Archivio mensile:Agosto 2024

De gli eroici furori di Giordano Bruno

La furia po(i)etica dell’amore

 

 

 

Nell’impetuosità delle pagine di De gli eroici furori di Giordano Bruno si avvertono echi del tempo passato e di idee eterne, risonanti ancora oggi nella vastità del pensiero umano. Quest’opera, redatta tra il 1583 e il 1585, durante il soggiorno in Inghilterra, rappresenta uno dei massimi vertici creativi del filosofo nolano. Bruno, “eretico” e rivoluzionario, sfidava il dogmatismo chiuso della sua epoca con una visione cosmologica audace, che poneva l’infinito al centro dell’universo tanto che le sue idee, espresse con ardore poetico in queste pagine, sfioravano l’eresia agli occhi della Chiesa. De gli eroici furori si configura, così, non solo come testo filosofico ma anche come atto di coraggio intellettuale, in un’epoca di grandi tensioni tra il potere temporale della religione e la nascente curiosità scientifica.
Attraverso il dialogo tra il protagonista, Tansillo, e il suo interlocutore, il Nolano, alter ego dello stesso Bruno, questi percorre la tensione tra l’intelletto e l’amore, tra la conoscenza umana e quella divina. Il furor eroico è quel fuoco interiore che spinge l’individuo a superare i limiti terreni e aspirare all’unione con l’Infinito, con l’Assoluto. Bruno, con un linguaggio che sfiora il divino, eleva l’amore da semplice passione a strumento di conoscenza suprema, tramite il quale l’anima può ascendere alle verità più alte.
Nell’opera, articolata in due libri, il dialogo fluisce giungendo fino alle profondità della filosofia e dell’esperienza umana.
Primo Libro: l’ascesa verso la conoscenza
Dialoghi I-II: il primo introduce il concetto di furor, ispirazione o estasi che trascende la razionalità ordinaria. Bruno discute la natura del furor divino, legandolo all’idea platonica dell’amore che eleva l’uomo oltre il materiale. Il secondo dialogo esamina i differenti tipi di furori: il profetico, il poetico, il divinatorio e l’eroico, con un focus particolare su quest’ultimo, considerato il più alto grado di estasi e di conoscenza.
Dialoghi III-V: sono dedicati all’amore e al suo ruolo nel condurre l’anima alla verità. L’amore è mostrato come una forza che muove l’intelletto e purifica l’anima, rendendola capace di ricevere e interpretare il furor eroico. Bruno adopera esempi mitologici e storici per illustrare come l’amore elevi la persona, permettendole di superare le limitazioni umane e raggiungere una comprensione più profonda dell’esistenza.

Secondo Libro: la natura dell’intelletto e l’amore eroico
Dialoghi I-II: nel secondo libro, Bruno approfondisce il rapporto tra l’intelletto e il furor eroico. L’intelletto, secondo il filosofo, ha il potere di vedere oltre le apparenze e di percepire la verità universale, ma solo quando è guidato dall’amore eroico. Il primo dialogo si concentra sulla potenzialità dell’intelletto umano, il secondo tratta come l’amore possa essere utilizzato per guidare quest’intelletto verso realizzazioni superiori.
Dialoghi III-V: l’ultima parte dell’opera approfondisce il processo attraverso il quale l’uomo può trasformarsi e ascendere a uno stato di conoscenza e comprensione superiore. Bruno descrive l’itinerarium animae, il suo distacco dalle cose terrene e il suo innalzamento verso l’infinito, mediato dall’amore eroico. L’ultimo dialogo culmina in una esaltazione della capacità dell’individuo di unirsi al divino, attraverso l’intelletto e l’amore, raggiungendo una forma di immortalità spirituale.
Il furioso in De gli eroici furori è colui il quale, posseduto da una passione trascendente che lo porta a superare i limiti della ragione umana ordinaria, tocca il divino. Questi è il vero filosofo, l’amante della sapienza nel senso più platonico del termine, che usa l’amore come veicolo per l’ascesa spirituale e intellettuale. Il furioso è altresì un eroe nel vero senso della parola, poiché lotta contro le convenzioni e le limitazioni del suo tempo e della società in cui vive per perseguire la verità ultima.
L’opera è intrisa di una poesia intensa e visionaria, un tessuto linguistico che avvolge il lettore e lo trasporta oltre i confini del razionale. Bruno utilizza il dialogo come forma espressiva che permette una polifonia di voci, di pensieri, di intuizioni, rendendo il testo un vivace crogiolo di idee filosofiche esposte con un vigoroso impasto lirico. La sua stessa struttura, con i suoi dialoghi e le sue poesie, riflette la complessità del cammino umano verso la conoscenza, un percorso denso di ostacoli ma anche di sublime bellezza.
De gli eroici furori è un canto dell’anima che si eleva audace oltre i limiti imposti, una celebrazione del potere dell’intelletto e dell’amore eroico. Bruno traccia una mappa del cosmo dell’anima umana e consegna una visione profetica di un universo in cui ogni stella e ogni pensiero brilla di luce propria. In queste pagine, il lettore è invitato a un viaggio che è insieme esplorazione del cosmo e introspezione, un viaggio che non conosce confini né tempo.

 

 

 

Rustico Filippi e la poesia comica (da morire dal ridere)

 

di

Riccardo Piroddi

 

 

Rustico Filippi visse a Firenze tra il 1230 e la fine del secolo. Come i compagni poeti, gli stilnovisti, scrisse qualche poesia per celebrare la sua donna. Ebbe, tuttavia, maggiore fama di diffamatore del gentil sesso, sempre con intenti comici, però. Quando prendeva di mira qualcuno e gli dedicava i suoi versi, chi li ascoltava andava per terra dal ridere, dimenandosi come un indemoniato, tranne, ovviamente, gli interessati.carta_della_catena_showing_pa__br_hi Si diceva che durante i consigli comunali, a Firenze, l’opposizione inserisse qualche suo verso nell’ordine del giorno, in modo che i consiglieri di maggioranza abbandonassero la sala consiliare per andare a ridere nei corridoi attigui e, mancando il numero legale, non si approvassero i provvedimenti sgraditi alla minoranza. Per i vicoli e le strade della città, per il Lungarno o per i sestieri cittadini, ragazze magre e brutte, donne che non si potevano guardare manco a farsi pagare, rutti e scoregge, gente vanagloriosa e ingenua, uomini che pensavano solo a dove poterlo infilare, pernacchie e sberleffi, venivano catturati nelle sue rime. Quando il sonetto era confezionato non ce n’era per nessuno. Sentite un po’ qualche verso:

Ovunque vai, conteco porti il cesso
oi buggeressa vecchia puzzolente,
che quale – unque persona ti sta presso
si tura il naso e fugge inmantenente.

(Ovunque vai, con teco porti il cesso, vv. 1-4)

A confronto con questa vecchia, una discarica abusiva sarebbe un laboratorio per la distillazione di profumi.

Oi dolce mio marito Aldobrandino,
rimanda ormai il farso suo a Pilletto,
ch’egli è tanto cortese fante e fino
che creder non déi ciò che te n’è detto. […]

Nel nostro letto già mai non si spoglia.
Tu non dovéi gridare, anzi tacere:
ch’a me non fece cosa ond’io mi doglia.

(Oi dolce mio marito Aldobrandino, vv. 1-4 e 12-14)

Il buon Aldobrandino farebbe bene a controllare più spesso la bella e giovane mogliettina.

Lingerie Medievale 02

Ne la stia mi par esser col leone,
quando a Lutier son presso ad un migliaio,
ch’e’ pute più che ‘nfermo uom di pregione
o che nessun carname o che carnaio […]                                       
ed escegli di sopra un tal sudore,
che par veleno ed olio mescolato:
la rogna compie, s’ha mancanza fiore.

(Ne la stia mi par essere col leone, vv. 1-4 e 12-14)

Quasi certamente, a casa di Lutier devono aver staccato l’acqua corrente da qualche mese.

Se tu sia lieto di madonna Tana,
Azzuccio, dimmi s’io vertà ti dico;
e se tu no la veggi ancor puttana,
non ci guardar parente ned amico:
ch’io metto la sentenza in tua man piana,
e di neiente no la contradico,
perch’io son certo la darai certana;
non ne darei de l’altra parte un fico
.

