Archivio mensile:Novembre 2024

Lo “scacco” esistenziale

Limite e consapevolezza nella filosofia
di Jaspers, Kierkegaard e Sartre

 

 

 

 

Karl Jaspers, uno dei principali rappresentanti della filosofia esistenzialista, sviluppa un’analisi profonda sulla condizione dell’uomo di fronte alla realtà, sostenendo che ogni tentativo di comprensione del mondo si scontra inevitabilmente con un “scacco”, una sorta di limite insuperabile. Secondo il filosofo, lo scacco o il naufragio non rappresenta un semplice fallimento, ma assume il ruolo di strumento di chiarificazione dell’esistenza stessa. Per Jaspers, lo scacco è infatti il senso ultimo della vita, una chiave interpretativa del divenire. Questo fallimento diventa così il mezzo per giungere a una consapevolezza più profonda dell’essere e per riconoscere la finitezza dell’uomo e i limiti della ragione.
La frase ricorrente di Jaspers, “filosofare è imparare a morire”, esprime un concetto chiave del suo pensiero: il confronto con lo scacco e l’accettazione dei limiti umani sono processi essenziali per cogliere l’essenza della propria esistenza. Per lui, filosofare non è semplicemente cercare risposte o verità assolute, ma è piuttosto un’esperienza che implica l’accettazione del “naufragio” dell’intelletto e della volontà di dominio sulla realtà. Imparare a morire significa, in questo contesto, imparare a sperimentare lo scacco, vivere consapevolmente i limiti e la vulnerabilità dell’essere umano.
Questa visione è stata condivisa, pur con prospettive differenti, da altri filosofi esistenzialisti. Søren Kierkegaard, ad esempio, ha percorso la dimensione esistenziale dell’individuo in termini di angoscia e disperazione, sentimenti che scaturiscono dalla consapevolezza del proprio limite e dalla percezione di uno “scacco” esistenziale. La disperazione, secondo Kierkegaard, è la condizione in cui l’uomo si trova di fronte all’incertezza del proprio essere, la sua incapacità di dominare il senso della propria esistenza. Lo “scacco” qui non è solo un ostacolo ma è la condizione ontologica dell’essere umano, che si confronta con il paradosso di essere libero, ma, al contempo, limitato. La sua angoscia, quindi, è il risultato della tensione tra ciò che l’uomo vorrebbe essere e ciò che realmente è, in una continua oscillazione tra possibilità e limite.

Jean-Paul Sartre, da parte sua, porta avanti l’idea di “scacco” sotto un’altra luce, riconducendolo a quello che lui chiama il “fine assoluto”. Nella sua prospettiva, la condizione esistenziale non riguarda soltanto l’angoscia o la disperazione ma è segnata dalla scoperta del fallimento della conoscenza oggettiva di arrivare a comprendere il senso ultimo della vita. Per Sartre, l’uomo è “condannato alla libertà”, poiché senza riferimenti assoluti è costretto a scegliere e a dare un senso alla propria esistenza in un mondo privo di significati preconfezionati. In questo processo, lo scacco è la consapevolezza della mancanza di un fondamento ultimo della realtà che, paradossalmente, libera l’individuo di creare significato in totale autonomia, anche a rischio dell’assurdo.
Il concetto di “scacco” o “naufragio” diventa, quindi, centrale nella filosofia esistenzialista, perché permette di passare dalla conoscenza oggettiva a una forma di conoscenza più intima e personale, la conoscenza esistentiva. Non si tratta di un sapere che si può acquisire attraverso la logica o la razionalità, ma di un sapere vissuto, esperienziale, che nasce dal confronto diretto con il limite, l’incertezza e il fallimento. Questa conoscenza esistentiva, frutto di una profonda presa di coscienza del limite umano, conduce l’individuo a un’autenticità che trascende la pura razionalità, spingendolo a esplorare il significato della propria esistenza nella sua pienezza e complessità.
Per i filosofi esistenzialisti, pertanto, il concetto di “scacco” non rappresenta semplicemente una sconfitta, ma è piuttosto un passaggio essenziale verso una comprensione più profonda e autentica dell’essere umano. Il “naufragio” della conoscenza razionale e oggettiva apre infatti la strada a una consapevolezza più completa, che si rivela solo attraverso l’accettazione del limite e la riflessione esistenziale. In questo modo, lo scacco diventa non solo una condizione inevitabile della vita, ma anche una via per la verità esistenziale e l’autenticità individuale.

