Archivio mensile:Ottobre 2024

Il paradosso del “nulla”

Come il vuoto dà forma all’universo

 

 

 

Il concetto di “nulla” è da sempre al centro di numerose riflessioni filosofiche, costituendo un tema di grande complessità concettuale. Il “nulla” non è semplicemente l’assenza di qualcosa, ma una vera e propria astrazione, difficile da definire in termini concreti. Uno dei più celebri tentativi di definizione lo dobbiamo al filosofo presocratico Parmenide, il quale lo contrappone radicalmente all’essere: “L’essere è, e non può non essere; il non-essere non è, e non può in alcun modo essere”. Questa affermazione esprime la convinzione che il nulla, inteso come totale assenza di esistenza, sia impensabile. Parmenide, infatti, nega la possibilità stessa del nulla: solo l’essere è, mentre il non-essere, ovvero il nulla, non ha alcuna possibilità di esistenza o di pensiero. Questa visione ha dominato gran parte della filosofia occidentale, stabilendo una dicotomia tra l’essere, percepibile e concreto, e il nulla, un concetto astratto e paradossale.
Nonostante l’apparente similitudine tra il nulla e il vuoto, questi due concetti non sono sinonimi. Il vuoto, infatti, ha una lunga storia di sviluppo, sia in ambito filosofico sia scientifico, e ha sempre mantenuto una certa distanza dal nulla parmenideo. In particolare, nell’immaginario occidentale moderno, si è spesso associato il vuoto al nulla, specialmente a partire dalla tradizione giudaico-cristiana, che afferma che l’universo sia stato creato “ex nihilo”, cioè dal nulla. Questa visione ha influenzato profondamente il pensiero culturale e cosmologico per secoli.
Tuttavia, nella fisica contemporanea, il vuoto non è affatto assimilabile al nulla. Al contrario, il vuoto è una realtà fisica ben definita: non si tratta di uno spazio completamente privo di materia o energia, ma piuttosto di una condizione in cui esistono fluttuazioni quantistiche e particelle virtuali che emergono e scompaiono in modo imprevedibile. La fisica quantistica, infatti, descrive il vuoto come un campo in cui le particelle possono apparire spontaneamente per brevi istanti di tempo, generando una certa quantità di energia. Quindi, il vuoto è tutt’altro che un’assenza totale: è una realtà dinamica e complessa, che rende possibile l’emergere della materia e delle forze fondamentali dell’universo.
Il concetto di vuoto, inoltre, ha profondi legami con lo zero, un’altra astrazione che ha avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo della scienza e della matematica. Il termine “zero” deriva dal latino zephirum, che a sua volta è stato adattato dal termine arabo ṣifr, grazie ai contatti culturali tra il mondo occidentale e quello islamico. Tuttavia, furono gli indiani i primi a formulare il concetto di zero come una quantità matematica precisa, associata al vuoto.
Il primo uso documentato del concetto di zero-vuoto risale al 458 d.C., in un testo sanscrito chiamato Lokavibhaga, il cui significato letterale è “Le parti dell’universo”. È interessante notare come questo antico testo trattasse di cosmologia, suggerendo che fin dalle origini vi fosse una stretta connessione tra il concetto di vuoto e la nascita dell’universo. Questa associazione rifletteva una comprensione del vuoto non come un’assenza completa, ma come un terreno fertile dal quale poteva emergere la creazione. Nella visione indiana, lo zero non era qualcosa di negativo o di pericoloso, ma un elemento fondamentale per comprendere la struttura dell’universo, un concetto che avrebbe influenzato profondamente la scienza e la matematica nei secoli successivi.