(Se tu sia lieto di madonna Tana, vv. 1-8)

Azzuccio, chiedi alla tua donna che perlomeno si faccia pagare!

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I cittadini “celebrati” nelle sue poesie erano facilmente riconoscibili da chi ne leggeva o ne udiva le “gesta” e si incazzavano così tanto che l’autore, di sicuro, avrà avuto, da questi, più di un “paliatone”. Il realismo poetico di Rustico è straordinario. I suoi sonetti, seppure sub specie della comicità, sono l’effettiva rappresentazione di una società in cui dilagavano corruzione, vizi carnali e scarsissima, se non inesistente, igiene personale.

 

 

 

Geopolitics: a Philosophical Approach

 

 

 

These my brand-new reflections on geopolitics present it as a philosophical field, emphasizing the influence of geography on political strategies and the impact of geopolitical actions on collective identities and human conditions. It integrates classical philosophical thoughts on power and State acts, aiming to deepen the understanding of nations’ strategic behaviours and ethical considerations. This reflective approach seeks to enhance insights into global interactions and the shaping of geopolitical landscapes.

 

The Geo-Philosophy

Part IV

 

 

Geophilosophy, in itself and in relation to what produces it, is therefore, first of all, a thought of the outside. This is because it has in the “outside” the only philosophical ground from which to draw its start; such a “start” is “unique” because any other ground would be, and is in fact, precluded to it, from the exclusion from which it comes: the almost nothing of heterogeneous existence and provincial thoughtfulness. In trying to reach a certain understanding of its theoretical consistency and its cultural role, geophilosophy thus comes to think of the place of its Herkunft, which means both belonging and provenance, as the fruit of a meiotic activity within a space of immanence. The mechanisms of exclusion and removal proper to meiotic activity destine a part of being to rejection: it is meiosis that produces that secluded region that constitutes, within the totality of things seen, organized, transmissible, and sensible, a Mërtvogo doma, a dead house, a closed region of the heterogeneous that resembles nothing, with its own laws, its own customs, with a life that does not exist anywhere else, where one can suppose that there is no crime that does not have its representative there, where the existing forces, there cohabiting under duress, are put to work under the threat of the stick, but without such employment having any purpose, its only purpose being instead to deceive the wait. A house where one can therefore learn patience in anticipation of being either enabled to join the bright world beyond, or at least pointed out by it as a mere moral reminder. A dwelling in every way similar to that prison of which Dostoevsky not only sculpted the figures, but also the dynamics, the chemical reactions, the vital functions, and the global dysfunction—the Other, for geophilosophy, is not high (Evola), but low (Nietzsche). The zero degree of exclusion corresponds, however, to the groundlessness of the world and the sense and organization of collective life are directly in function of the degree of exclusion. In this way, the crisis of desynthesis of the West comes to express, in addition to what has already been said, the weakening of the mechanisms of self-recognition on the part of the homogeneous world, which indeed used the inside/outside relationship to determine the sense of the positive, of the good, and of the superior in relation to the negative, the bad, and the inferior. The positive and the homogeneous are the ‘inside,’ the heterogeneous, the negative, and the transcendent are the ‘outside’; the ‘inside’ is a free, evasive region, the ‘outside’ is a closed and secluded region; the inside is the part of sense, of reason, of man and of being, the outside is the part of insignificance, of being, of god, and of the beast; the inside is the organized, serviced, and productive urban space, the outside is “the consistency of a vague ensemble that opposes the law (or Polis) as a hinterland, a mountainside, or the vague expanse around the city.” The desynthesis of the West therefore corresponds to an increase in the disorganization of the world, and thus also to an increase in its insignificance. The degree of insignificance to which the world bends corresponds, however, to the degree of liberation of flows of uncoded thought.
In the face of theology as the perfection of philosophical thinking, geophilosophy, one might say, unfolds—in the sense that it hoists, as sails are hoisted—the imperfection of an absolute anthropology. This, unlike subjective anthropology, which assumed the earth as that sector of being that constitutes the subordinate complement of the sphere of transcendence, assumes the earth as the conclusive, extreme horizon, as an “absolute,” within which the terrestrial and the transcendent, being and being, the human and the divine, the ἱδιότηϛ and the πoλίτης exchange incessantly, in a regime of unlimited reversibility.

In the second place, geophilosophy is a “minor” thought. Being excluded from thought does not mean not being able to learn its features, but rather: not being able to utter a philosophically legitimate sentence unless overcoming within oneself the stammering of the ἱδιότηϛ. “Minor,” in the sense of professional and homogeneous philosophy, is that use of the mind that stammers in thought, that use of the mind that is without past and without future, where, precisely, only what has a past, and therefore a future, and therefore a History, is philosophically relevant. Stammering in thought, without past or future, is indeed the almost nothing of provincial thoughtfulness. Taken in the “geo-” sense, this “minority” is therefore, to use a Deleuzian image, the autonomy of the stammerer insofar as he has conquered the right to stammer.
Finally, geophilosophy is a provincial thought, in the sense that it operates starting from the almost nothing of provincial thoughtfulness and unfolds like a path through the fields.
It is not easy to say whether Heidegger’s famous Feldweg also has this sense, but it is certain that if a path through the fields is mentioned here, it is meant to allude to a path that winds far from the road network of professional philosophy, to a path whose destination is not known with precision nor whether it leads anywhere, and thus to a path that must be attempted before it can be mapped. The path through the fields is therefore first of all a “trial path” (Holzweg), then a relationship of orientation with space, with the landscape and places (Wegmarken)—and not with the history of homogeneous thought, at least not primarily—, then a journey delivered to the horizontal development of the earth’s surface; the spirit does not invert, is not something that rises and falls, but rather, as is clear in the preludes of the dream, it rather spreads “over the broad surfaces of the earth, itself mountain and field and earth…”. Why the sky makes sense writes Cesare Pavese, who is perhaps the greatest poet of the landscape and earthliness of our twentieth century you must sink well black roots into the dark and if light flows right into the earth, like a shock, then even the peasants have a sense and cover the hills, immobile as if they were centuries, with green, with fruit and with houses and every plant at dawn would be a life.
The spirit spreads and covers the surfaces, the timeless hills, within a “closed” that we might say, delimits the absolute terrestrial; not therefore “celestial earth,” as has also been said, but rather, on the contrary, terrestrial sky, in the sense that it is the earth that has a sky, and not vice versa.
Finally, this image of the path, refers to a dialectic between ‘locality’ and ‘dislocation’, between rooting and deterritorialization. In the very near future, every thought begins. The landscape determines our first meditations. Our thoughtfulness is initially perhaps nourished by nothing but landscape. In the landscape and in the mother tongue, our ancestral sensibility is preserved and transmitted. The earth, not as a unifying symbol, but as this concrete relationship with a particular place-territory, gathers and preserves what, eluding manipulability, is free from technique: the faces of the ancestors inscribed in the folds of the landscape, the small cemetery up on the coast, where the ancestors insist and things that last forever. But without a dialectic between rooting and deterritorialization, between remembrance and flight, between the Langhe and Turin or the southern seas (to remain with Pavese), the call to the earth is useless rhetoric. Provincial thought unfolds this dialectic. But this dialectic does not reconstruct the universal, does not restore the eternal, does not provide global solutions, does not console, does not expand knowledge, and does not legitimize political choices. It might be said that it, very imperfectly, articulates local truths and transient facts within a concrete morality, also constantly in transit, aimed at clearing the path for the journey of a restricted community, in search of autonomy and “property” in the drift of the West, in search of a possibility of coexistence in the continuum of conflict, in search of a right and a victimizing responsibility in the deflecting system of laws and universalistic ties, and, finally, perhaps, in search of a terrestrial religion in the decline of Transcendence.
Geophilosophy is thus not, strictly speaking, either a new theoretical proposal or political, even if it has its own theoretical consistency and politics to be carried out, but rather a way of giving itself to thought “from the lucid fury that smolders in the somber thoughtfulness of peripheral recesses.” As such, it is but a transitory and lateral phenomenon, exactly as brigandage was caught between the decline of the ancien régime and the advent of the new political organ, the liberal State.

