Archivio mensile:Settembre 2024

Voltaire sferza Rousseau

L’ironia dell’Illuminismo contro i sogni del “selvaggio”

 

 

 

 

Voltaire (François-Marie Arouet) e Jean-Jacques Rousseau sono stati due dei più grandi pensatori dell’Illuminismo francese, ma le loro visioni del mondo e della società si contrapponevano in modo netto. Questo dissenso intellettuale sfociò in diverse prese in giro da parte di Voltaire nei confronti del sistema filosofico di Rousseau, con un tono spesso satirico e pungente.
Rousseau sosteneva una visione romantica della natura umana e della società. Nei suoi scritti principali, come Il contratto sociale e Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini, esprimeva l’idea che l’uomo fosse naturalmente buono, ma corrotto dalla società. Egli immaginava uno “stato di natura” in cui l’uomo viveva libero, in armonia con sé stesso e con gli altri, prima di essere incatenato dalle convenzioni sociali e politiche moderne.
Voltaire, dall’altro lato, era un convinto sostenitore del progresso civile, della scienza e della ragione. Non vedeva l’uomo “naturale” come idealizzato da Rousseau e, anzi, sosteneva che il progresso della civiltà fosse essenziale per il miglioramento delle condizioni umane. Questo scontro tra la visione idealista di Rousseau e quella pragmatica di Voltaire costituiva la base delle loro divergenze.
Voltaire, maestro dell’ironia, non risparmiò Rousseau da commenti sarcastici e battute velenose. Le sue critiche più celebri si concentrano soprattutto sull’idea dello “stato di natura” e sulla visione utopistica di una società primitiva.

In una famosa lettera, scritta nel 1755, dopo aver letto il Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza, Voltaire ironizzò dicendo: “Signore, ho ricevuto il vostro nuovo libro contro il genere umano e ve ne ringrazio. Piacerete agli uomini cui dite le verità che li riguardano, senza peraltro correggerli. Vi rappresentate con colori molto persuasivi gli orrori della società umana, la cui ignoranza e debolezza si ripromettono tante delizie. Nessuno ha mai impiegato tanto ingegno per farci diventare bestie. A leggere il vostro libro viene voglia di andare a quattro zampe. Ma avendone sfortunatamente persa l’abitudine da più di sessant’ anni, mi è impossibile riprenderla ora e lascio questa andatura naturale a coloro che ne sono più degni di voi e di me”. Con queste battute, Voltaire prendeva in giro l’idealizzazione del “buon selvaggio” di Rousseau, sottolineando l’assurdità di un ritorno a uno stato primitivo. Inoltre, considerava le conquiste della civiltà – dall’arte alla scienza – come segni del progresso umano, mentre ridicolizzava l’idea di abbandonarle per vivere in uno stato di “purezza” pre-civile.
Quando Rousseau pubblicò Il contratto sociale, nel 1762, Voltaire lo trovò ingenuo e utopistico. Egli credeva che la visione di Rousseau di una società governata dalla “volontà generale” fosse una sorta di illusione pericolosa, destinata a fallire se applicata alla realtà politica. Anche se Voltaire non formulò attacchi diretti in forma pubblica come in altri casi, è noto che fece battute sarcastiche nei salotti parigini, ridicolizzando la pretesa di Rousseau di riformare la società basandosi su idee astratte e poco pratiche.
Anche se Candido (1759) di Voltaire non è un attacco diretto a Rousseau, il romanzo contiene diversi passaggi che prendono di mira le filosofie utopistiche in generale, tra cui quella di Rousseau. Nel personaggio del filosofo Pangloss, che sostiene che viviamo “nel migliore dei mondi possibili” (qui è chiara la critica alla filosofia di Leibniz), Voltaire ridicolizza l’ottimismo filosofico, mostrando le sue assurdità di fronte alla crudeltà e alle sofferenze del mondo reale. Anche Rousseau, con la sua visione utopistica di una società ideale e naturale, è implicitamente bersagliato in questo attacco.
Voltaire sostenne in vari scritti che la civiltà, pur con i suoi difetti, è ciò che ha reso possibile lo sviluppo di istituzioni giuste, la libertà di espressione e l’arte. In un certo senso, ogni suo elogio alla civiltà era una risposta ironica al disprezzo di Rousseau per la società moderna. Voltaire trovava insensato voler tornare a una presunta purezza originaria e amava scherzare sull’idea che vivere come “selvaggi” potesse essere in qualche modo preferibile alla civilizzazione.
Le prese in giro di Voltaire verso Rousseau rivelano la profondità della loro divergenza filosofica. Con la sua arguzia e il suo sarcasmo, Voltaire non solo smontava le teorie di Rousseau, ma sottolineava anche la complessità e le contraddizioni insite nelle utopie filosofiche. In un certo senso, questo scontro intellettuale rappresenta l’anima stessa dell’Illuminismo, un periodo di grandi idee e dibattiti accesi sul destino dell’umanità.