Mentre nelle culture indiana e araba il vuoto e lo zero erano visti come concetti utili e perfino necessari, la filosofia greca antica aveva una visione molto diversa. Per i greci, l’idea di vuoto, così come quella di infinito e zero, era profondamente inquietante. Aristotele, per esempio, negava l’esistenza del vuoto, sostenendo che la natura “aborrisce il vuoto” (horror vacui). Questa paura del vuoto era legata alla convinzione che uno spazio privo di materia fosse illogico e destabilizzante per l’ordine cosmico.
Anche lo zero era visto con sospetto. Platone e Aristotele, tra gli altri, consideravano pericolosi quei concetti che sfidavano la logica lineare e razionale della filosofia greca. Per questo, lo zero e il vuoto furono relegati a un ruolo marginale nel pensiero occidentale per molti secoli. Solo con l’introduzione del pensiero scientifico moderno, a partire dal Rinascimento, queste idee furono rivalutate.
Tale diffidenza per lo zero e il vuoto ha avuto conseguenze durature nella cultura occidentale. La loro esclusione dal pensiero dominante è stata in parte responsabile di un ritardo nello sviluppo di concetti scientifici fondamentali, come l’infinito matematico e le teorie sull’origine dell’universo. Il pregiudizio culturale contro il vuoto e lo zero, in fondo, ha impedito per molto tempo una piena comprensione di come funzionano le leggi fisiche dell’universo.
Oggi, per comprendere pienamente il funzionamento dell’universo, è necessario superare questi pregiudizi culturali. La scienza moderna ha dimostrato che l’universo può emergere dal vuoto, grazie ai princìpi della fisica quantistica. Il modello cosmologico del “Big Bang”, ad esempio, suggerisce che tutto ciò che conosciamo è emerso da uno stato di densità infinita e spazio vuoto. Questa teoria rivoluzionaria sfida la visione tradizionale di un universo statico e immutabile e ci invita a ripensare il vuoto non come assenza, ma come potenziale creativo.
Il vuoto, dunque, è ben lontano dall’essere un concetto inutile o temuto. Esso rappresenta una condizione necessaria per il divenire, per la nascita e l’evoluzione dell’universo. L’idea che l’universo possa nascere dal vuoto non è solo una teoria scientifica, ma una profonda riflessione filosofica che ci porta a riconsiderare il nostro rapporto con l’esistenza e il nulla. Intendere questo concetto significa abbandonare le paure e i pregiudizi culturali che per millenni hanno limitato la nostra comprensione, aprendo nuove possibilità per sondare i misteri dell’universo e della realtà stessa.

 

 

 

Due trattati sul governo di John Locke

Vita, libertà e proprietà

 

 

 

Nel magnum opus Due trattati sul governo, pubblicata anonima nel 1690, John Locke tesse una tela intricata e raffinata di idee, che hanno plasmato i fondamenti del pensiero liberale moderno. Quest’opera non è un semplice trattato politico, ma attraversa l’essenza stessa della libertà e della legittimità politica, un inno ai diritti innati dell’individuo e alla sovranità del popolo.
Locke scrive contro il decoro di un’Inghilterra che si dibatte tra monarchia assoluta e le prime scintille di ribellione repubblicana. I suoi scritti emergono non solo come risposta alla tirannia, ma come luce guida verso un ordine basato sul consenso e sul riconoscimento dei diritti imprescindibili dell’uomo. Filosoficamente, Locke sfida l’idea del diritto divino dei re, sostenendo, invece, che il potere politico derivi dal consenso dei governati, un concetto rivoluzionario che ribaltava le strutture di potere esistenti.
Nel primo trattato, Locke intraprende una critica serrata e meticolosa delle teorie di Robert Filmer, un araldo del diritto divino dei re. Con una penna tanto incisiva quanto lo scalpello sul marmo, il filosofo decostruisce le argomentazioni di Filmer, mostrando come la sua visione sia non solo infondata, ma pericolosa per la costruzione di una società equa e giusta. Ma è nel secondo trattato che il cuore pulsante delle idee lockiane trova piena espressione. Lì, egli dipinge il ritratto di un governo ideale, radicato nel consenso e nella tutela dei diritti naturali. Quelle pagine rappresentano un manifesto per l’umanità, un chiaro promemoria che il vero scopo del governo sia il benessere dei suoi cittadini.
Locke è fermamente radicato nella tradizione del diritto naturale, che sostiene l’esistenza di diritti universali intrinseci all’essere umano, indipendenti da qualsiasi ordinamento statale. Questi diritti includono la vita, la libertà e la proprietà. Locke argomenta che ogni individuo abbia il diritto di proteggere questi aspetti fondamentali della propria esistenza e che sia compito primario del governo non solo rispettarli, ma garantirli. Se un governo fallisce nel proteggere questi diritti o, peggio, si rende autore di loro violazioni, il popolo non solo ha il diritto, ma il dovere morale di cambiare o rovesciare tale governo. Questa idea rappresenta una rottura radicale con le teorie del diritto divino e pone le basi per la moderna concezione della resistenza civile e della sovranità popolare.
Nel secondo trattato, inoltre, Locke delinea la sua visione del governo civile, ente creato dalla volontà collettiva dei cittadini, che si impegnano reciprocamente a rispettare e promuovere leggi fondate sulla ragione. Questo governo ha il dovere di essere imparziale e di agire nell’interesse del popolo, proteggendo i diritti individuali e promuovendo il bene comune.
Locke introduce anche il concetto di separazione dei poteri, una novità rispetto alla concezione più monolitica del potere tipica del suo tempo, che sarà poi sistematizzata da Montesquieu. Propone una distinzione tra il potere legislativo, il più importante per garantire leggi equanimi, e il potere esecutivo, responsabile dell’attuazione delle leggi. Questa distinzione mira a prevenire l’abuso di potere e a mantenere un equilibrio che protegga i diritti degli individui. Il governo, in questa visione, è limitato dalle leggi che esso stesso crea, un concetto rivoluzionario che anticipa le moderne democrazie costituzionali.