 

 

 

 

Bernardino Telesio

Il precursore della scienza moderna tra empirismo e fede

 

 

 

 

Bernardino Telesio (1509-1588), filosofo rinascimentale italiano, è considerato tra i precursori della scienza moderna grazie al suo approccio empirico e alla critica del sapere dogmatico di stampo aristotelico e scolastico. Un punto centrale della sua filosofia è il legame tra naturalismo e religione, che egli interpreta come una sintesi unica tra osservazione empirica della natura e fede religiosa.
Telesio è stato uno dei primi filosofi a promuovere un metodo conoscitivo basato sull’osservazione diretta della natura, opponendosi alla speculazione metafisica. A suo avviso, per comprendere la realtà occorreva abbandonare i dogmi della filosofia Scolastica, specialmente quelli di matrice aristotelica, per affidarsi all’esperienza sensibile. Questo approccio lo portò a concepire la natura come un’entità dotata di princìpi interni e capaci di autoregolarsi, senza bisogno di interventi divini.
Nella sua opera principale, De rerum natura iuxta propria principia (La natura delle cose secondo i propri princìpi), Telesio sostiene che la natura operi seguendo leggi intrinseche e indipendenti, come il caldo e il freddo, senza richiedere interferenze soprannaturali. Questa interpretazione della natura come forza autonoma anticipa il naturalismo moderno, che si sarebbe sviluppato successivamente con Galileo e Newton.
Nonostante il suo orientamento empirico, Telesio non rifiutava la religione. Uomo di fede, egli ne riconosceva l’importanza per la vita dell’uomo e per la comprensione dell’universo. La sua conciliazione tra fede e visione naturalistica è, però, complessa e ambigua: pur non negando l’esistenza di Dio e dei princìpi religiosi, sosteneva che questi avesse creato un mondo capace di autogestirsi. Ciò permetteva di concepire la natura come un sistema libero e indipendente, pur sempre frutto della volontà divina.

Tale concezione, tuttavia, si avvicina a un’idea di deismo: Dio avrebbe creato il mondo e le sue leggi, ma non interverrebbe continuamente nel suo funzionamento. Telesio, così, garantiva l’autonomia della natura senza negare la presenza divina, che per lui restava essenziale. La religione, quindi, non si opponeva alla conoscenza empirica, ma rispondeva a domande di ordine spirituale: la filosofia naturale esplorava i princìpi fisici del mondo, mentre la religione si occupava dell’origine e del senso ultimo dell’esistenza.
La conciliazione tra naturalismo e religione in Telesio costituisce uno dei tratti più originali della sua filosofia. A differenza di molti pensatori medievali e rinascimentali, che vedevano nella natura un riflesso diretto della volontà divina, Telesio riteneva che essa possedesse una propria autonomia, senza che ciò implicasse la negazione di Dio, ma piuttosto una reinterpretazione del suo ruolo. Dio era l’origine della natura, ma questa, una volta creata, operava seguendo le proprie leggi.
Questo pensiero risultò innovativo, poiché si distaccava dal teocentrismo medievale e anticipava il razionalismo e l’empirismo, consegnando una visione del mondo comprensibile attraverso leggi naturali autonome, ma dove la religione forniva un contesto morale e spirituale. Telesio pose, quindi, le basi per una filosofia in cui la religione poteva coesistere con la ricerca empirica della realtà.
Il pensiero di Telesio non fu privo di critiche, specie da parte dei circoli religiosi e accademici conservatori, che lo consideravano una minaccia alla visione tradizionale del mondo. Tuttavia, la sua filosofia influenzò pensatori come Tommaso Campanella e Giordano Bruno, che proseguirono nello sviluppo di un’indagine empirica della natura e di una religiosità meno vincolata dai dogmi ecclesiastici.
Telesio gettò inoltre le basi per una forma di pensiero scientifico che sarebbe diventata fondamentale per lo sviluppo della scienza moderna. La sua idea di una natura dotata di proprie leggi preannunciò il metodo scientifico di Galileo e la concezione di un mondo comprensibile attraverso l’osservazione e la ragione, un mondo che, pur riflettendo l’opera di Dio, non necessitava di costante intervento divino per funzionare.
Bernardino Telesio, dunque, è una figura chiave nel passaggio dalla visione medievale a quella moderna della natura e del sapere. La sua ricerca di una sintesi tra naturalismo e religione rappresenta un momento cruciale nella storia della filosofia, proponendo una natura dotata di leggi autonome senza escludere una dimensione religiosa. Telesio, così facendo, ha gettato le basi per una visione del mondo che avrebbe consentito lo sviluppo della scienza moderna, lasciando aperta la possibilità di una dimensione spirituale in cui l’uomo potesse continuare a cercare risposte sul senso ultimo della vita.
In questo modo, la filosofia di Telesio dimostra che è possibile perseguire la conoscenza attraverso l’osservazione della natura, trovando al contempo nella fede una cornice etica e spirituale in armonia con l’indagine empirica.