 

 

 

L’inquieto abbraccio della malinconia

Cesare Pavese, 27 agosto 1950

 

 

 

 

Poeta dei silenzi e delle ombre, si staglia nel panorama letterario italiano come un faro solitario in una notte nebbiosa. La sua esistenza, come una lunga passeggiata su un sentiero di sassi bagnati dalla pioggia, è un intreccio di malinconia e bellezza, un viaggio intimo nei recessi più nascosti dell’anima.
Con la sua figura alta e sottile, Pavese sembra quasi un albero esile piegato dal vento, radicato in una terra fertile ma spesso inospitale, quella delle Langhe piemontesi, che ha visto nascere e crescere i suoi tormenti e le sue speranze. I suoi occhi, due pozzi profondi, raccontano storie di solitudini condivise solo con le pagine ingiallite dei suoi diari, dove ogni parola è un’eco del suo dolore, il sussurro di un cuore che batte in cerca di un senso.
La sua penna, intrisa di inchiostro nero come la notte, ha tracciato percorsi di vite spezzate, di amori mancati e di sogni infranti. Nei suoi romanzi, la campagna piemontese diventa un luogo dell’anima, dove il tempo sembra sospeso, dove il passato e il presente si fondono in un abbraccio fatale. E, in questo paesaggio interiore, Pavese ha cercato risposte alle sue domande più intime e quel conforto che la vita non sempre è stata in grado di offrirgli.
Ma è nei suoi versi che la malinconia si manifesta con tutta la sua forza, un canto sommesso e struggente, come un violino che suona in una stanza vuota. La sua poesia è un riflesso della sua anima inquieta, un continuo ritorno alle origini, alle radici che lo hanno sempre tenuto ancorato a una realtà troppo spesso amara. Non ha mai smesso di cercare il filo conduttore che potesse dare un significato alle sue giornate spese a scrivere, a leggere, a osservare il mondo con quello sguardo che pareva sempre un po’ più distante, un po’ più perso.
E così, Pavese rimane un uomo che ha amato la vita ma che è stato troppo spesso deluso da essa, un poeta che ha saputo dare voce ai suoi silenzi, trasformandoli in parole immortali. Il suo suicidio, in una camera d’albergo a Torino, è l’ultimo atto di una vita vissuta in punta di piedi, sempre sul bordo del precipizio, dove la malinconia si trasforma in una compagna silenziosa, un’amica fedele che lo ha accompagnato fino all’ultimo respiro.
Cesare Pavese ci ha lasciato con un testamento poetico che non smette di risuonare, una melodia dolce e dolorosa che ci ricorda la fragilità dell’esistenza umana e la bellezza struggente che si nasconde nei meandri più oscuri della nostra anima.

 

 

 

 

 

La collezione di icone delle Gallerie
di Palazzo Leoni-Montanari a Vicenza

 

 

di Carmela Puntillo

 

 

La collezione di icone delle Gallerie di Palazzo Leoni-Montanari è formata da icone russe, una delle più cospicue e importanti raccolte di arte sacra russa esistenti al di fuori dei confini della Russia. Parliamo innanzitutto del palazzo che le ospita a Vicenza…

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La signora, l’amore e il trovatore

 La lirica provenzale e i trovatori

 

 

 

 

Le donne, sempre un po’ maltrattate dagli uomini durante tutto il corso della storia del mondo, potessero scegliere l’epoca e il luogo in cui vivere, deciderebbero certamente di abitare in Provenza, nella Francia meridionale, tra il XII e il XIII secolo. Proprio lì, infatti, nei castelli e nelle corti, ebbe origine e si sviluppò un genere letterario fondamentale,  imitatissimo in tutte le successive letterature, non soltanto in quella italiana: la poesia cortese. Chi furono, dunque, quegli uomini che restituirono alle donne, e con gli interessi, tutto quanto era stato loro costantemente negato? E quei poeti, che le cantarono come fossero la Madonna, Sant’Anna, Sant’Elisabetta, Marilyn Monroe, Sophia Loren e Greta Garbo messe insieme, che tipi erano? Nella lingua provenzale esisteva un verbo, trobar (mi raccomando, senza la m!) che in italiano si traduce comporre, trovare versi. Da questo verbo derivò la parola trovatore, il protagonista principale di questa inedita e meravigliosa stagione poetica. juglarI trovatori erano uomini di varia estrazione sociale, alcuni nobili o feudatari, altri legati alla vita di corte, altri cavalieri senza proprietà, nemmeno il cavallo, altri ancora giullari di grande cultura. Tutti, comunque, avevano studiato le regole della galanteria, erano educatissimi e conoscevano la poesia e la musica. Nel loro ambiente si diceva che un buon trovatore dovesse essere sempre ben informato sull’attualità regionale e nazionale, meglio del direttore del TG1 o di quello del Corriere della Sera; dovesse essere pettegolo e cianciare su tutto quanto succedesse nelle corti, più di Alfonso Signorini e di Roberto D’Agostino; saper suonare almeno due strumenti musicali, come Edoardo Bennato quando si presenta in Tv suonando, contemporaneamente, la chitarra, l’armonica e, con il piede, il tamburo; ma, principalmente, dovesse essere capace di improvvisare versi, a un signore, per adularlo, e a una gentildonna, per adorarla. Quando le signore e le dame si accorgevano che un trovatore stesse per avvicinarsi, sedevano comode, mettevano il cuore nello zucchero e lo ascoltavano cantare i suoi versi. Era proprio un piacere sentirsi dire cose di questo genere:

“Mia signora, voi siete la mia padrona e io, vostro servitore fedele, mi inginocchio dinanzi a voi. Mia signora, mia meraviglia, non posso più vivere senza mirarvi, occhi miei. Soltanto mirarvi, ché se osassi sfiorarvi (a vostro marito è concesso), il mio amore non sarebbe più puro e perfetto, ma falso. Siamo vicini, mia stella, ma il vostro splendore vi rende lontana, oltre il cielo. Cercherò, con i miei versi, di colmare questa distanza, scala per il paradiso. Rivolgete a me i vostri occhi, mia signora. Parlatemi, dolce soffio. Io rimarrò immobile ad ascoltarvi, anima mia, perché, se soltanto battessi le ciglia, le invidiose malelingue mi calunnierebbero, voi scostereste il vostro sguardo da me, mio sole, e io appassirei come un fiore, fino a marcire e morire!”.

Questi, dunque, erano i temi principali della poesia provenzale: l’esaltazione della donna-signora-padrona; l’amante-vassallo sempre pronto a servirla; L'AMORE CORTESEla sua abbagliante bellezza, che la poneva a una distanza incolmabile, e i tentativi del poeta di ridurla il più possibile con la sua lirica; il culto quasi religioso dell’amore, che ingentilisce e nobilita l’animo del poeta, purificandolo da ogni viltà e rudezza; le sofferenze, i tormenti, ma anche la gioia, generati in lui da questo amore impossibile e mai appagato; la costante minaccia delle parole dei maldicenti, che avrebbero potuto danneggiare l’amante agli occhi della sua signora e, questa, agli occhi del marito. Alcuni trovatori, però, avevano molto meno ossequio e parlavano alle loro amate secondo motivi che, circa 650 anni dopo, sarebbero stati ripresi da quattro loro colleghi che cantavano in napoletano: gli Squallor.

“Bella signorona mia, voi non sapete cosa vi combinerei! Venite qua che vi faccio sentire l’aria di Provenza nella buatta. Poi vi porto a sceppare le more dietro a un cespuglio, alla facciaccia di quel pecorone di vostro marito che sta a casa ad allisciarsi le corna. Se solo vi metto un dito addosso, altro che distanza, non mi stacco più, come fa il purpo quando si azzecca allo scoglio”, e così via…

I diversi toni con cui i trovatori si rivolgevano alle donne erano dovuti ai vari modi di trobar (sempre senza la m!): il trobar rich (ricco), tutto preziosismi e virtuosismi, fiori e uccellini, cinguettii e melodie, capelli d’angelo e porporina dorata; il trobar clus (chiuso), oscuro ed ermetico, quasi come la combinazione di una cassaforte, conosciuta soltanto da chi l’aveva scritta, e, infine, il trobar leu (facile), vivace e spigliato, chiaro da leggere e recitare e, poiché destinato alle donne un po’ leu, il più fruttuoso. Nonostante l’amore irraggiungibile, infatti, di tanto in tanto, qualche contentino si riusciva ad averlo! 1413475223_10648532_10202693807654584_309076384955801870_oNumerosi erano, poi, i tipi di componimenti, con i quali i trovatori cercavano di guadagnarsi la “guardata” dalla signora: la canzone, il più usato; l’alba, per descrivere brevemente il risveglio dei due amanti; la serenata, di notte, sotto al balcone della dama, mentre questa si estasiava e il poeta, dal piano terra, ci dava dentro a cantare e suonare; la ballata, destinata, appunto, a essere ballata (dovevano saper fare di tutto!); il gioco delle parti e la tenzone, con i quali i trovatori litigavano tra loro su questioni d’amore; il pianto, per i funerali e le circostanze tristi in genere (l’amore è anche dolore!).