 

 

 

 

Le Ultime lettere di Jacopo Ortis e l’utilità della Letteratura

 

 

 

 

L’animo inquieto, le delusioni amorose, lo sconforto, la lontananza dagli affetti familiari, l’amore per la patria che non esisteva più. È tutto concentrato in questo romanzo epistolare di Ugo Foscolo. Sono lettere che Jacopo Ortis spedisce all’amico Lorenzo Alderani il quale, dopo la sua morte, le stampa, precedute da un’introduzione e seguite da una conclusione. Foscolo trasse l’ispirazione per scrivere quest’opera, non solo dalla sua esperienza e dalle passioni che lo consumavano, ma anche dal romanzo di Johann Wolfgang Goethe, I dolori del giovane Werther, scritto che aveva avuto un enorme successo in tutta Europa. Forse fu plagio, eppure, fu un plagio di altissimo livello.

foscoloUgo Foscolo

Il giovane Ortis in esilio, triste e disperato come non mai, si ritira sui Colli Euganei:

“Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure, e la nostra infamia.
(Lettera a Lorenzo Alderani dell’11 ottobre 1797, dai Colli Euganei)

Colà, incontra la famiglia del signor T., la figlia Teresa, e Odoardo, il suo promesso sposo. Si innamora di Teresa e quell’amore cresce di giorno in giorno, soprattutto quando scopre che lei non ama Odoardo ma lo sposerà per compiacere il padre, il quale ha combinato quelle 5682806-Mnozze per interesse. Poco dopo, Jacopo va a Padova, ma vi resiste solo due mesi. Ritorna, in fretta, da Teresa. Profittando dell’assenza di Odoardo, può starle vicino e riprendere le conversazioni con lei, sotto gli alberi di pino, al tramonto. Si rende definitivamente conto che sarebbe felice soltanto se la potesse sposare. Il destino, purtroppo, gli è avverso. I due giovani arrivano anche a scambiarsi un bacio. Ma non c’è niente da fare, non potrà esservi seguito. Jacopo si ammala e, al padre di Teresa che va a visitarlo, confessa il suo amore per la figlia. Ristabilitosi, scrive una lettera d’addio alla sua amata e parte. La sua disperazione raggiunge i livelli massimi ogniqualvolta, custodita nel taschino della giacca, stringe la sua immagine e la contempla. Giunto a Nizza, viene a sapere che Teresa si è sposata e decide, così, di farla finita: torna sui Colli Euganei per rivederla e lì, dopo aver scritto le ultime due lettere, una all’amico Lorenzo e l’altra a Teresa:

“Ma io moro incontaminato, e padrone di me stesso, e pieno di te, e certo del tuo pianto. Perdonami, Teresa, se mai – ah consolati, e vivi per la felicità de’ nostri miseri genitori; la tua morte farebbe maledire le mie ceneri. Che se taluno ardisse incolparti del mio infelice destino, confondilo con questo mio giuramento solenne ch’io pronunzio gittandomi nella notte della morte: Teresa è innocente. – Ora accogli l’anima mia
(Lettera a Teresa del 25 marzo 1799)

si pianta un coltello nel cuore.

“Teresa visse in tutti que’ giorni fra il lutto de’ suoi in un mortale silenzio. – La notte mi trascinai dietro al cadavere che da tre lavoratori fu sotterrato sul monte de’ pini”.
(Dalla conclusione di Lorenzo Alderani)

colliColli Euganei

Quand’ero all’Università, mi innamorai di una ragazza dai lunghi capelli neri. Si chiamava Melissa ed era bella, molto bella. Per poco più di un anno, soffrii molto il fatto di non poterla avere, poi, pian piano, me ne feci una ragione e la mia vita continuò. Il tempo, a volte, lenisce le pene d’amore più delle carezze di una madre! Jacopo Ortis, almeno, baciò Teresa. Io non riuscii ad avere da Melissa nemmeno un bacio. La mia disperazione era tale che, tra le tante cose poco sensate che in questi casi si fanno, comprai un’altra copia delle Ultime lettere di Jacopo Ortis, ne avevo già due da qualche parte nella mia biblioteca, e la rilessi tutta d’un fiato, un sabato pomeriggio di gennaio, proprio per trovare qualcuno con cui condividere la mia sofferenza. Immaginate il sollievo e la consolazione, quindi! La sera dopo, telefonai Melissa e la invitai a casa mia, soltanto per darle un fiore, una rosa rossa che avevo rubato dal giardino di un finanziere vicino casa mia (rischiando pure di andare in galera!), e per dirle grazie, perché l’essere innamorato di lei, mi aveva comunque inondato la vita di passione. Ebbi cura di sistemare la copia dell’Ortis in bella vista sopra il televisore, sperando che lei ne conoscesse il contenuto e provasse, per me, almeno un po’ di pietà. Quando arrivò, dopo i quindici minuti che impiegai per trovare il coraggio di riferirle quelle parole che ho riportato qualche rigo più sopra, si avvicinò al televisore, prese in mano il libro, si girò e mi chiese:
“Di che parla?”.
“Di me”, risposi.
“Come di te, che significa?”.
“Parla della fine che uno ha fatto per amore di una donna che si chiamava Melissa e aveva i capelli neri”.
“Non fare lo stupido”, mi interruppe. “Che fine ha fatto questo?”.
“Quando lei gli ha chiesto di cosa trattasse il libro, ha capito che forse sarebbe stato meglio cercarsi un’altra donna. Ma, siccome sapeva già che non sarebbe riuscito a trovarne nessuna che avesse potuto amare come amava lei, si è ucciso!”.
“Vieni qua, scemo!”.
Mi abbracciò, mentre io le carezzavo i lunghi capelli neri. Durò pochi secondi, ma fu bellissimo.

