Archivi giornalieri: 18 Gennaio 2025

Luce nell’ombra

Il canto malinconico di Manfredi

 

 

Dedicato a Manfredi Brichetto Scotti

 

 

 

Tra i tanti spiriti che Dante incontra lungo il suo viaggio letterario ultraterreno, Manfredi di Svevia si distingue per la dolente dignità e per il tragico intreccio di storia, politica e redenzione. Nel Canto III del Purgatorio, egli appare quale figura luminosa, immersa in una malinconia che non è disperazione, ma consapevolezza del destino umano e della misericordia divina. La sua vicenda, narrata nei versi danteschi, è un richiamo alla fragilità del potere terreno e alla speranza eterna che si accende nel pentimento.
Figlio illegittimo dell’imperatore Federico II e di Bianca Lancia d’Agliano, Manfredi incarnava molte delle virtù e dei difetti della dinastia sveva. Nato nel 1232, fu cresciuto in un ambiente di raffinata cultura, che lo plasmò come poeta e uomo d’ingegno. Al pari del padre Federico, fu un mecenate delle arti e della letteratura e la sua corte fu un centro di straordinario fermento culturale. Tuttavia, la sua vita non fu solo votata alla cultura: fu un abile stratega militare e politico, che lottò per consolidare il Regno di Sicilia contro le minacce dei papi e dei nemici esterni. Dopo la morte di Federico II e del fratellastro Corrado IV, assunse la reggenza del regno, che proclamò suo nel 1258. La sua bellezza fisica e il carisma personale contribuirono a creare il mito di un re amatissimo dal popolo, ma odiato dalla Chiesa, che lo scomunicò ripetutamente per la sua resistenza all’autorità papale. Manfredi trovò la morte nella battaglia di Benevento, nel 1266, sconfitto dall’esercito angioino di Carlo I, inviato da papa Clemente IV per estirpare la dinastia sveva. La sua morte fu l’epilogo di una vita segnata dal contrasto tra ambizione e persecuzione, tra grandezza e condanna.
Nel Purgatorio, Dante lo incontra tra le anime degli scomunicati, che attendono di purificarsi per salire verso il Paradiso. Il re è descritto con delicatezza e rispetto, quasi con affetto, come un’apparizione luminosa ma malinconica. Manfredi è presentato con un gesto umile e regale insieme, svelando la sua identità con un senso di tragica ironia:

Io mi volsi ver’ lui e guarda il fiso:
biondo era e bello e di gentile aspetto,
ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso.

La descrizione fisica è simbolica: la bellezza del principe è spezzata da una ferita, un dettaglio che richiama la sua morte violenta e il destino travagliato. L’elemento lirico del verso si mescola alla concretezza della sua storia, rendendo Manfredi una figura profondamente umana e poetica.

Manfredi narra a Dante il momento della sua fine, quando, ferito a morte, si rivolse a Dio con un pentimento sincero. I versi sottolineano la potenza della misericordia divina, che supera ogni giudizio terreno:

Poscia ch’io ebbi rotta la persona
di due punte mortali, io mi rendei,
piangendo, a quei che volontier perdona.

Questa ammissione di pentimento, accompagnata dal verbo “piangendo,” dona alla figura di Manfredi una dimensione struggente. Egli, sovrano orgoglioso e guerriero indomito, si arrende infine alla grazia divina, trovando la redenzione nel momento della massima vulnerabilità.
Il racconto di Manfredi si concentra poi sulla crudele sorte del suo corpo dopo la morte. L’arcivescovo di Cosenza, su ordine del papa, fece dissacrare la sua sepoltura, un atto che intendeva cancellare ogni traccia della sua esistenza. Le sue ossa furono gettate al di là del fiume Verde, oltre i confini del Regno di Napoli:

l’ossa del corpo mio sarieno ancora
in co del ponte presso a Benevento,
sotto la guardia de la grave mora.
Or le bagna la pioggia e move il vento
di fuor dal regno, quasi lungo ’l Verde,
dov’e’ le trasmutò a lume spento.
Per lor maladizion sì non si perde,
che non possa tornar, l’etterno amore,
mentre che la speranza ha fior del verde.

Questa immagine del “fior del verde” è profondamente lirica e simbolica: il verde della speranza divina contrasta con la desolazione del luogo dove furono gettate le sue spoglie. Anche qui, Dante ribalta la condanna umana: nonostante l’ingiustizia terrena, l’anima di Manfredi è accolta dalla misericordia divina. Il suo messaggio è un grido contro l’arroganza del potere ecclesiastico, che non può limitare la grazia di Dio.
Manfredi incarna uno dei temi fondamentali della Divina Commedia: la possibilità della redenzione, che è aperta a tutti, anche agli scomunicati e ai peccatori più gravi, purché si pentano sinceramente. La sua figura richiama altre anime del Purgatorio, come Bonconte da Montefeltro, che si salva grazie a un ultimo pensiero rivolto a Dio.
La storia di Manfredi risuona anche come un ammonimento per i lettori: il potere terreno è effimero, ma la salvezza è eterna. Dante utilizza la sua vicenda per criticare l’eccessiva severità della Chiesa medievale e per ribadire il primato della misericordia divina. L’umanità di Manfredi, il suo pentimento e la sua speranza sono un esempio di come la grazia possa illuminare anche le esistenze più tormentate.
La figura di Manfredi nella Divina Commedia è un intreccio di storia, poesia e teologia. Il suo racconto, intriso di malinconia e speranza, supera la dimensione individuale per diventare un simbolo universale. Egli non è solo un re sconfitto, ma un’anima che trova la pace nel riconoscimento della propria fragilità e nella fiducia nella misericordia divina.
Le sue ultime parole a Dante sono un invito a guardare oltre le apparenze, oltre i giudizi umani, e a confidare nella giustizia divina:

Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,
revelando a la mia buona Costanza
come m’ hai visto, e anco esto divieto;
ché qui per quei di là molto s’avanza.

Con queste parole, Manfredi riafferma la sua identità non come re, ma come figlio di Dio, riconquistando quella dignità che gli era stata negata in vita.

 

 

 

 

 

Come un fucile carico. La vita di Emily Dickinson

 

 

Recensione di Carmela Puntillo

 

 

 

Un libro appassionante e istruttivo per chi vuole affrontare la lettura delle lettere e delle poesie di Emily Dickinson, apportatrice della cultura e dei valori della società americana di estrazione puritana (utile soprattutto per gli studiosi di letteratura americana) è Come un fucile carico. La vita di Emily Dickinson, della scrittrice sudafricana Lyndall Gordon, Fazi Editore, 2017. La biografia traccia una panoramica molto approfondita dell’opera della Dickinson, vissuta nella seconda metà dell’Ottocento negli Stati Uniti, e lo fa attraverso le vicende personali e della famiglia, le quali figurano così come l’origine della sua produzione. Il libro scorre come una cronaca della vita e della mentalità di una piccola cittadina degli Stati Uniti, mentalità che viene presentata come causa e spiegazione del contenuto dei versi di Emily. È forse la maniera migliore per penetrare nel significato intrinseco del lavoro di una poetessa che era parte di un mondo che non palesava i suoi sentimenti (lei stessa aveva dato ordine che dopo la sua morte fosse bruciata la corrispondenza con le persone estranee). Partendo dall’educazione tendenzialmente religiosa a cui lei non aderiva totalmente, cercando una religione consapevole e non costrittiva (famoso è l’episodio in cui un’insegnante del seminario di Mount Holyoke, che Emily frequentava, chiese di alzarsi in piedi alle ragazze che volessero diventare cristiane e lei, unica fra tutte, non lo fece) e dalla sua vicinanza a quella corrente di pensiero che è all’inizio del movimento femminile in America (segnato dalle dichiarazioni di Seneca Falls), passando alle vicende della sua malattia, probabilmente l’epilessia, di cui non si sa nulla, e alle sue “passioni amorose” (forse solo amicizie) per due persone, Sam Bowles ed il reverendo Wadsworth, giungendo fino alle vicende legali della famiglia, come la causa intentata ai Todd per il lascito di un terreno, la sua poesia si snoda con scioltezza e può essere naturalmente compresa e ricordata anche dal lettore comune. Si presentano quindi ai nostri occhi i lavori domestici, che spesso nascondono con una parvenza di serenità avvenimenti tragici e dolori da cui era stata segnata, la sua attitudine alla dolcezza femminile ed all’intimità delle cose (in una poesia scrive: “Malati? Abbiamo bacche per placare la sete”), gli affetti e gli uomini amati (alcune poesie parlano di un “padrone” non meglio identificato, forse l’uomo che amava, il reverendo Wadsworth o Sam Bowles o forse una persona immaginaria che lei riteneva fosse un padrone), la sua malattia (non fu mai accertato, ma forse era l’epilessia, infatti in alcuni versi dice: “Avvertimento all’ombra sbigottita / che la tenebra sta per cominciare”, alludendo probabilmente ai sintomi di avvertimento dell’attacco), la natura a cui lei era affezionata e la sua creatività nella lingua (la Dickinson ha creato nuovi vocaboli come “perfettità”, perché secondo lei rendevano meglio il concetto, e ha rivoluzionato la punteggiatura, concependo il trattino come uno spazio che può essere riempito dai lettori), il senso del divino, fondamentale nella poetessa, che le parlava di un Dio a cui doveva tutto il suo talento (“È Dio che mi ha fatta – Signore – non mi sarebbe dato d’esser da me stessa”, dice in alcuni suoi versi) e che per lei era un’immagine di sicura giustizia (“Nessuno resta defraudato dal Cielo / anche se il Cielo sembra un ladro rende / in qualche dolce modo occultamente / secondo che decide il suo volere”). Così la biografia spiega indirettamente l’origine della creazione di quelle “perle” arrivate fino ai nostri giorni, che giustificano la burrasca sorta dopo la morte di Emily per la spartizione di questo gioiello immortale.