delle arti performative. Sin dalla giovinezza fu attratto dal palcoscenico, un luogo dove le sue emozioni trovavano espressione e la sua creatività poteva fiorire senza restrizioni. Studiò all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica di Roma, un tempio di apprendimento, che affinò il suo talento innato e gli fornì gli strumenti per dominare l’arte della recitazione. La carriera cinematografica di Celi è segnata da interpretazioni memorabili, che lo hanno reso una figura di spicco nel panorama internazionale. Il suo ruolo nel film “Agente 007 – Thunderball” (Operazione tuono), come Emilio Largo, rimane iconico, un perfetto antagonista dal carisma oscuro e magnetico. La sua abilità di interpretare personaggi complessi con una profondità psicologica rara lo ha reso un attore ricercato in tutto il mondo. Ma è nel cinema italiano che ha dato il meglio di sé, lasciando un’impronta indelebile con interpretazioni che hanno attraversato generi e stili. Collaborò con alcuni dei più grandi registi del tempo, tra cui Federico Fellini, Francesco Rosi e Luigi Comencini. In film come “Amici miei” e “Sotto il segno dello scorpione”, dimostrò una versatilità straordinaria, capace di passare dal dramma alla commedia con una naturalezza disarmante.
La tecnica attoriale di Celi si distingueva per la sua intensità e precisione. Era un maestro nell’uso della voce, modulandone i toni per trasmettere una gamma di emozioni che andavano dal sussurro più delicato al grido più potente. La sua presenza scenica era imponente, capace di catturare l’attenzione del pubblico con un solo sguardo. Lavorava sul personaggio con una dedizione quasi maniacale, contemplando ogni sfumatura del ruolo, per portare alla luce verità nascoste e contrasti interiori. Era noto per la sua capacità di entrare completamente nel personaggio, abbandonando se stesso e diventando una tela bianca su cui dipingere nuove vite. Adolfo Celi ci ha lasciati il 19 febbraio 1986. Le sue interpretazioni rimangono a testimoniare la sua grandezza e il suo impegno verso l’arte della recitazione. I suoi film e spettacoli teatrali sono studiati e ammirati, fonte di ispirazione per le nuove generazioni di attori e registi. In ogni scena, in ogni parola pronunciata, Adolfo Celi ha infuso un pezzo della sua anima, rendendo ogni sua performance un’opera d’arte. Il suo nome rimarrà per sempre scolpito nella storia del cinema e del teatro, un esempio di eccellenza e dedizione per chiunque scelga di seguire le sue orme.
These my brand-new reflections on geopolitics present it as a philosophical field, emphasizing the influence of geography on political strategies and the impact of geopolitical actions on collective identities and human conditions. It integrates classical philosophical thoughts on power and State acts, aiming to deepen the understanding of nations’ strategic behaviours and ethical considerations. This reflective approach seeks to enhance insights into global interactions and the shaping of geopolitical landscapes.
The Geo-Philosophy
Part II
The phase of the maintenance of our form of civilization unfolds between two apparently opposite and incompatible moments: synthesis and desynthesis. However, the “expansion” of the system has ultimately led to an irreversible crisis. The “crisis” of the West is not due to the incursion of an allotropic element, but to the simple fact that, through expansion, the political grinds down all that is non-political, the metropolis relentlessly grinds down the provincial and the peripheral, urbanism swallows the countryside, the forest, the mountain…, the philosophical absorbs all that is non-philosophical (literature, art, cinema, television, the dream, madness…)—philosophy even amuses itself by producing its own deconstruction; while History grinds down all that is extra-historical, from peoples without history to the history of that which, not unfolding “in public,” would strictly be without history. Now, this expansion has resulted in what Baudrillard calls “implosion,” that is, the “chemical” suspension of all classic opposition in a solution of reversibility or random aggregation, or anyway, according to laws not reducible to any known reference. Such a suspended state is what I call “desynthesis.” Desynthesis should be understood not as a sort of reflux, but as a movement of drift, like the expression “galactic drift” in the Big Bang theory. The mutual distancing of nebulae here corresponds to the mutual distancing of State, History, and Philosophy and their internal parts from each other; it involves the disarray of the Western system or, more specifically, the breakdown of the system of legitimation of the Western use of the mind, and thus also the dysfunction of the project that refers to that use.