 

 

 

 

L’euristica filosofica

Strategie mentali per comprendere la realtà
da Aristotele a Kahneman e Tversky

 

 

 

 

L’euristica, in ambito filosofico, è un concetto utilizzato per descrivere metodi intuitivi o strategie mentali che gli esseri umani impiegano per risolvere problemi e prendere decisioni in modo rapido ed efficiente. Il termine deriva dal greco “heurískein”, che significa “scoprire” o “trovare”. Sebbene l’euristica sia spesso associata alla psicologia cognitiva, in filosofia costituisce una riflessione profonda sui limiti della razionalità e sull’affidabilità delle intuizioni umane. Nel corso della storia della filosofia, vari pensatori hanno proposto teorie sul ruolo dell’euristica, ciascuno con una prospettiva unica che si interseca con la logica, l’etica e la metafisica.
Aristotele, considerato il padre della logica, sviluppò il concetto di sillogismo come strumento euristico per comprendere il mondo attraverso il ragionamento deduttivo. I suoi sillogismi, basati su premesse maggiori e minori, rappresentano una forma primitiva di euristica poiché aiutano a derivare conclusioni senza esaminare ogni singolo caso. Aristotele proponeva che il ragionamento euristico, pur non essendo sempre infallibile, fosse utile per raggiungere conoscenze generali su princìpi naturali e morali. In questo modo, l’euristica era vista come un compromesso tra la ricerca della verità e l’efficacia pratica. Un sillogismo classico potrebbe essere: “Tutti gli uomini sono mortali; Socrate è un uomo; dunque, Socrate è mortale”. Questo tipo di ragionamento non esamina la mortalità in senso assoluto ma fornisce una verità pratica utile, che si basa sull’assunzione condivisa.
Immanuel Kant osservò che l’intelletto umano non è in grado di comprendere completamente la realtà in sé stessa (il noumeno) ma può solo accedere ai fenomeni attraverso una struttura euristica. Nella Critica della ragion pura, Kant introduce concetti quali le categorie dell’intelletto, che funzionano come euristiche per interpretare l’esperienza. Queste categorie –causalità, quantità e qualità, tra le altre – sono strumenti innati della mente umana che aiutano a organizzare l’esperienza empirica, rendendo possibile la conoscenza. Secondo Kant, l’idea di causalità è una sorta di euristica innata: noi percepiamo il mondo in termini di cause ed effetti, perché ciò ci permette di dare un senso alla realtà. Questa non è una rappresentazione oggettiva della natura, ma una “scorciatoia” necessaria per orientarsi nel mondo fenomenico.