Grazie alla morte di Jacopo Ortis e a Ugo Foscolo che ne hascrisse la tristissima storia, riuscii ad avere un abbraccio da Melissa.

A volte la Letteratura è molto più utile di quanto possa sembrare!

 

 

L’eterno conflitto di Nietzsche

Spirito inquieto e forma irrealizzata

 

 

 

 

Nelle sue lunghe passeggiate solitarie, particolarmente nella natura incontaminata di Sils-Maria, Nietzsche trovava non solo uno spazio di riflessione ma anche un modo per lenire le sofferenze fisiche e psicologiche che lo affliggevano. Il Nietzsche, poi, delle serate conviviali a casa di Malwida von Meysenbug, circondato da amici e intellettuali, sembra quasi ingenuo, distante dal filosofo titanico e tormentato che emerge dai suoi scritti più tardi.
Nietzsche, come uomo, è stato certamente malato, ma ciò che ha aggiunto alla storia universale e alla filosofia trascende ogni dolore fisico. Il suo pensiero, radicato nel profondo dell’esperienza umana, si eleva sopra la condizione corporea, superando le limitazioni della malattia. In questo, esemplifica una tensione centrale della sua filosofia: il conflitto tra spirito e corpo, tra ciò che è spirituale e ciò che è fisico. Per Nietzsche, lo spirito – inteso come forza creativa e vitale – non può essere contenuto dalle debolezze del corpo; esso aspira sempre a qualcosa di più alto, a una dimensione che trascende le sofferenze materiali.


Il conflitto nietzschiano è, in un certo senso, un martirio. La vita del filosofo solitario a Sils-Maria assume tratti quasi sacri, come se egli fosse un martire della propria ricerca interiore. Questo conflitto tra spirito e forma non è solo un tema filosofico astratto, ma si riflette concretamente nella vita di Nietzsche. Da un lato, vi è lo spirito, che il cristianesimo ha scoperto e definito come una realtà in continua trasformazione: uno spirito che non muta cessa di essere tale, perché la sua essenza è quella di una forza dinamica, instancabile, sempre in divenire. Dall’altro lato, vi è la forma, che rappresenta l’ordine, la quiete, la stabilità delle figure ben delineate.
Questo contrasto può essere interpretato come una lotta tra due tradizioni culturali: quella occidentale, caratterizzata dallo spirito assoluto e inquieto, e quella greca, in cui predomina il cosmo, il mondo delle figure e delle forme. Nella tradizione occidentale, e in particolare nella cultura europea, lo spirito è visto come una forza creativa, illimitata e in costante evoluzione. Nietzsche, con la sua concezione del superuomo e della volontà di potenza, incarna questo spirito irrequieto, che rifiuta ogni forma statica e cerca continuamente di superare se stesso.
Dall’altro lato, la cultura greca, da cui Nietzsche trasse molta ispirazione, era basata su un’idea di equilibrio, di bellezza e di ordine cosmico. Il mondo greco era un mondo di figure definite, di forme armoniche che riflettevano una visione del mondo stabile e comprensibile. Nietzsche, tuttavia, non riuscì mai a trovare una sintesi tra questi due poli. La sua vita stessa testimonia questa contraddizione: da una parte, la tensione infinita dello spirito, dall’altra, l’incapacità di trovare una forma adeguata per contenere e ordinare questa forza creativa.
Nella cultura latina, lo spirito è visto come una “luce intellettuale piena d’amore”, una forza che illumina e guida. Nella tradizione germanica, invece, lo spirito è qualcosa di più oscuro, demoniaco e informe, un impeto vitale che si afferma da sé ma che ha bisogno di una forma esterna per trovare una direzione. Nietzsche incarnava questa seconda visione: la sua vita fu una lotta incessante per dare una forma alla sua forza interiore, un tentativo che, in ultima analisi, fallì. Non riuscendo a trovare una forma stabile per la sua vita, finì per autodistruggersi, vittima del suo stesso slancio vitale incontrollato.
In questo contesto, il riferimento a Dioniso diventa centrale. Dioniso, il dio della vitalità caotica, della trasgressione e dell’ebbrezza, rappresenta per Nietzsche una forza primordiale e creativa, ma anche pericolosa. Il filosofo si identificò con questa figura, ma allo stesso tempo si trovò incapace di integrare la potenza dionisiaca nella struttura ordinata del mondo occidentale. Il fallimento di Nietzsche nel trovare una forma per il suo spirito dionisiaco segnò la sua fine. Dioniso, perso nel mondo occidentale, non fu in grado di offrirgli una figura chiara e definita, lasciandolo in balìa delle sue stesse contraddizioni.
Il destino oscuro di Nietzsche, segnato dalla follia negli ultimi anni della sua vita, sembra quasi inevitabile alla luce di questa tensione irrisolta. Forse è proprio in questa lotta senza esito che si trova il senso ultimo della sua esistenza: una vita dedicata a un ideale irraggiungibile, un conflitto tra forze opposte che non trovano mai una sintesi.
Lou Salomé, la figura femminile che attraversò la vita di Nietzsche, rappresenta un altro elemento chiave di questa dinamica. Passò accanto a lui come una “stella errante in una notte d’agosto”, una presenza luminosa ma distante, che non poteva mai diventare veramente parte della sua vita. Per Nietzsche, forse, Salomé rappresentava un ideale di ordine e armonia, una figura che avrebbe potuto dare una forma alla sua esistenza caotica. Ma Salomé rifiutò questo ruolo. Non accettò di penetrare nel cerchio di caos di Nietzsche, né di dare un ordine alla sua esistenza.
Questo rifiuto lasciò Nietzsche solo con il suo conflitto interiore. Salomé, che per lui poteva essere una sorta di stella fissa, una guida stabile in un mondo di disordine, rimase una figura lontana, irraggiungibile. La sua distanza permise a Nietzsche di proiettare su di lei il suo ideale, ma allo stesso tempo lo condannò a una solitudine ancora più profonda. In questo senso, l’amore non consumato e irraggiungibile per Lou Salomé può essere visto come una metafora dell’intera esistenza di Nietzsche: un desiderio impossibile da realizzare, ma che proprio per questo rimane una verità eterna, una “grande menzogna” che continua a essere impossibile per sempre.
La vita di Nietzsche testimonia la tragicità del suo pensiero: una tensione tra forze opposte un conflitto tra spirito e forma, tra caos e ordine, che rimane irrisolto fino alla fine.