That there is desynthesis can be inferred indirectly from what we might call the Doppler effect of Western civilization, a sort of “redshift” of the “light” emanating from various formations of the objective spirit in which State, History, and Philosophy are variously intertwined. The Doppler effect we are discussing consists, for example, of the recording of the decline of the universalistic model of the European nation-state and, more specifically, in the shift of political and legal investments to the local and territorial, such that statehood seems to produce more as a multiplicity of subversive pushes than as a totalization of collective existence in the ethno-political universality of the nation. To biopolitics as the perfection of Western statehood (the subsumption of life as a biological fact under a power that acts with aesthetic nonchalance) is substituted a sort of geopolitics of territorial instances (the dissemination of the political in the folds of the concrete territoriality and domesticity of existence). Thus, philosophy no longer produces itself as a national educational project, but as a sort of concrete morality that articulates local truths and transient facts for the use of restricted communities. To the university philosophy, which untangled universal teachings for a community without particularistic divisions within it, and thus an ethnically, legally, and politically homogeneous community—which guaranteed the universality of education through a system of public degrees and certificates—is juxtaposed something like a thought that speaks without legitimation, without authority, without certifications, and therefore a thought ‘gone wild,’ or better said, ‘uncivilized,’ which moves from a retreat to territorial belonging rather than from an imperial investiture. To hermeneutics as the perfection of the public philosophy of the late twentieth century is substituted a thought of local instances, a geo-philosophy; to the image of the state professor, the meticulous philologist, the pedagogue, the jealous guardian of orthodoxy, and the accumulator of glosses is juxtaposed, precisely in the sense that it slips to the side, to the right, that of the corsair thinker or, better yet, pirate, vampyr, one who sucks the soul (the juice, the sap of a thought) introducing into bodies (his public image) a spirit that does not correspond (Wild textualism)—to the productivity and commensurability of philosophical work, typical moreover of every homogeneous formation, is substituted a sort of heterogeneous dissemination of the thinking function, a shift in the register of thought from accumulation to expenditure, from education to conspiracy, from capital to treasure, from universal power to transitory munificence. On this basis is forming another economy of thought that alongside the global governance of the mind affixes something like a liberalism or an anarchism of its use, to the catholicism of thought (revelation + tradition + magisterium) juxtaposes a mind unaware of the revelativity of philosophy, disacknowledging the magisterium of clerics and exercising a sort of free examination of tradition: Lutheranism of the mind. (Finally, the same can be said for historicity. This no longer produces itself as the unisignificance of the world and facts. To the homogeneous and transferable spiritual heritage of nations is substituted the experience of discontinuity and rupture, to universal history the incommensurability of the historical experiences of concrete local communities.)
