Archivi giornalieri: 26 Settembre 2024

La metamorfosi del rapporto tra filosofia e scienza

 Dalla metafisica seicentesca ai mondi creati dalla tecnica

 

 

di Riccardo Piroddi

 

 

 

Nel Seicento, all’interno dei grandi sistemi filosofici di Spinoza e Leibniz, la metafisica occupava una posizione centrale e privilegiata, costituendo il fondamento per ogni altra forma di conoscenza, compresa la scienza. La filosofia non si limitava a riflettere sui princìpi primi, ma forniva anche un quadro complessivo entro il quale la scienza trovava il suo posto. La metafisica, in altre parole, comprendeva ancora al suo interno lo scientifico, considerandolo come uno dei suoi rami. In questa prospettiva, la scienza era come una branca dell’albero secolare della filosofia, con la metafisica che fungeva da radice e tronco. Tuttavia, questo schema unitario iniziò a frantumarsi con la filosofia di Kant e i suoi sviluppi successivi.
Con Kant, infatti, si verificò una svolta decisiva: la filosofia perse il ruolo di fondamento ontologico della scienza e si trasformò in una riflessione sui presupposti del sapere scientifico. Kant cercò di comprendere e illuminare le basi dell’indagine scientifica, sforzandosi di trovare un’unità tra le varie manifestazioni del sapere. Tuttavia, l’approccio kantiano segnò il passaggio a una nuova epoca, in cui la filosofia non poté più pretendere di fondare la scienza in modo totalizzante. Non vi era più un unico tronco metafisico dal quale diramavano le scienze, ma piuttosto una molteplicità di rami, sempre più complessi e specializzati, che la filosofia cercava di comprendere. L’obiettivo della filosofia diventò, quindi, sempre più conoscitivo, ovvero un tentativo di trovare un senso e un ordine nelle diverse branche della scienza, senza, però, avere il potere di unificarle sotto un unico principio metafisico.
Il compito della filosofia si fece, allora, maggiormente arduo, e forse impossibile, man mano che le scienze progredivano e si frammentavano in specializzazioni più minute e indipendenti tra loro. Oggi, i rami delle scienze sembrano essersi distaccati dal tronco, rendendo difficoltoso alla filosofia riunirli e dare loro un significato complessivo. La scienza, con i suoi sviluppi tecnici e le sue molteplici applicazioni, si è emancipata dalla filosofia, creando mondi artificiali che spesso sostituiscono il mondo naturale, come dimostra il progresso tecnologico, che ha trasformato radicalmente le nostre vite. Si pensi, per esempio, a una stazione spaziale, dove ogni oggetto è il frutto di una produzione tecnica umana, lontana dalla natura originaria.


Questa emancipazione della scienza dalla filosofia si è consolidata con la Rivoluzione Industriale, nel Settecento, un periodo in cui la scienza iniziò a mostrare il suo volto tecnico e produttivo, non limitandosi più a essere un sapere teorico. La scienza non solo spiegava il mondo, ma, attraverso la tecnica, iniziava a costruire nuovi mondi. Questo cambiamento epocale portò a un’inversione di ruoli tra scienza e filosofia. Se un tempo la scienza derivava dalla filosofia, oggi è la filosofia che deve confrontarsi con le innovazioni prodotte dalla scienza. I mondi creati dalla tecnica non sono soltanto nuovi oggetti, ma trasformano profondamente le strutture sociali, economiche, politiche e ambientali, ridefinendo le condizioni di vita dell’uomo. La scienza non si limita più a esplorare il mondo, ma lo modifica profondamente, generando nuovi contesti di esistenza che la filosofia è chiamata a interpretare e comprendere.
Questa trasformazione della filosofia si riflette nel modo in cui grandi pensatori del Novecento, come Heidegger, si sono allontanati dalle vecchie forme sistematiche della metafisica per cercare il senso dell’esistenza umana attraverso il dialogo con la poesia. Il linguaggio filosofico è divenuto più agile, intuitivo e libero, meno rigido e deduttivo rispetto al passato. Filosofi come Pascal, con i suoi Pensieri, e Nietzsche, con il suo uso dell’aforisma, avevano già indicato questa strada, prediligendo un linguaggio capace di esprimere intuizioni profonde senza essere intrappolato in rigidi schemi logici. La filosofia si è aperta, così, a linguaggi più poetici e metaforici, dialogando con grandi poeti come Leopardi, Rilke e Trakl, per cercare risposte a domande esistenziali che le scienze non possono affrontare.
In questo nuovo ruolo, la filosofia accetta la sua condizione di riflessività, riconoscendo che la scienza ha ormai ereditato il linguaggio razionale e logico che un tempo apparteneva alla metafisica tradizionale. La filosofia, liberata dal compito di unificare il sapere scientifico, diventa lo spazio in cui l’essere umano può interrogarsi sul significato profondo delle trasformazioni indotte dalla scienza, esplorando nuovi modi di esistenza e cercando risposte alle domande più profonde sul senso della vita e del mondo.

 

 

 

 

Martin Heidegger

Il poeta dell’essere e il silenzio delle domande

(26 settembre 1889)

 

 

 

 

Martin Heidegger, il pensatore silenzioso che abitava la Foresta Nera, cammina ancora lungo sentieri avvolti da nebbie e luci sottili. La sua presenza, simile a quella di un pastore che guida il pensiero attraverso terre selvagge e sconosciute, porta con sé il peso della domanda più antica e più inquietante: “Che cos’è l’essere?”. La sua filosofia, affilata come una lama, non cerca risposte rapide o consolazioni, ma invita chi la percorre a restare nell’incertezza, ad “abitare il mistero”.
Heidegger non si accontentava delle vie tracciate dalla tradizione filosofica occidentale. Egli voleva andare oltre, cercando di ascoltare l’essenza dell’essere, quell’enigma insondabile che egli chiamava Sein. Nelle sue opere, come in Essere e Tempo, ha tentato di svelare le profondità dell’esistenza umana, non come un’idea astratta, ma come un’esperienza vissuta, un esser-ci (Dasein) che si confronta con la finitezza, con la temporalità, con la morte.
In questo viaggio, Heidegger ci ha insegnato che l’uomo non è un semplice spettatore del mondo, ma un essere-nel-mondo, intrinsecamente legato all’orizzonte del proprio esistere. La nostra esistenza, affermava, è gettata in un tempo e in uno spazio e solo attraverso la consapevolezza autentica della nostra mortalità possiamo aprirci alla verità dell’essere.


Come un poeta-filosofo, Heidegger ha intessuto il linguaggio di simboli e immagini, portando la riflessione filosofica verso una profondità quasi mistica. Nel suo pensiero, la tecnica moderna, con il suo dominio sul mondo, appare come un velo che ci allontana dal contatto diretto con l’essere. Solo attraverso una svolta (Kehre), un ritorno meditativo alla verità originaria dell’essere, l’uomo può riscoprire la sua relazione più intima con il mondo e con se stesso.
Il suo lascito, come un’eco tra le montagne, è ancora complesso e controverso, ma potente. Heidegger ci invita a pensare al di là delle categorie abituali, a interrogarci sul senso recondito del nostro essere qui, su questa Terra. Come un albero che affonda le sue radici in un terreno oscuro, egli ci ricorda che la verità non è qualcosa da possedere, ma da attendere, come si aspetta l’alba dopo una lunga notte.
Heidegger ha lasciato, nella storia della filosofia, una scia che continua a illuminare e sfidare chiunque abbia il coraggio di seguirlo, camminando a passo lento, ascoltando il silenzio delle domande più profonde.