 

 

 

 

La metamorfosi del rapporto tra filosofia e scienza

 Dalla metafisica seicentesca ai mondi creati dalla tecnica

 

 

di Riccardo Piroddi

 

 

 

Nel Seicento, all’interno dei grandi sistemi filosofici di Spinoza e Leibniz, la metafisica occupava una posizione centrale e privilegiata, costituendo il fondamento per ogni altra forma di conoscenza, compresa la scienza. La filosofia non si limitava a riflettere sui princìpi primi, ma forniva anche un quadro complessivo entro il quale la scienza trovava il suo posto. La metafisica, in altre parole, comprendeva ancora al suo interno lo scientifico, considerandolo come uno dei suoi rami. In questa prospettiva, la scienza era come una branca dell’albero secolare della filosofia, con la metafisica che fungeva da radice e tronco. Tuttavia, questo schema unitario iniziò a frantumarsi con la filosofia di Kant e i suoi sviluppi successivi.
Con Kant, infatti, si verificò una svolta decisiva: la filosofia perse il ruolo di fondamento ontologico della scienza e si trasformò in una riflessione sui presupposti del sapere scientifico. Kant cercò di comprendere e illuminare le basi dell’indagine scientifica, sforzandosi di trovare un’unità tra le varie manifestazioni del sapere. Tuttavia, l’approccio kantiano segnò il passaggio a una nuova epoca, in cui la filosofia non poté più pretendere di fondare la scienza in modo totalizzante. Non vi era più un unico tronco metafisico dal quale diramavano le scienze, ma piuttosto una molteplicità di rami, sempre più complessi e specializzati, che la filosofia cercava di comprendere. L’obiettivo della filosofia diventò, quindi, sempre più conoscitivo, ovvero un tentativo di trovare un senso e un ordine nelle diverse branche della scienza, senza, però, avere il potere di unificarle sotto un unico principio metafisico.
Il compito della filosofia si fece, allora, maggiormente arduo, e forse impossibile, man mano che le scienze progredivano e si frammentavano in specializzazioni più minute e indipendenti tra loro. Oggi, i rami delle scienze sembrano essersi distaccati dal tronco, rendendo difficoltoso alla filosofia riunirli e dare loro un significato complessivo. La scienza, con i suoi sviluppi tecnici e le sue molteplici applicazioni, si è emancipata dalla filosofia, creando mondi artificiali che spesso sostituiscono il mondo naturale, come dimostra il progresso tecnologico, che ha trasformato radicalmente le nostre vite. Si pensi, per esempio, a una stazione spaziale, dove ogni oggetto è il frutto di una produzione tecnica umana, lontana dalla natura originaria.


Questa emancipazione della scienza dalla filosofia si è consolidata con la Rivoluzione Industriale, nel Settecento, un periodo in cui la scienza iniziò a mostrare il suo volto tecnico e produttivo, non limitandosi più a essere un sapere teorico. La scienza non solo spiegava il mondo, ma, attraverso la tecnica, iniziava a costruire nuovi mondi. Questo cambiamento epocale portò a un’inversione di ruoli tra scienza e filosofia. Se un tempo la scienza derivava dalla filosofia, oggi è la filosofia che deve confrontarsi con le innovazioni prodotte dalla scienza. I mondi creati dalla tecnica non sono soltanto nuovi oggetti, ma trasformano profondamente le strutture sociali, economiche, politiche e ambientali, ridefinendo le condizioni di vita dell’uomo. La scienza non si limita più a esplorare il mondo, ma lo modifica profondamente, generando nuovi contesti di esistenza che la filosofia è chiamata a interpretare e comprendere.
Questa trasformazione della filosofia si riflette nel modo in cui grandi pensatori del Novecento, come Heidegger, si sono allontanati dalle vecchie forme sistematiche della metafisica per cercare il senso dell’esistenza umana attraverso il dialogo con la poesia. Il linguaggio filosofico è divenuto più agile, intuitivo e libero, meno rigido e deduttivo rispetto al passato. Filosofi come Pascal, con i suoi Pensieri, e Nietzsche, con il suo uso dell’aforisma, avevano già indicato questa strada, prediligendo un linguaggio capace di esprimere intuizioni profonde senza essere intrappolato in rigidi schemi logici. La filosofia si è aperta, così, a linguaggi più poetici e metaforici, dialogando con grandi poeti come Leopardi, Rilke e Trakl, per cercare risposte a domande esistenziali che le scienze non possono affrontare.
In questo nuovo ruolo, la filosofia accetta la sua condizione di riflessività, riconoscendo che la scienza ha ormai ereditato il linguaggio razionale e logico che un tempo apparteneva alla metafisica tradizionale. La filosofia, liberata dal compito di unificare il sapere scientifico, diventa lo spazio in cui l’essere umano può interrogarsi sul significato profondo delle trasformazioni indotte dalla scienza, esplorando nuovi modi di esistenza e cercando risposte alle domande più profonde sul senso della vita e del mondo.