Alcuni trovatori famosi

Guglielmo IX, duca d’Aquitania, fu il primo trovatore del quale è stata conservata l’opera. Amante della bella vita, partecipò alla Prima Crociata, dove fece figure, per così dire, marroni. Fu più volte scomunicato dalla Chiesa perché, per gli standard del tempo, si divertiva troppo. BER7Scrisse componimenti chiamati versi, molto sensuali e goderecci.
Bernard de Ventadorn (foto a sinistra), casanova ante litteram, esaltò la sua passione per molte donne, tra cui, la più nota, fu Eleonora d’Aquitania, sua protettrice e madre di Riccardo Cuor di Leone, re d’Inghilterra. Cacciato costantemente dai castelli, da mariti gelosi e feriti nell’onore, compose canzoni colme di notizie sulla sua vita e sui suoi guai, esprimendo, con linguaggio semplice, passioni molto intense. Era uno che andava al sodo!
Bertrand de Born, signore di un piccolo feudo in Dordogna, condottiero avido e senza troppi scrupoli, combatté contro suo fratello e contro diversi re dell’epoca. Finì i suoi giorni in convento, come un povero sconsolato. Scrisse soprattutto sirventesi, sulle virtù cavalleresche e sulle gesta d’armi. Dante lo avrebbe incontrato all’Inferno, nel Canto XXVIII, tra i seminatori di discordia. Vagava, anima perduta, reggendo la sua testa in mano, come una lanterna.
Arnaut Daniel fu uno di quei trovatori che ideavano combinazioni per casseforti. Redasse canzoni per sperimentarne forme metriche e linguistiche, piùttosto che lodare la sua donna. Un tecnico, insomma!
Raimbaut de Vaqueiras, primo tra i trovatori di una certa fama a soggiornare in Italia settentrionale, presso diversi signori locali, mostrò molta curiosità per le parlate italiane, tanto da inserirle in alcune sue poesie. In un contrasto, Donna, tant vos ai preiada (Donna, tanto vi ho pregata) lui parla in provenzale e la sua donna risponde in dialetto genovese.

Questa stupenda epoca di poeti e dame, di amore e devozione, di canto e passione, finì bruscamente quando papa Innocenzo III promise tutta la ricchezza della Linguadoca e della Provenza all’esercito che fosse riuscito a sottometterne i principi e ad annientare i catari e la loro eresia. Era il 1209. Fu un anno terribile, che pose fine alla cultura provenzale, alla sua poesia e alla sua cortesia. Di lì a poco, i decreti della Santa Inquisizione avrebbero proibito di cantare, e, persino, di parlarne, le canzoni dei trovatori.

 

 

La corte, la dama e il narratore

Il romanzo cortese e Chretien di Troyes

 

 

 

 

L’epica e le canzoni di gesta, che propagandavano rigidi esempi di condotta morale da seguire (per saperne di più: “Dio, il re e il cavaliere. L’epica e le chansons de geste”), lasciarono presto il posto, nelle preferenze degli ascoltatori e dei lettori medievali, al romanzo cortese. Questa inedita e più stuzzicante forma letteraria fu ispirata da nuovi ideali, un po’ più concreti e che, soprattutto, badavano al sodo: la cortesia, le buone maniere, la gentilezza, l’amore e, novità delle novità, la possibilità di invitare una donzella a fare una cavalcata al chiaro di luna, con auspicata, e spesso annessa, sosta dietro a un cespuglio. il-romanzo-corteseAl diavolo la fede, i santi, i martiri, gli eroi che parevano statue in una chiesa. Via la perfezione e la bontà assoluta dell’epica, insomma, e giù con la passione, con le belle dame, con il piacere dei sensi, con la frenesia di acquattarsi in compagnia di una damigella nel primo recesso disponibile, con le tresche e con i tradimenti. Ma non solo. Rispetto e deferenza, quasi sacrali, erano tributati alle donne, che diventarono, addirittura, vere e proprie padrone dei loro amanti, avendo, con le parole, devozione mai letta prima che, invece, nella vita quotidiana dell’epoca, continuava a non esistere affatto. Esse, almeno tra le pagine di questi romanzi, poterono uscire dalle stanze domestiche, dove erano confinate, e cominciare ad assaporare i piaceri della vita e dell’amore. I loro mariti, sempre sordi ai bisogni delle consorti, fossero re o dignitari, signori o poveracci, divennero cornuti, per colpa del galante damerino di turno. Perfino i cavalieri mutarono i loro comportamenti e le loro azioni. Seducenti e affascinanti, aitanti e impavidi, si rendevano protagonisti di strabilianti avventure e rischiosissime imprese, in lande magiche e fantastiche, spesso compiute per amore della dama che ne attendeva, trepidante di passione, il ritorno, o come pegno d’amore, o, ancora, per espiare peccatucci carnali, commessi tra le lenzuola di qualche aristocratica alcova.6385414 Differentemente dagli eroi dell’epica, essi avevano la concreta possibilità di decidere del proprio destino. Erano molto più “uomini”, con tutte le loro debolezze e, soprattutto, con la necessità di redimersi, che santi. Esempi, insomma, non proprio da imitare. Si cominciò con quei romanzi i cui contenuti erano tratti da storie vere o inventate, già conosciute nel mondo antico: il Roman d’Eneas, che scopiazzava l’Eneide di Virgilio; il Roman de Thèbes che somigliava troppo alla Tebaide di Stazio; il Roman de Troie, sulla famosa città del cavallo, e il Roman d’Alexandre, l’Alessandro di Macedonia. I più bei romanzi cortesi, tutti in lingua d’oil e, almeno fino al XIII secolo, in versi, non in prosa, furono composti alla corte di Maria di Champagne, nella Francia settentrionale, dove si gozzovigliava e beveva tutto il giorno, essendovi a disposizione, gratis, quel ben di dio con le bollicine (questa è una mia licenza letteraria. Lo Champagne, infatti, è stato “inventato” dall’abate benedettino Dom Pierre Pérignon intorno al 1680 e ha preso il nome dalla regione francese nella quale fu prodotto per la prima volta). poesia_cortese_comunale_nel_testo_04Questi favoleggiavano di re Artù, di Ginevra e Lancillotto, di Mago Merlino e Fata Morgana, di Tristano e Isotta, di Parsifal e di Ivano. Il romanzo, uno dei principali generi della narrativa in prosa, deriva il suo nome da romanz, adattamento, in francese antico, dell’avverbio latino romanice, che significa, alla romana. Sono più chiaro. Quei primi romanzi erano scritti in oitano, lingua derivante dal latino (la lingua romana). Analizziamo i titoli che ho elencato qualche rigo fa. Questi, in origine, sarebbero suonati pressappoco così: Eneas romanz, Enea alla romana (nella lingua romana) → Romanzo di Enea), Thèbes romanz, Tebe alla romana (nella lingua romana) → Romanzo di Tebe; Troie romanz, Troia alla romana – non è una specialità erotica capitolina! – (nella lingua romana) → Romanzo di Troia) e Alexandre romanz, Alessandro alla romana (in lingua romana) → Romanzo di Alessandro. La denominazione cortese, invece, trae origine dal fatto che questi romanzi erano scritti, letti e recitati a corte, erano romanzi di corte, proprio come quella della contessa Maria. Il significato moderno dell’aggettivo cortese consegue, piuttosto, dalla definizione d’insieme delle virtù positive dei protagonisti di questi romanzi. Una persona cortese, infatti, oggi, mostra i medesimi modi e comportamenti di molti dei quei famosi personaggi letterari.