LEZIONE DEL CENTRO SCALIGERO DEGLI STUDI DANTESCHI
CANTO XXII DEL PARADISO: SPIEGAZIONE E COMMENTO
27/09/2021
Il canto si divide in tre parti: nella prima Beatrice rassicura Dante, rimasto stordito dal grido dei Beati, sulla protezione di cui gode in Paradiso, dove regna l’ardore di carità; nella seconda il poeta vede l’anima di San Benedetto che gli parla della sua azione di propugnatore del cristianesimo, gli presenta altre anime del cielo di Saturno e condanna la corruzione del suo ordine; nella terza Dante ascende al Cielo delle Stelle fisse, invoca la costellazione dei Gemelli perché lo ispiri nella descrizione dell’ultima parte del suo viaggio e, vedendo dall’alto la terra ed i sette cieli percorsi, fa delle considerazioni sulla fragilità umana e l’inutilità della ferocia e della violenza che regnano nel mondo…
Nel cuore del Rinascimento italiano pulsano le parole di Giovanni Pico della Mirandola, incarnando l’essenza dell’Umanesimo nella Oratio de hominis dignitate. L’orazione fu concepita da Pico come preparazione a una disputa internazionale, ove riunire i più eminenti intellettuali del tempo, a Roma, nel 1487, per discutere di “pax philosophica”. Per l’appuntamento, Pico compilò 900 tesi, pubblicate per la prima volta nel dicembre del 1486. Tuttavia, l’evento fu immediatamente annullato per decisione di papa Innocenzo VIII, che volle formare un comitato di esperti incaricati di valutare l’ortodossia delle tesi. Tre di queste furono dichiarate eretiche dalla commissione, mettendo in cattiva luce l’intera iniziativa e causando la sospensione del progetto. Pico fu addirittura costretto a rifugiarsi in Francia, dove fu comunque arrestato e detenuto nella fortezza di Vincennes, a Parigi, su richiesta del pontefice. L’orazione, che non fu mai pronunciata ma che trovò vita nelle menti e nei cuori di molti, è un canto all’infinito potenziale umano, un inno alla libertà dell’essere di ascendere alla divinità o di cadere nella bestialità, a seconda della propria scelta. Alla fine del Quattrocento, l’Europa si trovava in un crocevia di cambiamenti. L’invenzione della stampa, la caduta di Costantinopoli, le scoperte geografiche di nuovi mondi e le riforme in ambito religioso e artistico ponevano le basi per una riflessione profonda sulla posizione dell’uomo nell’Universo. È in questo contesto che Pico, giovane e ardito letterato, propose una visione dell’uomo come creatore del proprio destino, dotato di una libertà quasi divina. Centrale, nell’orazione, è l’idea del libero arbitrio. L’uomo, secondo Pico, è un essere unico, privo di una forma fissa e predefinita, capace di modellarsi a immagine delle realtà celesti o terrene, secondo la propria volontà. Questa concezione lo pone al di sopra di tutte le altre creature, dotato com’è della capacità di auto-trascendenza. L’opera di Pico si colloca, così, come un ponte tra la teologia cristiana e il pensiero classico, un dialogo tra filosofi di diverse epoche, che culmina nella possibilità di una sintesi universale del sapere umano, offrendo, altresì, una riflessione profonda e innovativa sull’origine e la posizione dell’uomo nella gerarchia dell’Essere, distaccandosi dai canoni tradizionali medievali e abbracciando la visione rinascimentale carica di possibilità umane. Tradizionalmente, la gerarchia dell’Essere era vista come una scala rigidamente strutturata, un ordine cosmico stabilito da Dio, in cui ogni creatura aveva un posto definito e immutabile. Angeli, demoni, uomini, animali, piante e minerali erano disposti in un ordine decrescente di santità e perfezione, ciascuno con un ruolo preciso e senza possibilità di cambiamento. Pico rompe questo schema, introducendo una concezione rivoluzionaria dell’uomo come “miracolo” dell’Universo. Secondo la sua visione, l’uomo è stato creato da Dio senza una forma specifica e definita, il che lo pone al centro della creazione come un essere unico, collocato, nella visione pichiana, in una posizione ontologicamente centrale. Non essendo vincolato a una natura specifica, l’uomo ha la libertà e la capacità di modellare se stesso rispecchiando la divinità oppure di degradarsi al livello delle bestie o, perfino, inferiormente. Tale posizione dell’uomo implica una grande responsabilità: quella di scegliere attivamente il proprio cammino. Egli, così, diventa l’artefice del proprio destino. Questa capacità di auto-determinazione lo distingue radicalmente da tutte le altre creature confinate nei limiti delle proprie nature predefinite.