Uno degli aspetti più innovativi e influenti del pensiero di Locke riguarda la sua teoria della proprietà. Egli afferma che la proprietà nasca dal lavoro: utilizzando le proprie capacità e il proprio lavoro per trasformare le risorse naturali in beni utili, l’uomo acquisisce un diritto su di essi. Questa visione mette in luce il legame indissolubile tra libertà individuale e possesso, un concetto che ha profonde implicazioni politiche ed economiche, promuovendo l’idea di un mercato basato sui meriti individuali e sulla libertà.
Locke è stato spesso considerato quale strenuo sostenitore del contrattualismo, teoria che postula l’esistenza di un “contratto sociale” tra il governo e i governati. Questo contratto non è un accordo esplicito, ma un’intesa tacita secondo cui gli individui cedono una parte della loro libertà in cambio di protezione e ordine sociale. La legittimità di un governo, per Locke, dipende dalla sua capacità di salvaguardare i diritti fondamentali degli individui – come già accennato, la vita, la libertà e la proprietà – e dal consenso continuo dei governati. Al centro della filosofia di Locke, infatti, è la nozione dello stato di natura, un concetto filosofico in cui gli uomini vivono liberi e uguali, privi di un’autorità sovrana. Contrariamente a Thomas Hobbes, che descriveva lo stato di natura come una “guerra di tutti contro tutti”, Locke vede in esso una condizione di relativa pace e uguaglianza. Il passaggio dallo stato di natura al governo civile è motivato dalla necessità di proteggere i diritti individuali e di risolvere i conflitti che inevitabilmente emergono.
Locke non scrive in un vuoto teoretico, ma nel contesto della Gloriosa Rivoluzione del 1688 in Inghilterra, che vide l’abdicazione di Giacomo II e l’ascesa di Guglielmo d’Orange. Le sue teorie, quindi, non solo riflettevano le aspirazioni e le tensioni del suo tempo, ma offrivano anche una giustificazione filosofica per il cambiamento di regime, sostenendo il diritto del popolo a ribellarsi contro un sovrano tirannico che viola i diritti naturali.
La risonanza delle teorie lockiane non è relegata alle pagine di un libro o ai confini di un’epoca. Essa si estende attraverso i secoli, influenzando documenti fondamentali come la Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti del 4 luglio 1776, e le costituzioni di governi democratici in tutto il mondo. Locke non solo ha scritto di governo, ha fornito le fondamenta per una nuova alba della civiltà occidentale, un’era dove il governo esiste per servire il popolo, non per dominarlo.
Due trattati sul governo è un’opera che continua a illuminare il cammino verso la libertà e la giustizia. Locke, con la sua visione penetrante, rimane un faro di saggezza nel tumultuoso mare delle teorie politiche.

 

 

 

La musica di fra Giovanni da Verona:

tra preghiere e canti alla Madonna

 

 

di Carmela Puntillo

 

 

Una cortina scarsamente penetrabile rende purtroppo ardua la ricostruzione della biografia e della formazione di fra Giovanni, nato a Verona intorno al 1457 e qui sicuramente morto nel 1525. I suoi spostamenti fisici, i suoi incarichi come religioso e le sue commissioni come intarsiatore, intagliatore ed architetto si evincono soprattutto dalle Familiarum Tabulae, registri conservati nell’archivio dell’archicenobio di Monte Oliveto Maggiore contenenti i nominativi degli olivetani presenti annualmente nei monasteri della congregazione…

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De l’infinito, universo et mondi di Giordano Bruno

Nel cuore dell’infinito: dialoghi sull’universo senza confini
e sull’uomo nell’abbraccio del cosmo

 

 

 

De l’infinito, universo et mondi (1584) costituisce una delle opere più affascinanti e radicali di Giordano Bruno, in cui il filosofo sviluppa le sue teorie cosmologiche, metafisiche e filosofiche. Questo testo, composto dall’autore nel suo “periodo londinese”, si articola come un dialogo suddiviso, a sua volta, in cinque dialoghi, una forma letteraria che riflette l’intento del filosofo di far convergere più voci, idee e prospettive, creando un discorso dinamico e interattivo. Bruno non si limita a esporre le sue dottrine, ma le mette in discussione attraverso le interazioni tra i vari personaggi e interlocutori, seguendo la tradizione dei dialoghi platonici.
Il primo tema cardine, che emerge già nel titolo, è quello dell’infinito. Bruno critica la concezione aristotelico-tolemaica di un universo finito e chiuso, limitato dalle sfere cristalline e governato da leggi statiche e immutabili. Propone, invece, un cosmo senza limiti, un’infinità che non solo sovverte le leggi della fisica del suo tempo, ma sfida anche le visioni religiose dominanti. Rifiuta l’idea di un mondo diviso tra la perfezione delle sfere celesti e l’imperfezione del mondo sublunare, affermando che l’infinito è ovunque e in ogni cosa. Non c’è un luogo “più elevato” rispetto a un altro; tutto è parte di una medesima realtà infinita. L’universo, quindi, non ha un centro e non ha confini, ma è un continuo, in cui ogni stella è un mondo e ogni mondo è abitato. Il primo dialogo, quindi, si snoda come una riflessione filosofica che, sebbene mascherata da questioni cosmologiche, nasconde una profonda implicazione metafisica: l’infinito non è solo spaziale, ma anche ontologico, un modo di pensare l’essere senza confini e senza gerarchie.