Chretien di Troyes

Il più bravo romanziere che tutto il Medioevo ricordi fu Chretien di Troyes. Ospite graditissimo di Maria, istallatosi, in pianta stabile, alla corte di Champagne, scrisse diversi romanzi, che dilettarono la padrona di casa, anzi, di castello, le sue dame, le cortigiane, le cameriere e perfino le sguattere. Pare che queste, proverbialmente curiose, di nascosto, origliassero dietro la porta della sua stanza, mentre lui rileggeva le sue composizioni ad alta voce. Dilettiamoci un po’ anche noi, allora.

Chrétien_de_TroyesChretien de Troyes

Lancillotto o il cavaliere della carretta

Il perfido principe Malagant aveva rapito la regina Ginevra e alcuni abitanti del regno di re Artù. Per liberarli, un cavaliere si sarebbe dovuto battere con lui e vincere. Galvano e Lancillotto partirono immediatamente alla ricerca di Malagant, ma per strade diverse. Il primo, attraversò il terribile Ponte Sommerso e, per poco, non annegava. Lancillotto, invece, sulla sua carretta, varcò il pericoloso Ponte della Spada. IMG212Giunto nel palazzo dove Malagant teneva prigioniera Ginevra, per prima cosa, alla faccia di Artù e dei valori cortesi, approfittò della situazione con la compiacenza della regina. I gemiti della donna, però, lo fecero scoprire, catturare e rinchiudere in una torre. Per fortuna, una dama, invaghitasi di lui, lo liberò. Lancillotto poté affrontare Malagant, lo uccise e, molto allegramente, riprese così, insieme con Ginevra, a far crescere le comodità in testa ad Artù. Maria di Champagne in persona incoraggiò questo tradimento letterario, non riscontrato nelle versioni precedenti della storia di questo celeberrimo cavaliere. L’Autore, infatti, fu costretto a “mantenere la candela” a Lancillotto e Ginevra, proprio per compiacere la malizia della sua protettrice.

Cliges

L’imperatore di Costantinopoli aveva due figli: Alis e Alessandro. Quest’ultimo, più ambizioso del fratello, lasciò la sua terra per l’Inghilterra. Desiderava diventare cavaliere alla corte di re Artù. A Camelot si innamorò di Soredamor, damigella della regina Ginevra. I due, presto, si sposarono e, avuto un bimbo, Cliges, tornarono a Costantinopoli. Morti Alessandro e Soredamor, il giovane figlio servì lo zio, 9788420606194nuovo imperatore, e sua moglie, Fenice, una donna tutta sale, pepe e peperoncino. Non passò molto tempo che la sovrana si invaghì, ricambiata, del nipote. Grazie a un filtro magico, fatto bere al marito, che cadeva addormentato, credendo, invece, di stare sveglio a sollazzarsi con la bella consorte, questa se la spassava, tutte le notti appassionatamente, col suo amante, fino al giorno in cui i due spasimanti organizzarono una fuga d’amore. Qualcosa, sfortunatamente, non funzionò a dovere perché un servo scoprì tutto. Alis si precipitò all’inseguimento e, misero, morì durante la corsa (cornuto e mazziato!). Cliges e Fenice tornarono, così, a Costantinopoli, dove regnarono e si amarono felici e contenti. Da allora, però, gli imperatori che succedettero presero l’abitudine di controllare le proprie mogli, per non fare la fine di Alis, forse non mazziati, ma, certamente, cornuti.

Ivano o il cavaliere del leone

Ivano, per vendicare il torto subìto da un amico, aveva ucciso il signore di un feudo. La moglie del defunto, per il dispiacere, stava per togliersi la vita sennonché, una sua dama le consigliò di sposare proprio Ivano, ignorando che fosse stato lui ad ammazzarle il marito. YVainIl matrimonio fu presto celebrato, con un’unica clausola: il novello sposo non le sarebbe dovuto stare lontano dalla consorte per più di un anno. Appena terminato il banchetto di nozze, il compagno Galvano portò Ivano via con sé, in giro per giostre e tornei. Trascorse un anno e qualcosa di più. Durante uno di quei viaggi, il valoroso cavaliere salvò salvato la vita a un leone e, per mostrare la sua forza e il suo coraggio, se lo portava dietro, al guinzaglio, spaventando chiunque incontrasse. Tornato finalmente a casa, fu accusato di tradimento dalla moglie. Si inginocchiò e la implorò di perdonarlo. La donna, fatti due conti, lo riaccolse a braccia aperte. Sarebbe stato meglio, per lei, infatti, non perdere anche il secondo marito!

Parsifal o il racconto del Graal

Se questo romanzo fosse stato pubblicato in questi anni, in libreria, lo avremmo trovato sullo scaffale accanto al Codice Da Vinci e a tutti gli altri libri nei quali compare un oggetto misterioso, dal nome rimbombante: il Santo Graal. Nell’opera di Chretien, il Graal sembra essere una coppa o, comunque, un contenitore, non certo la progenie di Gesù Cristo, come ha forse esagerato Dan Brown. Parsifal, chiamato anche Parceval, era un giovanotto di buonissima famiglia. Perceval-ChretienLa madre, per evitargli la medesima sorte occorsa al padre e al fratello, morti in battaglia, lo aveva nascosto, fin da bambino, nella Guasta Foresta. Tra folti alberi e animali feroci, crebbe sì coraggioso, ma anche rozzo, ignorante e senza alcuna cortesia. Un giorno, un manipolo di cavalieri attraversò la foresta. Parsifal, che aveva sempre desiderato essere come loro, non si fece pregare troppo e li seguì, abbandonando sua madre. La povera donna morì di crepacuore. Non appena investito cavaliere alla corte di Artù, lasciò Camelot per il suo viaggio iniziatico, raggiungendo, dopo tante peripezie, il Castello del Graal. Qui viveva il Re Pescatore il quale, zoppo, trascorreva le sue giornate seduto, a pescare. Proprio in quel magico castello assistette a una strana processione, dove vide, per la prima volta, la famosa coppa, tutta d’oro lucentissimo e pietre preziose. Ma era stato soltanto un sogno, forse premonitore. Il giovane cavaliere, allora, partì immediatamente alla ricerca del sacro calice. Riuscì a trovarlo? Non lo sapremo mai. Chretien, purtroppo, morì prima di poter romanzare la risposta in versi a questa nostra domanda. 

 

 

 

 

Dio, il re e il cavaliere

L’epica medievale e le chansons de geste

 

di

Riccardo Piroddi

 

 

Mentre la Letteratura Italiana sonnecchiava ancora a letto, raggomitolata tra le coperte, quelle nelle altre due lingue più simili all’italiano, la francese e la spagnola, si erano già alzate, lavate, vestite e stavano facendo colazione con pane, burro, marmellata e un cappuccino bollente. I francesi e gli spagnoli, a partire dall’XI secolo, cominciarono a produrre opere letterarie di altissimo livello: in Spagna e Francia settentrionale, le cosiddette Chansons de geste (canzoni di gesta) e i romanzi cortesi; in Francia meridionale, invece, la splendida poesia, soprattutto amorosa, dei trovatori. Non che gli spagnoli e i francesi del nord fossero meno galanti con le donne, che gli piacesse di più fare la guerra o che portassero i pantaloni più lunghi dei provenzali, ma, condizioni storiche e linguistiche diverse tra queste regioni, causarono lo sviluppo di generi letterari diversi. carlomagnoNella Francia settentrionale, fin dal V secolo, c’erano stati i Franchi la cui presenza aveva prodotto effetti anche sul francese antico. A Sud, al contrario, le popolazioni locali avevano interagito poco con gli invasori e con la loro lingua. Accadde, quindi, che, col tempo, si formassero due lingue, sempre francesi, ma un po’ diverse tra loro: la lingua d’oil, o oitano, a nord, e la lingua d’oc, o occitano, a sud. Queste erano chiamate lingue del sì perché, se un cavaliere avesse chiesto a una principessa di Parigi di uscire con lui, lei gli avrebbe risposto oil, cioè sì. Se a chiederlo fosse stato un cavaliere di Montpellier alla dama vicina di castello, questa gli avrebbe risposto oc, cioè, sempre sì. Se glielo avessi chiesto io, tutt’e due mi avrebbero risposto no e basta, e, siccome non so come si dice “no e basta” in oitano e in occitano, lasciamo perdere e andiamo avanti. Per quanto riguarda la penisola Iberica, gli arabi che vi erano giunti agli inizi dell’VIII secolo, non avevano creati troppi stravolgimenti alla lingua degli abitanti di quelle terre, se non l’introduzione di parole nuove e qualche cambio di accento nella pronuncia di quelle in uso. Roba da poco, quindi.Song-of-Roland-778