Charles Sanders Peirce, fondatore del pragmatismo, propose l’abduzione come tipo di ragionamento euristico. L’abduzione è un processo intuitivo attraverso il quale si formulano ipotesi a partire da dati incompleti o incerti. Peirce sottolineò che il pensiero euristico non segue le rigide regole della deduzione o dell’induzione, ma si basa sull’interpretazione creativa di indizi per formulare una teoria plausibile. L’abduzione, per Peirce, è centrale nei processi scientifici, poiché permette di avanzare nuove ipotesi senza dati completi, per poi testarle successivamente. Immaginiamo di trovare tracce di fango all’ingresso di casa. Con l’abduzione, possiamo ipotizzare che qualcuno con scarpe sporche sia entrato. Non è una conclusione certa, ma un’ipotesi plausibile che nasce dall’interpretazione euristica di un segnale.
Hans-Georg Gadamer, nei suoi lavori sull’ermeneutica, sostiene che ogni interpretazione sia influenzata da pregiudizi e da una comprensione preliminare che funge da euristica. Secondo Gadamer, il processo interpretativo non è mai neutrale ma sempre mediato da tradizioni culturali e storiche, che guidano la comprensione. In questo contesto, l’euristica si manifesta come un filtro interpretativo, attraverso il quale l’individuo costruisce il significato dei testi e delle esperienze. Gadamer afferma che quando leggiamo un testo antico, i nostri pregiudizi e la nostra conoscenza pregressa ci guidano nell’interpretazione. Essi fungono da euristica per orientarci in una comprensione che non può essere puramente oggettiva, ma è arricchita dalla nostra prospettiva storica e culturale.
Daniel Kahneman e Amos Tversky, pur essendo psicologi, hanno avuto un impatto rilevante sulla filosofia della mente e dell’etica con la loro teoria delle euristiche. Essi hanno dimostrato che gli esseri umani spesso utilizzano scorciatoie mentali per prendere decisioni, anche se ciò comporta il rischio di errori sistematici. Le euristiche come la “rappresentatività” e la “disponibilità” mostrano come tendiamo a giudicare la probabilità di un evento in base alla sua somiglianza con altri eventi o alla facilità con cui ci viene in mente, anziché basarci su dati oggettivi. Ad esempio, se qualcuno ha recentemente letto di un incidente aereo, potrebbe sopravvalutare la probabilità di un incidente simile a causa dell’euristica della disponibilità. Questo errore di giudizio riflette il modo in cui l’euristica influenza le scelte quotidiane, anche se non sempre conduce alla verità.
L’euristica in filosofia, pertanto, approfondisce come strumenti di pensiero, scorciatoie mentali e pregiudizi strutturino la conoscenza e influenzino la nostra capacità di interpretare il mondo. Da Aristotele a Kant, da Peirce a Gadamer e, infine, a Kahneman e Tversky, l’euristica è stata analizzata come un mezzo essenziale per l’orientamento umano nel mondo, nonostante i suoi limiti e le sue imperfezioni. La filosofia, quindi, non si limita a criticare l’euristica per i suoi potenziali errori, ma la riconosce come una risorsa indispensabile per navigare la complessità della realtà.

 

 

 

Il noema

Dall’intuizione aristotelica alla fenomenologia di Husserl

 

 

 

 