 

 

 

 

Martin Heidegger

Il poeta dell’essere e il silenzio delle domande

(26 settembre 1889)

 

 

 

 

Martin Heidegger, il pensatore silenzioso che abitava la Foresta Nera, cammina ancora lungo sentieri avvolti da nebbie e luci sottili. La sua presenza, simile a quella di un pastore che guida il pensiero attraverso terre selvagge e sconosciute, porta con sé il peso della domanda più antica e più inquietante: “Che cos’è l’essere?”. La sua filosofia, affilata come una lama, non cerca risposte rapide o consolazioni, ma invita chi la percorre a restare nell’incertezza, ad “abitare il mistero”.
Heidegger non si accontentava delle vie tracciate dalla tradizione filosofica occidentale. Egli voleva andare oltre, cercando di ascoltare l’essenza dell’essere, quell’enigma insondabile che egli chiamava Sein. Nelle sue opere, come in Essere e Tempo, ha tentato di svelare le profondità dell’esistenza umana, non come un’idea astratta, ma come un’esperienza vissuta, un esser-ci (Dasein) che si confronta con la finitezza, con la temporalità, con la morte.
In questo viaggio, Heidegger ci ha insegnato che l’uomo non è un semplice spettatore del mondo, ma un essere-nel-mondo, intrinsecamente legato all’orizzonte del proprio esistere. La nostra esistenza, affermava, è gettata in un tempo e in uno spazio e solo attraverso la consapevolezza autentica della nostra mortalità possiamo aprirci alla verità dell’essere.


Come un poeta-filosofo, Heidegger ha intessuto il linguaggio di simboli e immagini, portando la riflessione filosofica verso una profondità quasi mistica. Nel suo pensiero, la tecnica moderna, con il suo dominio sul mondo, appare come un velo che ci allontana dal contatto diretto con l’essere. Solo attraverso una svolta (Kehre), un ritorno meditativo alla verità originaria dell’essere, l’uomo può riscoprire la sua relazione più intima con il mondo e con se stesso.
Il suo lascito, come un’eco tra le montagne, è ancora complesso e controverso, ma potente. Heidegger ci invita a pensare al di là delle categorie abituali, a interrogarci sul senso recondito del nostro essere qui, su questa Terra. Come un albero che affonda le sue radici in un terreno oscuro, egli ci ricorda che la verità non è qualcosa da possedere, ma da attendere, come si aspetta l’alba dopo una lunga notte.
Heidegger ha lasciato, nella storia della filosofia, una scia che continua a illuminare e sfidare chiunque abbia il coraggio di seguirlo, camminando a passo lento, ascoltando il silenzio delle domande più profonde.

 

 

 

 

Il battito inarrestabile che ha scolpito il suono del rock

John Henry Bonham

(25 settembre 1980)

 

 

 

John Henry Bonham, conosciuto anche come “Bonzo”, è stato uno dei batteristi più influenti e rivoluzionari nella storia del rock, grazie soprattutto alla sua militanza nei Led Zeppelin. Nato il 31 maggio 1948 a Redditch, Inghilterra, sviluppò un interesse precoce per la batteria, affinando il suo talento suonando con vari gruppi locali prima di entrare a far parte dei Led Zeppelin, nel 1968.
Il suo stile distintivo si basava su una combinazione unica di potenza, velocità, precisione e creatività, caratteristiche che gli hanno permesso di ridefinire il ruolo della batteria nel rock. Bonham era noto per i suoi ritmi forti e complessi, capaci di spaziare da groove essenziali a strutture più intricate, spesso influenzate dal blues, dal jazz e dal funk. Aveva una padronanza unica delle dinamiche e della tecnica del single-stroke roll, che eseguiva con una forza sorprendente e con la stessa agilità che altri batteristi riservavano a stili più leggeri.
Tra i suoi marchi di fabbrica ci sono la doppia cassa suonata con un singolo pedale, con cui riusciva a riprodurre potenti e veloci pattern di cassa, una tecnica che rimane impressionante ancora oggi; l’uso creativo del tempo, perché amava giocare con tempi dispari e variazioni ritmiche, un tratto evidente in canzoni come Kashmir e The Ocean; il feeling spontaneo, nonostante la sua tecnica impeccabile, da un batterista istintivo, che preferiva suonare “sentendo” la musica piuttosto che attenendosi rigorosamente a partiture.
Quando si unì ai Led Zeppelin, la sua potente batteria divenne una delle colonne portanti del loro sound. Il suo stile travolgente si fondeva alla perfezione con i riff di chitarra di Jimmy Page e il basso di John Paul Jones, contribuendo a creare il suono esplosivo e innovativo per cui la band è ancora oggi famosa.