Le chansons de geste, scritte in lingua d’oil in Francia settentrionale, erano poemi epici in versi, detti canzoni perché i giullari (che non erano soltanto rozzi comici, saltimbanchi o clown, come spesso sono raffigurati, ma dei veri e propri lettori Mp3 umani, istruiti e colti), girovagando per le piazze delle città e per i castelli, narravano, cantando, spesso accompagnati da un’orchestrina, viella, lira, flauto, tamburelli e campane, storie che impressionavano e appassionavano molto nobili e popolani. Dalla viva voce di un giullare si potevano ascoltare le avventure e le gesta di re, paladini, cavalieri e uomini coraggiosissimi; pericoli, disastri, fortune e sfortune; fughe, tradimenti e morti ammazzati; teste che saltavano dai colli e fiotti di sangue che schizzavano da tutte le parti; guerre e battaglie, combattute in casa e in trasferta, contro infedeli, feudatari rivali e nemici di ogni genere. Quando, poi, quegli stessi giullari, o i monaci, oppure altri volenterosi, cominciarono a mettere quei racconti cantati per iscritto, ordinandoli per argomenti (i cosiddetti cicli carolingio e bretone o arturiano) e personaggi, furono così gentili da permetterci, ancora oggi, di poterli leggere.

La Chanson de Roland 

Il poema epico più famoso di tutti, la cui materia sarebbe stata ripresa anche in Italia da Matteo Maria Boiardo e da Ludovico Ariosto, è la Chanson de Roland. Questa canzone, appartenente al ciclo carolingio, fu composta, intorno al 1100, da un certo Turoldo. Conosciamo il suo nome perché, all’ultima pagina, lui stesso mise la firma, concludendo così: “La gesta scritta qui da Turoldo ha fine”. L’autore prese spunto da un fatto realmente accaduto: la battaglia di Roncisvalle, combattuta il 15 agosto del 778. Mort_de_RolandLa retroguardia dell’esercito di Carlo Magno, comandata dal paladino Rolando, fu attaccata e annientata dai baschi, alleati dei saraceni. Turoldo amplia questo episodio, raccontando una lunghissima storia. Re Carlo combatteva vittoriosamente i mori in Spagna. Soltanto la città di Saragozza gli resisteva e non gli si voleva arrendere in nessun modo. Il re saraceno Marsilio mandò i suoi ambasciatori da Carlo, giurandogli di volersi convertire al Cristianesimo e di diventare suo vassallo. Era solo un inganno. Rolando, più furbo di tutti, capì il trucco e suggerì al suo sovrano di ignorare le proposte del nemico, continuando, piuttosto, a combatterlo, fino alla presa definitiva di Saragozza. L’infame conte Gano, tanto invidioso di Rolando da non vedere l’ora di farlo fuori, si oppose e, con lui, la maggior parte del Consiglio di guerra. Su proposta di Rolando, quindi, proprio Gano fu inviato al campo dei mori per trattare, con il loro re, le pesantissime condizioni di resa imposte da Carlo. Mentre vi si dirigeva, pensò di tradire il suo re e, in un colpo solo, di eliminare anche Rolando. Il perfido conte propose a Marsilio di far finta di accettare quanto ordinato dal re cristiano. Così fu fatto. Carlo Magno e il suo esercito abbandonarono la città, lasciandosi alle spalle la sola retroguardia, capitanata da Rolando, con i Dodici Pari e 20.000 soldati. Quando il grosso delle truppe aveva già oltrepassato la gola di Roncisvalle, Marsilio tese l’agguato al valoroso paladino e ai suoi uomini. Rolando, nonostante la malaparata, si rifiutò di suonare l’olifante, il corno il cui suono avrebbe richiamato Carlo e il resto dell’esercito. Fece, pertanto, la fine del topo in trappola, morendo con le mani giunte sul petto, come un buon cristiano. Il re franco, comunque, tornò indietro in tempo per sbaragliare i mori, disperderli e inseguirli fino a che tutti si gettassero nel fiume Ebro, annegando. Tornato ad Aquisgrana, processò il lurido Gano, ordinando che fosse legato a quattro cavalli, due alle gambe e due alle braccia. Il traditore fu squartato. Rolando era stato vendicato. Molto tempo dopo, quando Carlo aveva più di duecento anni, una notte gli apparve in sogno l’Arcangelo Gabriele. chanson-roland-roncevauxQuesti gli annunziò l’immediata partenza per Infa, dove avrebbe dovuto aiutare il re Viviano a combattere altri mori. Così finì la storia. Turoldo, come è chiaro, aggiunse molti elementi fantasiosi alla realtà dei fatti. Questo perché egli doveva, non soltanto intrattenere chi lo ascoltasse, ma, soprattutto, mostrare loro esempi retti da seguire.  Gli eroi di queste canzoni di gesta erano un po’ come i personaggi della televisione di oggi: tutti volevano e, soprattutto, dovevano essere come loro. Le canzoni di gesta erano caratterizzate dalla presenza e dalla messa in onda di precisi valori: la lealtà verso il sovrano, la fede in Cristo, il senso dell’onore e l’eroismo in battaglia. Tutto racchiuso in un ineluttabile destino, scritto da sempre, che non lasciava ai protagonisti alcuna possibilità di azione personale: o erano e agivano in quel modo, oppure, avrebbero dovuto fare i bagagli e trasferirsi in qualche altro tipo di opera. O mangi ‘sta minestra, o ti butti dalla finestra, in sostanza! In un’epoca dominata esclusivamente dal Cristianesimo e dalla sua morale, questi erano i messaggi pubblicitari che le emittenti cartacee diffondevano via manoscritto: i re dovevano sembrare più o meno come Gesù; i paladini, sempre dodici, gli apostoli; non mancava mai il Giuda di turno; i morti in battaglia erano tutti martiri e quelli più importanti, santi; ogni combattimento diventava una vera e propria guerra santa; pentimenti finali e conversioni al Cristianesimo, l’epilogo necessario. Era come leggere il Vangelo e gli Atti degli Apostoli con i nomi dei protagonisti sostituiti. Altri poemi del ciclo carolingio sono la Chanson de Guillaume, dedicata alla saga di Guglielmo d’Orange e della sua famiglia, a salire e a scendere, cioè, prima e dopo di lui; il Renaut de Montauban; il Girart de Roussillon e il Pelérinage Charlemagne. Un posto particolare occupano le canzoni di Crociata, nelle si esaltavano le gesta dei cavalieri occidentali nelle guerre per liberare il Santo Sepolcro, a Gerusalemme: la Chanson d’Antioche e Le Chevalier au cygne (il Cavaliere del cigno), quel Goffredo di Buglione, comandante dell’esercito cristiano nella Prima Crociata. Di tutte queste, però, non vi racconto le trame altrimenti, se state leggendo di pomeriggio, fate notte, se, invece, è già sera, fate mattina.