Anche l’idea di auto-trascendenza è fondamentale nella filosofia di Pico. L’uomo può elevarsi al di sopra della sua condizione mortale attraverso l’educazione, la riflessione filosofica e l’adesione ai principi etici e spirituali. Questo processo di elevazione non è soltanto un miglioramento personale, ma una vera e propria imitazione delle caratteristiche divine, come la conoscenza e la bontà. Attraverso la pratica delle virtù e lo studio delle arti e delle scienze, l’uomo può ascendere nella gerarchia dell’Essere, avvicinandosi all’angelico e al divino. In questo senso, Pico vede la filosofia e la teologia non solo come discipline accademiche, ma come vie di perfezionamento dell’anima e di realizzazione del proprio potenziale. Il filosofo, pertanto, ridefinisce la posizione dell’uomo nella cosmologia ed eleva l’umanità a protagonista della propria storia spirituale e intellettuale. La sua visione anticipa i concetti moderni di auto-determinazione e di potenziale umano, auspicando una nuova era di pensiero, in cui l’essere umano sia visto come co-creatore del proprio mondo e del proprio destino. Questa visione ottimistica dell’umanità è una delle eredità più durature di Pico e del Rinascimento e continua a influenzare il pensiero filosofico e culturale contemporaneo. L’Oratio de hominis dignitate, in definitiva, risuona come un poema epico sulla natura umana. Le parole di Pico, cariche di elevata retorica e di sublime ottimismo, riflettono la quintessenza dell’ideale umanistico: l’uomo come misura di tutte le cose, capace di elevare sé stesso attraverso il culto della bellezza, della verità e della bontà. La sua visione celebra l’armonia possibile tra ragione e fede, tra cielo e terra. L’orazione non rappresenta soltanto un documento storico, ma un manifesto eterno della potenzialità umana. Pico della Mirandola invita i lettori di ogni epoca a vedere in se stessi non una creazione finita, ma un’opera aperta, un progetto in continuo divenire, sfidandoli a raggiungere la grandezza che è in loro potere conseguire. Così, attraverso i secoli, le sue parole continuano ad accompagnare tutti coloro i quali cercano di comprendere la vastità e la profondità della “dignità” umana.
Guido Guinizzelli è stato il teorico del Dolce Stil Novo, l’altro Guido, come lo chiamò Dante (Purg. XI, v. 97) ne ha rappresentato il maggiore esponente. Fiorentino, nacque più o meno nel 1260, dalla nobile famiglia Cavalcanti, mercanti molto ricchi. Notissime erano, a Firenze, quasi fossero un punto cardinale, le terre e le case dei Cavalcanti, situate non lontane dalla Chiesa di Santa Maria in Campidoglio, nei pressi del Mercato Vecchio. Da giovane, era stato mandato dal padre a studiare la filosofia da Brunetto Latini e proprio lì aveva conosciuto il futuro sommo poeta, divenendone amico fraterno. Guelfo bianco convinto, per dare il buon esempio, cercando, in tal modo, di calmare un po’ le tormentatissime acque in città, aveva sposato Bice degli Uberti, figlia del famoso Farinata, il segretario comunale del PGF, Partito Ghibellino Fiorentino. Tutto questo, comunque, era servito a poco o niente. La tensione, a Firenze, era sempre altissima, tanto che quando non si riuscivano ad eliminare gli avversati in casa, si mandavano i sicari a raggiungerli in trasferta. Durante un pellegrinaggio al santuario di Santiago di Compostela, infatti, nei pressi di Tolosa, Guido prese una coltellata alla schiena, inflittagli da un assassino mandato da Corso Donati, il capo dei guelfi neri. Si salvò per miracolo! Incurante dei numerosi pericoli e della sua incolumità fisica, si fece eleggere al Consiglio Generale. Solo pochi anni dopo, però, ne fu escluso, quando Giano della Bella, un aristocratico passato a sinistra, fece approvare la riforma degli “Ordinamenti di Giustizia”, vietando, ai nobili non iscritti ai sindacati, l’accesso alle cariche pubbliche. Il 24 giugno del 1300, dopo aver preso parte ad una mega rissa in cui guelfi bianchi e neri se le erano suonate di santissima ragione, fino a quando non erano rimaste in piedi che due-tre persone, essendo lui un capo fazione, fu punito con l’esilio a Sarzana, oggi ridente centro in provincia di La Spezia, ma, nel XIII secolo, zona paludosa e insalubre. Fu proprio l’amico Dante, divenuto, nel frattempo, Priore, a firmare, con le lacrime agli occhi, la sua condanna. In poche settimane, a causa dei miasmi mortiferi esalati dagli acquitrini sarzanesi, Guido contrasse la malaria. Tornò a Firenze giusto in tempo per morire, nelle case dei Cavalcanti, il 29 agosto. Fiero nel carattere e altero nell’aspetto, è il più “tragico” dei poeti stilnovisti. L’amore, spesso, gli provocava sbigottimento, lasciandolo dubbioso, destrutto e desfatto:
L’anima mia vilment’è sbigotita de la battaglia ch’ell’ave dal core che s’ella sente pur un poco Amore: più presso a lui che non sòle, ella more.
