Il concetto di sublime, come delineato da Kant nelle sue opere fondamentali, in particolare nella Critica del Giudizio (Kritik der Urteilskraft, 1790), costituisce uno dei momenti più alti della sua estetica trascendentale. Qui, il sublime non è soltanto un’esperienza estetica, ma un evento che svela la struttura della relazione tra la sensibilità umana e le facoltà superiori della ragione, gettando luce sulla nostra condizione di esseri finiti ma dotati di una capacità di pensiero che si protende verso l’infinito.
Kant distingue nettamente il sublime dal bello, un’opposizione primaria nel suo pensiero estetico. Mentre il bello suscita armonia e piacere attraverso la proporzione e l’ordine, il sublime produce un’emozione più complessa, caratterizzata da una sorta di dissonanza iniziale. Questa esperienza non si limita a ciò che è piacevole, ma comprende un sentimento misto di timore reverenziale e di attrazione, di disagio e di esaltazione. Il sublime, come lo descrive Kant, è ciò che, per il fatto di non poter essere contenuto dall’immaginazione, richiama l’idea della totalità e della grandezza assoluta, trovando nell’infinito il suo orizzonte ultimo.
Nella Critica del Giudizio, il filosofo analizza il sublime attraverso due categorie principali: il sublime matematico e il sublime dinamico.
Nel sublime matematico il soggetto è posto di fronte a grandezze illimitate, come l’immensità del cielo stellato, che trascendono le capacità dell’immaginazione di rappresentare tali vastità in modo unitario. L’immaginazione, pur impegnandosi nello sforzo di comprendere ciò che appare sconfinato, fallisce nel suo compito. Tuttavia, è proprio in questo fallimento che si manifesta la superiorità della ragione: mentre l’immaginazione è impotente di fronte all’infinità della grandezza, la ragione è in grado di concepire l’idea di infinito come un concetto puro. Questo processo produce un piacere intellettuale che, sebbene inizialmente accompagnato da una sensazione di insufficienza, conduce infine alla consapevolezza della nostra capacità razionale di elevarci al di sopra del mondo sensibile. Kant stesso, nella celebre Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, fa notare come il cielo stellato sia un esempio paradigmatico del sublime matematico. Di fronte alla vastità del cosmo, siamo sopraffatti dalla nostra piccolezza fisica, ma al tempo stesso affermiamo la nostra dignità come esseri capaci di concepire tali immensità attraverso la ragione.
Il sublime dinamico, invece, si manifesta nella percezione della potenza della natura, quando fenomeni come tempeste, terremoti, eruzioni vulcaniche o burrasche marine evocano un senso di pericolo e impotenza. Qui l’immaginazione non riesce a dominare ciò che appare schiacciante e terribile. Tuttavia, mentre il nostro corpo è consapevole della propria vulnerabilità, lo spirito riconosce la superiorità della libertà e della morale rispetto alla forza materiale della natura. Kant sottolinea come questa presa di coscienza del dominio della nostra ragione sulle potenze esterne trasformi il sentimento iniziale di terrore in una profonda esaltazione. In questo senso, il sublime dinamico è profondamente legato all’etica: la grandezza della natura fisica, pur minacciosa, risulta inferiore alla grandezza della legge morale che risiede in noi. Tale esperienza si pone in continuità con la filosofia pratica di Kant, dove la libertà morale rappresenta il nucleo della dignità umana.
Kant non si limita a trattare il sublime come un’emozione estetica, ma lo integra nel suo sistema trascendentale, attribuendogli un significato filosofico profondo. Il sublime non è un dato sensibile; è il risultato di un’interazione tra le facoltà cognitive umane: l’immaginazione, la sensibilità e la ragione. Nella dialettica del sublime, il soggetto scopre i propri limiti sensoriali e, allo stesso tempo, riconosce la propria capacità di trascenderli attraverso la ragione. Questo momento di superamento rivela, in termini kantiani, il noumeno, la realtà intelligibile che si cela dietro il mondo fenomenico.
Un importante collegamento con il sublime emerge anche nel celebre passaggio conclusivo della Critica della Ragion Pratica (1788), dove Kant menziona il “cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me”. Qui, il cielo stellato rappresenta l’immensità del cosmo, evocatrice del sublime matematico, mentre la legge morale rappresenta la grandezza dell’essere razionale, capace di autodeterminarsi secondo princìpi universali. Questo duplice richiamo riflette l’intima relazione tra estetica, metafisica e morale nel sistema kantiano.
Elemento fondamentale del sublime in Kant è il suo legame con l’idea di libertà. L’esperienza del sublime non solo rivela la superiorità della ragione, ma ci pone di fronte alla nostra libertà come esseri morali. Questo legame emerge chiaramente nella distinzione tra la natura fisica, che ci domina sul piano materiale, e la natura intelligibile, che noi dominiamo attraverso la ragione pratica. In questa prospettiva, il sublime diventa un momento di auto-riconoscimento, in cui la nostra esistenza morale si staglia con chiarezza contro la finitezza della nostra esistenza sensibile.