Il Cantar de mio Cid

Giusto per rimanere nell’epica, c’è un altro poema, non in Francia, ma in Spagna, di cui vi voglio parlare: il Cantar de mio Cid. Vi sono narrate le imprese eroiche di Roderigo Diaz de Bivar, altrimenti detto El Cid Campeador, vissuto tra il 1043 e il 1099. La storia, o meglio, la canzone, prende avvio quando Roderigo fu accusato di aver sgraffignato una parte dei tributi che il re dei mori di Andalusia doveva ad Alfonso VI di León. Per questo, fu mandato in esilio. Lasciò la moglie Jimena e le figlie nel monastero di Cardeña, per paura che qualcuno potesse insidiarle, e, alla testa di molti altri cavalieri, si mise a far la guerra ai mori. Conquistò Valencia e cacciò il re di Siviglia, ottenendo, alla fine, il perdono del re. Per dimostrargli ulteriore gratitudine, il sovrano benedisse il matrimonio delle sue due figlie, Elvira e Sol, con i conti di Carrión.22 Questi due perdigiorno, però, ogniqualvolta c’era da andare a combattere se la prendevano con le mogli, frustandole e, poi, squagliandosela. Il Cid, stanco delle angherie subite dalle figlie, chiese giustizia a re Alfonso che inviò i suoi soldati ad ammazzare quei due mariti violenti. Le giovani si risposarono, una col figlio del re di Navarra, l’altra con quello del re d’Aragona, Tutti furono invitati ai due matrimoni e il povero Cid Campeador, eroe di tante battaglie, dovette chiedere un prestito in banca per pagare le ingentissime spese, perché, allora, le spese del banchetto nuziale e dei musici erano a carico del padre della sposa. Anche questo poema, tra i primissimi documenti della letteratura spagnola, celebrava quei valori comuni a tutta l’epica: la fede in Dio, la devozione al proprio re, la lotta agli infedeli, l’onore e l’eroismo. Due piccoli tip linguistici sull’appellativo di Roderigo Diaz: Cid deriva dalla parola araba sayyd, che vuol dire signore; Campeador, invece, è di provenienza latina, da campi doctor, maestro, o anche campione, sul campo di battaglia. Esempi di parole arabe e latine entrate in uso, ovviamente adattandosi, nella lingua spagnola, così come, casi lessicologici analoghi, sono presenti in tutte le lingue dei territori dominati, fino a qualche secolo prima, dall’aquila di Roma.

 

 

E le stelle restarono a guardare?

 

 

La letteratura in latino dall’età tardo-antica all’alto Medioevo

 

 

Mi è capitato, non ricordo dove e nemmeno chi sia stato l’ideatore di questa bellissima metafora, di aver letto che il Medioevo è stato sì una notte, ma piena di stelle. In effetti, dalla caduta dell’Impero Romano fino almeno agli inizi dell’XI secolo, l’Europa non conobbe un periodo felice. Sembrava come se gli abitanti del mondo allora conosciuto, con le loro paure, i loro affanni quotidiani, la loro fame e sete, le loro malattie e i loro pochissimi momenti di gioia, fossero quasi scomparsi, per riapparire dopo circa quattrocento anni. Ma, allora, cosa accadde, almeno in campo culturale, tra il VI ed il X secolo dell’era Cristiana? E chi furono le stelle che, seppure debolmente, illuminarono quella notte? 330px-GiorcesBardo42Modifichiamo giusto un pochino la metafora, rimanendo, però, sempre nell’ambito della luce, e diciamo che il mondo romano portò in dote al Medioevo degli ottimi oli per caricare lampade e rischiarare la notte. Al primo posto di questa particolare classifica si piazzò Publio Virgilio Marone (immagine a sinistra). L’autore dell’Eneide, delle Bucoliche e delle  Georgiche fu considerato grandissimo poeta, immagine di civiltà, maestro di stile e, soprattutto, profeta del Cristianesimo perché, nell’Ecloga IV, predisse la nascita di un puer, un fanciullo che avrebbe annunciato una nuova Età dell’Oro, nascita che fu scambiata per quella di Cristo (la fortuna dei malintesi!). o-OVIDIO-facebookAl secondo posto, Publio Ovidio Nasone, poeta e scrittore, le cui opere  furono  messe  al  bando  dall’imperatore  Augusto  in persona perché giudicate troppo spinte (vorrei fargli leggere i libri di Melissa P. e vedere come reagirebbe questo Augusto!). Ovidio (immagine a destra) scrisse un’Ars Amatoria, nella quale raccontò le raffinate passioni sessuali dei cortigiani di Augusto (non sapeva proprio dove andare a ficcarlo il suo nasone!); le Heroides, ventuno lettere infuocate spedite da eroine della mitologia ai loro amanti, e Le Metamorfosi, opera che trasferì al Medioevo una grande quantità di notizie su dèi, dee, mezzi dèi, mezze dee e poveri cristi. Al terzo posto, a pari merito, Quinto Orazio Flacco, autore di Satire sui più comuni vizi umani: l’ambizione, l’avidità di ricchezza e il desiderio di fare presto carriera, e Marco Anneo Lucano, il narratore della Farsaglia, con cui rese conto della guerra civile tra Cesare e Pompeo, schiettamente, in modo fedele alla storia, senza favolette e trucchetti degli dèi, da qualche altro autore fatti scendere dall’Olimpo, sulla Terra, per farsi gli affari degli uomini. Al quarto posto, Publio Papinio Stazio, che in 12 anni di lavoro scrisse i 12 libri della Tebaide, uno all’anno, illustrando la guerra tra Eteocle e Polinice, mitici figli di Edipo e Gioacasta, e re di Tebe ad intervalli di un anno ciascuno. ciceroneE infine, last but not least, come dicono gli inglesi, Publio Terenzio Afro, autore di commedie, tanto per ridere un po’. Piazzamenti d’onore spettarono, poi, a Marco Tullio Cicerone (immagine a sinistra), maestro insuperabile di retorica, di stile e di cazziatoni etici e morali a destra e a sinistra, e a Lucio Anneo  Seneca,  precettore  e  consigliere  di  Nerone  (con scarsissimi risultati, se si tengono a mente i macelli che combinò, poi, l’imperatore), autore di opere filosofiche, scientifiche e di tragedie teatrali, il cui pensiero fu considerato integralmente cristiano perché qualcuno mise in giro la voce che si scambiasse lettere addirittura con San Paolo. Ammazza! E, a proposito di santi, non si possono non citare Sant’Agostino, vescovo di Ippona, filosofo, martello degli eretici, padre e dottore della Chiesa, e San Girolamo, anch’gli padre (figlio e spirito santo, amen!) e dottore della Chiesa, scrittore e studioso della Bibbia così bravo che, per la prima volta nella storia, la tradusse tutta quanta in latino.

scriptorium

Sant’Agostino

Aurelio Agostino, in quasi quarant’anni di vita, da quando, cioè, smise di godersela come un balordo, fino a poco prima della morte, sopraggiunta nel 430 dopo Cristo, scrisse opere importantissime per l’avvenire del Cristianesimo e della Chiesa: agostinoLa vita felice (questa, forse, non troppo importante), I soliloqui, L’immortalità dell’anima, Il libero arbitrio, Le Confessioni, La dottrina Cristiana, Contro i Manichei, Contro i Donatisti, Contro Pelagio, La Città di  Dio  e le  Ritrattazioni,  giusto  se,  casomai,  avesse  tralasciato qualcosa o scritto qualche stupidaggine. Cercò di avvicinare la filosofia platonica e neoplatonica al Cristianesimo, si impegnò, in prima persona, con prediche, scritti e pure qualche spiata, contro gli eretici e contro le eresie, che stavano lacerando la Chiesa delle origini. Formulò dottrine universali sul peccato originale, sulla grazia divina, sulla predestinazione e sul libero arbitrio. Anche se in gioventù non fu proprio uno stinco di santo, la Chiesa ce lo fece lo stesso e lo festeggia ogni 28 agosto.

San Girolamo

Sofronio Eusebio Girolamo, al contrario di Gesù Cristo che vi nacque, a Betlemme, dove aveva fondato tre o quattro conventi, ci morì, nel 420. Parlava correntemente latino, greco ed ebraico, lingue che gli furono molto utili quando decise di tradurre la Bibbia in latino, intitolandola, poi, Vulgata, dall’espressione vulgata editio, vale a dire, edizione per il popolo. Fu una grande trovata editoriale che vendette tantissime copie, divenendo, in brevissimo tempo, un best seller per soli ricchi, però. biblia-vulgataUna copia manoscritta della Vulgata, infatti, specialmente se miniata e glossata da qualche commentatore alla moda, almeno fino all’invenzione della stampa, nel XV secolo, costava quasi mezzo feudo. Girolamo aveva un caratteraccio e litigava in continuazione con “chicche e sia”, fossero questi sprovveduti, dotti, santi o peccatori, ma, in fondo in fondo, voleva bene a tutti, soprattutto alla gente comune. Per questo, elaborò una versione del massimo Testo Sacro cristiano facile da capire, usando, non la lingua dei letterati, ma quella di chi non aveva mai aperto un libro. Tradusse l’Antico Testamento dall’ebraico e il Nuovo dal greco, anche se, diciamo la verità, fece un po’ il furbo perché, in alcuni punti, rivide e corresse antiche traduzioni. La Chiesa, comunque, glielo perdonò e decretò di festeggiarlo ogni 9 maggio. Con Agostino e Girolamo può dirsi chiusa la cosiddetta età tardo-antica. Il sole che aveva dato luce al mondo classico tramontò e scese la notte, ma, in cielo, cominciarono a sorgere le prime stelle: Boezio e Cassiodoro.