(L’anima mia vilment’è sbigotita, vv. 1-4)
Forte e nova mia disaventura m’ha desfatto nel core ogni dolce penser, ch’i’ avea, d’amore.
(Forte e nova mia disavventura, vv. 1-3)
Allo steso modo, la sua donna pare non essere così celeste e luminosa come quelle esaltate dagli altri poeti, tanto che il suo valore è difficilmente conoscibile dall’uomo. Se Guido fosse stato un trovatore avrebbe accompagnato le sue canzoni con una musica malinconica e angosciosa:
Se Mercé fosse amica a’ miei desiri, e l’movimento suo fosse dal core di questa bella donna e’l su’ valore mostrasse la vertute a’ mie’ martiri.
(Se Mercé fosse amica a’ miei disiri, vv. 1-4)
La canzone Donna me prega, per ch’eo voglio dire, i cui versi sono di difficile comprensione perché volutamente astrusi, è lo specimen della sua poesia. In essa, filosofia, metafisica, psicologia, tristezza, guai, lamenti e spiriti, introdotti nella sua lirica per spiegare il funzionamento dei sensi e dei sentimenti dell’uomo, mostrano la donna non come una guida che renda l’anima perfetta, quanto come creatura la cui bellezza costringa a meditare, ad almanaccare, a scervellarsi, ad elucubrare e a rimuginarvi. Però, rimuginandovi troppo a lungo, il povero Guido correva il rischio di andare fuori di testa.
Donna me prega, – per ch’eo voglio dire
d’un accidente – che sovente – è fero
ed è sì altero – ch’è chiamato amore:
sì chi lo nega – possa ’l ver sentire!
Ed a presente – conoscente – chero,
perch’io no spero – ch’om di basso core
a tal ragione porti canoscenza:
ché senza – natural dimostramento
non ho talento – di voler provare
là dove posa, e chi lo fa creare,
e qual sia sua vertute e sua potenza,
l’essenza – poi e ciascun suo movimento,
e ’l piacimento – che ’l fa dire amare,
e s’omo per veder lo pò mostrare.
(Donna me prega, – per ch’eo voglio dire, vv. 1-14)
Tra le sue composizioni più famose, infine, è la ballata Perch’i’non spero di tornar giammai. Il poeta, fuori dalla Toscana, chiese a questa sua ballatetta di raggiungere l’amata per dirle, tra pianti, sospiri e accidenti:
Questa vostra servente viene per star con vui, partita da colui che fu servo d’Amore.
Ci viene quasi meccanico, per associazione di idee, abbinare le icone alla Russia, ritenendo che siano patrimonio esclusivo di quella terra, o tutt’al più della Chiesa d’Oriente, e che non abbiano quindi nulla a che fare con la cultura cristiana occidentale. In realtà, quando le icone nascono e si diffondono (a partire dal V-VI secolo) non esistono divisioni fra le chiese, anzi la Chiesa è più che mai unita nella lotta alle eresie e nelle definizioni dei primi Concilii…
These my brand-new reflections on geopolitics present it as a philosophical field, emphasizing the influence of geography on political strategies and the impact of geopolitical actions on collective identities and human conditions. It integrates classical philosophical thoughts on power and State acts, aiming to deepen the understanding of nations’ strategic behaviours and ethical considerations. This reflective approach seeks to enhance insights into global interactions and the shaping of geopolitical landscapes.