Alcuni dei momenti più iconici della sua carriera con i Led Zeppelin includono Good times bad times, il brano di apertura dell’album di debutto del 1969, che mette immediatamente in mostra il suo talento, con la velocità delle sue battute sul pedale singolo della cassa; Moby Dick, uno dei suoi assoli di batteria più celebri, in cui mostra tutta la sua forza e inventiva, spesso prolungando l’esibizione live fino a più di 20 minuti; When the levee breaks, dove la sua batteria è quasi ipnotica, con un groove possente che è stato campionato innumerevoli volte da artisti di diversi generi.
John Bonham ha avuto un impatto incancellabile sul mondo della musica. Il suo approccio potente e innovativo alla batteria ha condizionato generazioni di batteristi, dai musicisti rock agli artisti di generi più moderni. Bonham è celebrato per aver dimostrato che la batteria, oltre a fornire il ritmo, può essere uno strumento melodico e dinamico, in grado di guidare e definire il suono di una band.
La sua tragica morte, il 25 settembre 1980, a soli 32 anni, segnò la fine dei Led Zeppelin, poiché i membri della band dichiararono che nessun altro batterista avrebbe potuto prendere il suo posto. Tuttavia, la sua eredità continua a vivere attraverso la musica della band e l’influenza che ha avuto su batteristi di tutto il mondo. Bonham non era solo un batterista virtuoso, ma un vero visionario che ha ampliato le possibilità del suo strumento, lasciando un segno indelebile nella storia del rock.

John Henry Bonham’s “Moby Dick” 

 

 

 

Paracelso: alchimia, medicina e filosofia cosmica

(24 settembre 1493)

 

 

 

Quando sento parlare di Paracelso, mi torna alla mente la figura di un uomo che non si è mai accontentato delle verità accettate, un pensatore audace che ha sfidato i dogmi filosofici e scientifici della sua epoca. Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus von Hohenheim (1493 – 1541), noto oggi semplicemente come Paracelso, fu un medico, un alchimista, un filosofo e un riformatore della medicina.
Ricordo chiaramente il suo approccio unico alla medicina e alla filosofia. Mentre la maggior parte dei suoi contemporanei si atteneva rigidamente agli insegnamenti di Galeno e Ippocrate, Paracelso si rifiutava di seguire ciecamente le dottrine tradizionali. Sosteneva che la malattia non fosse causata da uno squilibrio dei fluidi corporei, ma piuttosto da influenze esterne, e che il corpo umano fosse parte di un macrocosmo, un universo interconnesso. Questa era una delle sue teorie più affascinanti: il microcosmo umano rispecchiava il macrocosmo dell’universo.
Credeva che tutto in natura avesse un suo corrispettivo spirituale e materiale e che fosse necessario comprendere entrambe le dimensioni per curare realmente una malattia. Non era solo un medico, ma anche un alchimista. Tuttavia, la sua alchimia non si limitava alla trasmutazione dei metalli, come molti oggi potrebbero immaginare. Piuttosto, vedeva l’alchimia come un mezzo per comprendere e trasformare l’essenza spirituale delle cose, un processo di purificazione dell’anima oltre che del corpo.


La sua filosofia era profondamente radicata nell’idea che Dio avesse disseminato nel mondo tutto ciò di cui l’uomo aveva bisogno per guarire. La Natura, per Paracelso, era un libro aperto, un dono divino da decifrare con umiltà e intuito. Le sue teorie sui rimedi a base di erbe, minerali e sostanze chimiche erano rivoluzionarie per il suo tempo, ed egli fu uno dei primi a promuovere l’uso di sostanze come lo zolfo, il mercurio e il sale nel trattamento delle malattie. Questi tre elementi erano i princìpi fondamentali della creazione: zolfo per l’anima, mercurio per lo spirito e sale per il corpo.
Paracelso, tuttavia, non era solo un uomo di scienza. Era anche profondamente religioso, ma la sua religiosità non seguiva i canoni del tempo. Egli vedeva Dio in ogni aspetto della vita e credeva che l’uomo potesse comprendere il divino osservando la natura e se stesso. Era convinto che la conoscenza e l’ispirazione provenissero direttamente da Dio, non dai libri o dalle autorità accademiche.
Un altro aspetto straordinario della sua filosofia era l’enfasi sulla volontà umana. Secondo Paracelso, la forza della volontà poteva influenzare la salute e il destino di una persona. Egli vedeva l’uomo come un co-creatore del proprio destino, un concetto radicale per il suo tempo, in cui si credeva che la vita umana fosse rigidamente determinata dalle stelle o dalla volontà divina.
Paracelso era anche un uomo che non si preoccupava troppo delle convenzioni sociali. Spesso si scontrava con le autorità del suo tempo, perché rifiutava di seguire la tradizione per il semplice fatto che fosse tradizione. Era un ribelle, un iconoclasta, ma anche un uomo di straordinaria compassione, che cercava incessantemente di migliorare le condizioni dell’umanità attraverso la conoscenza e la sperimentazione.
Quando penso a Paracelso, lo ricordo come un uomo che ci ha insegnato a guardare oltre le apparenze, a cercare la verità non solo nei testi sacri o nelle aule universitarie, ma nella natura stessa e dentro di noi. Le sue teorie filosofiche hanno gettato le basi per un approccio olistico alla medicina e alla comprensione dell’uomo e dell’universo, un’eredità che ancora oggi continua a ispirare.