Boezio

Se c’è stato uno sfigato come pochi, nella storia della cultura occidentale, bene, questi è Boezio. Un uomo che conobbe il successo personale più grande ma anche, e soprattutto, la miseria più nera. Anicio Manlio Severino Boezio nacque a Roma, intorno al 480, da una illustrissima famiglia, la gens Anicia. Sin da subito, la sua vita fu una collezione di guai e disgrazie. Neppure fanciullo, passò il primo guaio: il padre morì e fu affidato a un tutore, Aurelio Simmaco, di cui, poi, sposò la figlia, Rusticana, il secondo guaio, perché era una donna che non stava mai zitta e parlava, parlava, parlava, parlava. Parlava e ancora parlava! Quando il re degli Ostrogoti, Teodorico, conquistò l’Italia e si stabilì, con tutta la corte, a Ravenna, vi chiamò molti nobili di Roma, tra cui Boezio. Lì, fece una carriera brillantissima: fu eletto console e, poi, Magister officiorum, la più alta carica dello Stato. BoethiusCon una buona raccomandazione (le cose, in Italia, funzionavano così già 1500 anni fa!), fece eleggere consoli anche i due figli, Flavio Simmaco e Flavio Boezio. Tutto questo successo, personale e familiare, però, fu anche la sua rovina (il Signore dà e il Signore prende!), perché si tirò addosso l’invidia dei colleghi. In seguito a una soffiata, piena di falsità, infamità e bugie, fu accusato di ordire trame contro Teodorico. Il re ci credette, lo fece rinchiudere in carcere a Pavia e decapitare, dopo che gli furono strappati pure gli occhi. Capito un po’? Nel corso della vita, il nostro sfortunato romano scrisse molte cose. Tuttavia, il progetto a cui si impegnò di più fu la traduzione di tutte le opere di Platone e Aristotele, per dimostrare al mondo che, sotto sotto, i due famosissimi filosofi avevano detto quasi le stesse cose. Purtroppo, però, causa disgrazie, riuscì a tradurre soltanto parte degli scritti di logica di Aristotele e l’Isagoge di Porfirio. E, pure in quest’ultimo caso, la combinò grossa: alcuni passi del trattatello di questo discepolo del filosofo neoplatonico Plotino, infatti, qualche secolo dopo, avrebbero dato origine alla famosissima Disputa sugli universali, nel corso della quale il fior fiore dei filosofi, dei professori e degli uomini di cultura del Basso Medioevo avrebbero litigato a male parole e a librate! L’opera che gli permise di diventare uno degli autori più letti di tutto il Medioevo, e non solo, fu il De consolatione Philosophiae (La consolazione della Filosofia), scritta durante i due anni in galera. Una donna un po’ anziana, la Filosofia, apparve all’autore nella sua fredda cella con le pareti fradice: “Ma, dico io,” rimuginò, “non mi si poteva parare davanti una bella attrice, tipo Sharon Stone?”. L’attempata signora, per consolarlo, perché era proprio giù di morale, gli rammentò che lui non fosse l’unico disgraziato a passare tutti quei guai. Anzi, gli disse: “Uno più è sapiente, più sono sventure e malesorti!”. Il poveretto, allora, le elencò tutti i suoi guai e dolori vari, commuovendola così tanto, da farla scoppiare a piangere. Quando smise, riuscì soltanto a rispondergli: “Mio caro, povero Boezio, la vera felicità non è contenuta nell’avere soldi, potere, dieci cameriere, un garage pieno di macchine fuoriserie e un fusto di birra il cui rubinetto spilla all’infinito! La vera felicità coincide con Dio, verso cui bisogna tendere, se si vuole essere veramente felici!”. “Ma questa ci è venuta o ce l’hanno mandata?”, borbottò, tra i denti, il miserabile. Poi, le chiese: “Scusate, signora. Come mai, allora, le cose buone vanno sempre ai cattivi e agli imbroglioni e le persone perbene come me rimangono con i manici delle scope in mano?”.  “Quelli non sono veri beni”, rispose, “e le disgrazie sono utili per la salvezza della tua anima.” “L’anima tua e della tua consolazione, Filosofì!”, pensò.

Cassiodoro

Una sorte decisamente migliore perché, almeno, morì nel suo letto, toccò a Cassiodoro. Flavio Magno Aurelio Cassiodoro Senatore (finalmente abbiamo finito col nome!) nacque a Squillace, in Calabria, nel 490. Il suo casato, prestigiosissimo e onoratissimo, era imparentato con quello di Boezio. Anche all’epoca, si faceva tutto in famiglia e, alla corte di Teodorico, lo sostituì come Magister officiorum. Cassiodoro fu più furbo del suo parente. Gesta_Theodorici_-_Flavius_Magnus_Aurelius_Cassiodorus_(c_485_-_c_580)Per accattivarsi le simpatie di re Teodorico, gli dedicò l’Historia Gothica (Storia dei Goti), dove ripeté tante volte che il sovrano ostrogoto era il migliore del mondo e che gli Ostrogoti erano i barbari meno barbari di tutti. Ritiratosi dalla vita politica con una buonissima pensione, raccolse tutti i documenti, elaborati durante i suoi uffici a corte, pubblicandoli in un libro, intitolato Variae, a causa dei vari argomenti che conteneva. Scrisse anche le Institutiones divinarum et saecularium litterarum (Istituzioni delle lettere sacre e profane), una dottissima introduzione allo studio delle Sacre Scritture e delle arti liberali, molto letta nei secoli successivi. Fondò pure un monastero, a Vivario, non lontano da casa e, all’età di 92 anni, invece di mettersi definitivamente a riposo, scrisse il trattato De orthographia (L’ortografia) per evitare che i monaci, mentre trascrivevano manoscritti e  codici antichi nello scriptorium del suo convento, copiassero una cosa per un’altra.

Isidoro di Siviglia

Spostiamoci un attimo in Spagna per conoscere un altro grand’uomo di questo periodo: Isidoro di Siviglia. downloadNato verso il 560, proveniva da una famiglia di bravissime persone: i tre fratelli, Leandro, Fulgenzio e Fiorentina, furono tutti beatificati e lui, fu fatto addirittura santo. Si dice anche che egli stesso convertì al Cristianesimo i Visigoti conquistatori della Spagna. Fu vescovo di Siviglia e scrisse opere di storia, di grammatica e anche un’enciclopedia. Nel suo capolavoro, le Etymologiae, in venti libri, riunì tutte le conoscenze del suo tempo, prendendo spunto dall’origine delle parole. A lui, infatti, si deve il motto secondo cui “nomina (e cognomina, aggiungo io) consequentia rerum sunt” (i nomi sono conseguenza delle cose), per cui, chi si chiama Rosa, dev’essere bella come il fiore, chi si chiama Serena, dev’essere calma e tranquilla, chi Orso, un po’ animalesco, chi per cognome ha Bassi, forse non sarà tanto alto, e chi Casini, o è un pasticcione o va con le donne di malaffare.

 

 

 

Icone della Via Christi nella chiesa
di Santa Maria Maggiore in Bussolengo

 

 

di Carmela Puntillo

 

 

Dal 2017, nell’ala nuova della chiesa di Santa Maria Maggiore in Bussolengo è stata allestita una “Via Christi”, una serie di icone che ricordano momenti salienti della vita di Gesù, anche oltre gli episodi della sua passione e morte. Con l’idea di realizzare una moderna “Via Crucis” si è voluto portare un certo numero di “rappresentazioni della fede” e di “colori dello Spirito” nella navata moderna, in un percorso che ora si snoda più armoniosamente nelle due costruzioni, cercando di creare un legame…

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