The Geo-Philosophy
Part I
Philosophy no longer makes individuals wiser nor does it impart wisdom; it neither aids in making beneficial life decisions nor does it bring happiness. However, it certainly does not leave everything unchanged—it is not a futile endeavour. This can be demonstrated through indirect reasoning, for instance by examining how political power has repeatedly striven to seize it or control its discourse. Yet, the issue is more intricate and simultaneously more straightforward than it appears. First, because philosophy is not merely prey to the political; and second, because the relationship among philosophy, politics, and history is highly complex. It is only through the interplay of this complexity, resembling the ever-changing patterns of a kaleidoscope, that we can glean insights into the characteristics of our way of life, our culture, traditionally referred to as the “West.” It is thus possible to begin with the observation that philosophy is a fundamental and essential aspect of the “Western project.” The need to define this term (“Western project”) necessitates first clarifying what “project” implies here. If by project we mean looking forward, the foresight of what will be done, and the structured plan of a construction, then it can be defined as the plan that allows us to foresee everything that needs to be done to then tackle a specific construction. In general, the blueprint upon which our way of life was developed and built includes three constructive orders: the organization of coexistence, the continuity of events, and the certification of beliefs. The West is an ongoing construction whose unfolding is articulated as a combination of these three problem-solving constructs. On the plane of coexistence, the Western project unfolds as a state organization; on that of eventuality and its impermanence, it unfolds as History; and on that of belief and its uncertainty, it unfolds as Philosophy. The State organizes the community, History retains events, Philosophy transforms faith into truth.
One might wonder in what sense philosophy certifies belief, and the answer is that philosophy arises and establishes itself in opposition to myth. The struggle between philosophy and myth is authoritatively attested by Plato. This struggle is primarily a battle for control over the education system (Paideia) and unfolds in three ways: 1. the exclusion of poets, that is, the wise producers of myths, from the Polis; 2. the repositioning of mythical wisdom in a subordinate role to philosophical knowledge; 3. an unequivocal condemnation of the sophist, that is, the practitioner of a private and thus particularistic Paideia, and moreover in exchange for money. Philosophy firstly rejects the mere faith-based nature of myth (that which is strongly believed is true) and its inability to establish itself as an exclusive sphere, thereby preemptively invalidating the emergence of other myths, and thus of different and conflicting truths. Philosophy counters the particular knowledge of myth and sophistry with the idea of a universal and incontrovertible knowledge. Now, the philosopher’s certainty of possessing absolutely certain knowledge is based on the acquisition of two notions: 1. truth as unveiling (Alétheia); 2. Being as totality (En-pan). By invoking these two notions, philosophy asserts itself as a total, exclusive faith: philosophy is the eternal and ubiquitous knowledge of the unveiled, that is, of that which, remaining unchangeably in the philosopher’s gaze, is always and everywhere true. The extent to which this conviction is in turn a belief is something that, following the break from Hegelianism, will be categorically highlighted. Philosophy is no more a certain knowledge than myth was, with the difference that this myth, which is philosophy, has found in the coordination with the State and with History the means to suppress, disqualify, or annihilate any different use of the mind. State, History, and philosophy are not independent magnitudes. Together, they constitute the response to the problems of the incompatibility of coexistence, the impermanence of events, and the uncertainty of belief, whose kaleidoscopic interplay forms the ever-changing, yet always unified, shape of Western civilization. It could be said that each of these magnitudes presupposes and inevitably refers back to the other two, and that none of the three would have the meaning they do outside of their mutual and triadic relationship, nor could they be separated from this relationship without compromising the entire system’s structure, thereby somehow causing