Il secondo grande tema di De l’infinito, universo et mondi è la teoria della pluralità dei mondi. Bruno rifiuta con forza l’idea che esista un solo mondo abitato, quello terrestre. I mondi sono infiniti, così come infiniti sono gli esseri che li abitano. Questa concezione non è soltanto una visione cosmologica rivoluzionaria, ma una sfida aperta alla teologia cristiana del tempo, che poneva la Terra e l’uomo al centro della creazione divina. Nella struttura dialogica dell’opera, l’autore non si limita a una mera esposizione scientifica; egli tratta la pluralità dei mondi come un’allegoria filosofica: la molteplicità del reale è specchio dell’infinita creatività dell’universo. Ogni mondo ha la sua propria natura, le sue leggi, i suoi abitanti, eppure tutti fanno parte dello stesso ordine universale. È come se Bruno intendesse dire che non esiste un “modello unico” di realtà, ma molteplici forme dell’essere, tutte ugualmente valide e degne di considerazione.
Altro aspetto centrale dell’opera è la critica all’antropocentrismo. Il filosofo smonta l’idea che l’uomo sia il fine ultimo della creazione o il punto focale dell’universo. Se l’universo è infinito, l’uomo non può essere il centro né il più importante tra gli esseri. Al contrario, è soltanto una parte di un cosmo immenso, in cui infiniti altri esseri vivono e si evolvono secondo leggi proprie. In questa visione, Bruno anticipa una nuova concezione dell’uomo e della sua posizione nel mondo, molto più umile e consapevole dei propri limiti. L’antropocentrismo crolla sotto il peso dell’infinità cosmica e della pluralità dei mondi, lasciando spazio a una visione più ecumenica, in cui tutte le forme di vita partecipano alla stessa grandezza dell’universo. Questo concetto è legato a una profonda riflessione etica e spirituale: l’uomo deve riconoscere la propria “piccolezza” e comprendere che la sua esistenza è parte di un ordine cosmico più vasto. La visione bruniana è quella di un cosmo vivente, in cui ogni cosa, ogni essere, è espressione di una divinità che pervade tutto, ma che non si manifesta in una forma rigida e prescrittiva, come nelle teologie tradizionali.
Un altro elemento fondamentale dell’opera è la dottrina panteistica, che Bruno sviluppa con grande forza nei vari dialoghi. Per lui, Dio è l’anima stessa dell’universo, non un’entità trascendente, ma una forza immanente che permea ogni cosa. Dio non è separato dalla creazione, ma è la sostanza stessa dell’infinito. Questa visione ribalta la tradizionale distinzione tra Creatore e creazione, tipica della teologia cristiana. Bruno non teme di propinare una visione eretica per il suo tempo: la divinità non è un re distante che governa dall’alto, ma è il principio vitale che scorre in ogni atomo, in ogni stella, in ogni essere vivente. L’infinito cosmico è, in un certo senso, la manifestazione del divino, ed è qui che si scorge il profondo spirito mistico che anima la sua filosofia.
Infine, Bruno conclude il suo percorso con una riflessione etica. Se l’universo è infinito e ogni essere fa parte di questo immenso organismo cosmico, allora ogni atto umano deve essere orientato verso l’armonia con l’universo stesso. La vera saggezza consiste nel riconoscere l’unità del tutto e nel vivere in accordo con la natura infinita dell’universo. L’uomo non deve più agire per imporre il suo dominio su una natura inferiore, ma per inserirsi in essa con rispetto e consapevolezza.
Con De l’infinito, universo et mondi, Giordano Bruno ci consegna un’opera complessa e rivoluzionaria, che non solo sfida le concezioni cosmologiche del suo tempo, ma sostiene una visione radicalmente nuova dell’essere umano, della natura e del divino. Con la sua struttura dialogica e le sue dottrine innovative, Bruno non solo anticipa molte delle teorie scientifiche moderne, ma apre la strada a una riflessione esistenziale che ci invita a ripensare il nostro posto nell’universo, non più come dominatori, ma come partecipanti di un infinito meraviglioso e misterioso.