Il termine noema rimanda un concetto filosofico che ha avuto un’evoluzione notevole nel corso della storia del pensiero, passando dall’epistemologia aristotelica alla fenomenologia husserliana.
Nel contesto della filosofia aristotelica, il noema è inteso come una nozione fondamentale dell’intelletto. Secondo Aristotele, la conoscenza si articola in diversi livelli, partendo da una base di percezione sensoriale fino ad arrivare a una comprensione più complessa e astratta.
Aristotele definisce il noema come ogni nozione conosciuta “immediatamente” dall’intelletto, cioè senza passare per un’analisi discorsiva o per una deduzione logica. Il noema rappresenta, quindi, un’intuizione intellettuale immediata, una comprensione unitaria di un oggetto o di un’idea. È un concetto che non richiede ulteriore elaborazione, perché è percepito come un tutto indivisibile. In questo senso, il noema è considerato il punto di partenza della conoscenza discorsiva. La conoscenza discorsiva, ovvero la capacità di ragionare, argomentare e costruire concetti complessi, si basa, infatti, su queste intuizioni iniziali. In Aristotele, dunque, il noema è il materiale “grezzo” su cui l’intelletto lavora per costruire una comprensione più articolata della realtà.
Con Edmund Husserl, fondatore della fenomenologia, il termine noema acquisisce una nuova dimensione e un significato molto più specifico rispetto a quello aristotelico. Per Husserl, il noema è legato alla struttura dell’atto percettivo e alla teoria della coscienza intenzionale. Husserl sostiene che ogni atto di coscienza è intenzionale, cioè è sempre rivolto verso un oggetto. Questo oggetto, che viene colto dall’atto intenzionale della coscienza, è definito, appunto, noema. È il “contenuto” dell’atto di coscienza, ciò che viene percepito, pensato o immaginato. Il noema, quindi, è la realtà che appare alla coscienza nel momento in cui questa compie un atto percettivo o intellettuale. Nella fenomenologia husserliana, la distinzione tra noesi e noema è cruciale. La noesi è l’atto stesso della percezione o dell’intenzionalità della coscienza (ad esempio, il percepire, il pensare, l’immaginare), mentre il noema è il contenuto dell’atto, ciò che viene “pensato” o percepito. In altre parole, mentre la noesi si riferisce al lato soggettivo dell’esperienza, il noema riguarda il lato oggettivo o l’oggetto intenzionale così come si manifesta alla coscienza.

La differenza principale tra Aristotele e Husserl risiede nell’approccio epistemologico e fenomenologico che entrambi danno al concetto di noema. Per Aristotele, il noema è un’intuizione immediata e indivisibile dell’intelletto; è una comprensione immediata di una nozione, non mediata da ragionamenti discorsivi. Per Husserl, invece, il noema non è tanto un atto intuitivo quanto un oggetto dell’intenzionalità della coscienza. È ciò verso cui la coscienza si dirige, il “pensato” in ogni atto di coscienza intenzionale. In Aristotele, il soggetto è più implicito nel processo di conoscenza; l’attenzione è posta sull’oggetto conosciuto in modo immediato. Husserl, al contrario, mette in primo piano la coscienza e l’atto intenzionale del soggetto, rendendo il noema una costruzione fenomenologica che dipende dal modo in cui la coscienza percepisce e interpreta la realtà.
Un aspetto comune in entrambe le concezioni, che va sottolineato, è la distinzione tra noema e sensazione. In entrambi i filosofi, il noema non è un semplice dato sensoriale, ma un’entità intellettuale o intenzionale. In Aristotele, il noema si distingue dalla sensazione, perché non è una percezione sensoriale diretta, ma un’intuizione dell’intelletto che percepisce l’essenza o la forma di un oggetto. In Husserl, invece, la distinzione è ancora più netta: il noema è l’oggetto intenzionale della coscienza, che si manifesta indipendentemente dalla mera sensazione fisica. La sensazione può essere il punto di partenza dell’esperienza, ma il noema rappresenta la realtà così come è data alla coscienza nella sua complessità fenomenologica.
L’idea di noema costituisce, pertanto, un esempio illuminante di come i concetti filosofici possano evolvere nel tempo, assumendo significati diversi a seconda del contesto teorico. In Aristotele, il noema è il punto di partenza della conoscenza intellettuale, un’intuizione immediata e indivisibile dell’intelletto. In Husserl, diventa l’oggetto intenzionale di un atto di coscienza, il “pensato” che emerge dall’interazione tra il soggetto e il mondo fenomenologico. Questa evoluzione riflette anche il cambiamento nella concezione della conoscenza: da una visione realista e oggettiva (Aristotele) a una visione fenomenologica e soggettiva (Husserl), dove l’oggetto della conoscenza non è qualcosa di indipendente dalla coscienza, ma qualcosa che si manifesta e prende forma attraverso l’esperienza soggettiva.
Il noema, quindi, non è solo un concetto filosofico, ma una lente attraverso cui osservare il modo in cui la mente umana si relaziona con la realtà, trasformando l’esperienza sensoriale in una comprensione intellettuale o fenomenologica più complessa e articolata.