its breakdown. This is a system of transparent planes, each bearing a design; their overlapping, in multiple combinations, gives us the complete design of Western Kultur. What allows the reading of the three planes as a civilization project is thus their very transparency. This system of complex overlays could be termed the Western synthesis, namely the union, the joint capacity for promotion, and the mobile connection of State, History, and Philosophy, along with the transparency of each plane relative to the others. For instance, knowledge that sought certainty outside the constraints imposed by historical existence would be nothing more than the myth against which Plato fought to establish philosophy as the foundation of all public education. Moreover, if there were no centralized and singular control over the education system, if the Paideia presented itself as a multiplicity of conflicting and irreducible proposals, then there would not be a State, i.e., there would not be a single system of publicity and therefore not even a single system of meaning, there would not be that Einsinningkeit, that unisignificance of facts that is the foundation of the Western mind. In its place, we would have something like a plurality of private meanings and disparate images, and thus the possibility, always given, of their irreconcilable conflict; we would have something powerful, tyrannical, and at the same time inert, flaccid, treacherous, something both superstitious and simultaneously dazzling like a foggy lunar night, like a charming creature yet veiled in damp mists, dim, feverish, internally corrupt and contradictory like Madame Chaucaht. Thus, the West is primarily a State, that is, the opening of a public space measured by Man, whose measure is Man but only insofar as he is philosophically educated—thus: Homo philosophicus and not “man” simply. The West, following the metaphors of the Magic Mountain, is the “clear day,” the “daylight” where things appear in their incontrovertible objectivity, and “cold,” that is, rational, and finally “glassy,” that is, transparent, unambiguous. This public space, rational, objective, and unambiguous is the realm of manifestation of meaningful events. The meaning of such events, for the philosophically educated being, is univocal, that is, universally comprehensible and transmissible. Such events are thus, so to speak, “eternal facts,” which precisely means: transmissible according to a single meaning. For this reason, they are said to belong to History. History is not the space of facts that simply happen and to which “man” simply conforms, but the realm of the happening of “eternal facts,” which are “facts” only for the Homo politico-philosophicus.
Jon Lord, tastierista dei leggendari Deep Purple, la cui presenza, a metà tra il mistico e l’eterno, si fondeva con le note pesanti e malinconiche del suo Hammond e creava un’aura che avvolgeva chiunque lo ascoltasse. Con le dita che danzavano sulle tastiere come farfalle su fiori di mezzanotte, Lord evocava spiriti antichi e melodie dimenticate. Ogni tocco era un sussurro di storie mai raccontate, di amori perduti e sogni infranti. Era un mago del suono, capace di trasformare l’avorio freddo dei tasti in un canto caldo e avvolgente, che sembrava nascere dalle profondità della terra stessa. Gli occhi di Jon, spesso nascosti dietro occhiali scuri, erano finestre su un’anima tormentata e ricca di introspezione. Portavano i segni di notti insonni passate a cercare la nota perfetta, la sinfonia sovrumana che avrebbe potuto dare voce al tumulto del suo cuore. E in quelle rare occasioni in cui lo sguardo emergeva, rivelava un mare di emozioni intense e inespresse, come un cielo notturno tempestato di stelle che brilla di una luce triste e misteriosa.
La sua musica, fusione di rock, blues e musica classica, era un viaggio attraverso i meandri più profondi dell’esistenza umana. Ogni accordo, ogni nota, era un frammento di un’anima che lottava per esprimere la bellezza nella sofferenza, la luce nell’oscurità. Ascoltare Jon Lord suonare era come camminare in un bosco autunnale, con le foglie che cadono silenziosamente intorno, portando con sé il profumo dolceamaro del passato e la promessa di un inverno inevitabile. E ora, nel silenzio che segue la sua dipartita, resta solo l’eco delle sue note, che risuonano nel cuore di chi ha avuto il privilegio di ascoltarlo. Jon Lord, il tastierista dei Deep Purple, è diventato un’ombra musicale, un ricordo malinconico che fluttua tra i venti del tempo, sussurrando la sua eterna melodia a coloro che sanno ancora ascoltare con l’anima.