 

 

 

 

La fida ninfa: letteratura, musica e scenografia
per un grande capolavoro

 

 

di Carmela Puntillo

 

 

Una cronaca manoscritta delle “Cose e fatti accaduti a Verona fra il 1731 e il 1734” ricorda la creazione sulle scene del “Nuovo teatro Filarmonico” de La fida ninfa di Vivaldi e del Gianguir di Geminiano Giacomelli. La nuova opera vivaldiana rendeva omaggio a un evento maggiore per Verona, inaugurando il suo nuovo teatro d’opera, realizzato sui piani del famoso architetto Bibiena e la cui apertura era attesa. La pazienza dei veronesi era stata messa a dura prova per tutto il tempo trascorso fra la chiusura del Teatro del Capitano nel 1715 e l’inaugurazione del Nuovo teatro Filarmonico con La fida ninfa…

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Antonio Vivaldi (1678-1741)

 

 

 

 

Franca Florio

Splendore della rosa di Sicilia

 

 

 

 

Franca Florio, la regina senza corona di Palermo, una donna il cui splendore sfiorò l’eternità, ma il cui cuore conobbe l’amarezza della caducità. Nata Franca Jacona della Motta dei baroni di San Giuliano, nel 1873, il suo destino sembrava scritto tra le linee di antichi titoli nobiliari e raffinate eleganze. Eppure, la sua vera grandezza sarebbe emersa nell’incontro con Ignazio Florio, l’erede di una delle famiglie più ricche e influenti della Sicilia.
La loro unione fu l’alba di un’epoca: la Palermo della Belle Époque si specchiava in Franca, che divenne simbolo e musa della rinascita culturale e artistica della città. Il suo matrimonio con Ignazio la trasportò in un vortice di lussi, feste sfarzose e corti di artisti e intellettuali. I Florio erano gli imperatori non ufficiali della Sicilia, e Franca ne era la regina luminosa, splendente in ogni evento mondano, tra balli di gala e serate d’opera.


Ma non era soltanto un’icona di bellezza e stile, sebbene gli artisti dell’epoca la celebrassero come tale. Giovanni Boldini, il grande maestro del ritratto, catturò la sua figura in un dipinto che ancora oggi racconta il suo fascino immortale: il corpo snello, il volto nobile, i lunghi capelli corvini avvolti in un’aura di mistero. Quel ritratto, carico di movimento e sfavillio, è uno specchio del suo essere, ma anche un’ombra di ciò che avrebbe perso.
Franca fu al centro della scena, corteggiata dai più grandi del suo tempo: Gabriele D’Annunzio la chiamava “l’Unica”, riconoscendo in lei una bellezza non solo fisica, ma spirituale, una raffinatezza che parlava di antiche radici e di una modernità nascente. Ma al di là dei salotti e delle lodi, il cuore di Franca batteva sempre per il suo Ignazio, in una storia d’amore tanto gloriosa quanto dolorosa. Lontana dal solo ruolo di moglie, Franca fu complice e consigliera di Ignazio, condividendo con lui successi e disfatte, vedendo l’impero della famiglia crescere e, poi, inesorabilmente, sgretolarsi.
L’età dell’oro dei Florio non durò per sempre. Le difficoltà economiche, i rovesci di fortuna e le tragedie personali si abbatterono sulla famiglia. Franca assisté al declino del nome che tanto aveva contribuito a far brillare. Gli ultimi anni della sua vita furono segnati dalla malinconia, dal ricordo di un passato luminoso che sembrava svanire, come il sole al tramonto sul mare di Palermo. Eppure, persino nel crepuscolo della sua esistenza, rimase un simbolo di grazia e dignità, un esempio di resilienza.
Oggi, quando il vento soffia tra i viali di Villa Igiea o le onde accarezzano i moli del porto, sembra di percepire ancora la sua presenza, come un sussurro elegante che attraversa il tempo. Franca Florio è l’eco di un’epoca in cui la bellezza, l’amore e l’arte sembravano intrecciarsi indissolubilmente, per poi svanire come un sogno di cui rimane solo il ricordo, intriso di nostalgia e ammirazione.

 

 

 

 

L’era dei tiranni

La forza che rimodellò le poleis greche

 

 

 

 

Nel mondo delle poleis greche, tra l’VIII e il VI secolo a.C., emerse una figura politica tanto affascinante quanto controversa: il tiranno. Contrariamente all’accezione negativa moderna del termine, nella Grecia antica il tiranno non era necessariamente un sovrano crudele o ingiusto, ma piuttosto un individuo che riusciva a prendere il potere attraverso mezzi non convenzionali, come il supporto popolare o i colpi di stato, rompendo gli equilibri tradizionali delle aristocrazie.
L’ascesa dei tiranni nelle poleis greche è strettamente legata ai cambiamenti socio-politici che caratterizzarono il periodo arcaico. Le città-stato erano governate da élite aristocratiche che monopolizzavano il potere economico e politico, provocando malcontento tra le classi meno abbienti. La crescente importanza delle nuove forze sociali, come i mercanti e gli artigiani, innescò una pressione per una distribuzione più equa del potere. In questo contesto, i tiranni emersero spesso come “uomini forti”, capaci di sfruttare le tensioni sociali a loro favore. Offrivano promesse di riforme economiche, riduzione delle disuguaglianze e protezione contro gli abusi dei nobili. Il progresso tecnologico, come la diffusione della falange oplitica, favorì inoltre l’ascesa di capi militari che, grazie al sostegno degli opliti (soldati-cittadini), riuscivano a imporsi come tiranni. A differenza delle monarchie ereditarie, i tiranni spesso provenivano da famiglie non aristocratiche, ma erano abili nel costruire consenso popolare e nel garantire l’ordine.


Una volta al potere, questi adottavano politiche che spesso erano innovative per il loro tempo. Molti di loro erano riformatori che cercavano di migliorare le condizioni di vita della popolazione. Pisistrato ad Atene, per esempio, fu noto per le sue riforme agrarie, la promozione di opere pubbliche e il sostegno alle arti, che contribuirono a consolidare il suo potere. Sotto i tiranni, le città spesso prosperavano economicamente e vedevano una crescita culturale significativa.
In molte poleis, la tirannide non solo favoriva la coesione sociale, ma anche lo sviluppo economico e infrastrutturale. Il tiranno era in grado di far costruire templi, strade e porti, creando posti di lavoro e migliorando la qualità della vita urbana. Città come Corinto e Sicione, sotto la guida di tiranni come Periandro e Clistene, divennero potenti centri commerciali e culturali.
D’altro canto, la tirannide aveva anche lati negativi. Sebbene molti tiranni cercassero di mantenere il consenso attraverso riforme, il loro governo era spesso visto come illegittimo dagli aristocratici, che percepivano la perdita del loro potere tradizionale. Per preservare il potere, alcuni tiranni dovettero ricorrere a pratiche autoritarie, come l’uso di guardie mercenarie e la repressione degli oppositori politici. Questo creò un clima di instabilità a lungo termine.
Uno dei casi più celebri di tirannia nella Grecia antica è quello di Pisistrato ad Atene. Pisistrato, che governò la città in tre diverse fasi tra il 561 e il 527 a.C., rappresenta un esempio di come un tiranno potesse consolidare il proprio potere attraverso una combinazione di abilità politica, riforme sociali e sostegno popolare. Pisistrato riuscì a prendere il potere in un contesto di profonde divisioni politiche tra le varie fazioni aristocratiche ateniesi. Dopo un primo colpo di stato, fu brevemente esiliato, ma riuscì a tornare più volte al potere grazie all’appoggio popolare e alla sua astuzia. Durante il suo governo, implementò una serie di riforme, che miravano a migliorare la vita dei cittadini più poveri. Redistribuì terre, ridusse le tasse e promosse opere pubbliche, come la costruzione di acquedotti e templi. Favorì anche la cultura e la religione, sostenendo i culti locali e le celebrazioni religiose come le Panatenee, una sorta di festival che celebrava l’identità ateniese. Sotto il suo governo, Atene iniziò a emergere come un importante centro culturale, ponendo le basi per il successivo splendore dell’epoca classica. Alla morte di Pisistrato, il potere passò ai suoi figli, Ippia e Ipparco. Tuttavia, il regime dei due fratelli non riuscì a mantenere lo stesso equilibrio politico e, nel 514 a.C., Ipparco fu assassinato. Il governo tirannico di Ippia divenne sempre più repressivo, e nel 510 a.C., con l’aiuto degli spartani, il regime tirannico fu definitivamente abbattuto. La caduta dei Pisistratidi aprì la strada alle riforme democratiche di Clistene, che riorganizzarono il sistema politico ateniese per evitare il ritorno di un governo autocratico. L’esperienza tirannica, seppur breve, lasciò un’impronta indelebile sulla storia ateniese, poiché dimostrò i pericoli ma anche le potenzialità di un governo che andava oltre i confini tradizionali dell’aristocrazia.
Nel corso del VI secolo a.C., il fenomeno della tirannide iniziò a declinare in molte poleis greche. Le ragioni di questo declino furono varie. Innanzitutto, la crescente opposizione delle aristocrazie depotenziate e la nascita di nuove forme di partecipazione politica, come la democrazia ad Atene, ridussero l’appoggio popolare ai tiranni. Le riforme di Clistene, che posero le basi per la democrazia ateniese, furono direttamente volte a prevenire il ritorno della tirannide. In altre poleis, i tiranni vennero rovesciati da coalizioni di forze aristocratiche o da interventi esterni. Un esempio celebre è la caduta dei tiranni di Siracusa e Corinto, dove il potere fu nuovamente concentrato nelle mani delle oligarchie. Tuttavia, in molti casi, la fine della tirannide non segnò un ritorno stabile al potere aristocratico, ma piuttosto favorì una più ampia partecipazione politica dei cittadini.
Il fenomeno della tirannide nelle poleis greche è dunque un esempio della complessità delle dinamiche politiche nell’antica Grecia. Se da un lato i tiranni rappresentarono una rottura rispetto al tradizionale governo aristocratico, dall’altro furono protagonisti di importanti riforme sociali e culturali che influenzarono profondamente lo sviluppo delle città-stato. Atene, con il suo esempio di Pisistrato, mostra come la tirannia potesse anche stimolare la crescita economica e culturale, pur finendo per spianare la strada alla nascita della democrazia, una delle eredità politiche più durature del mondo antico.