Archivi giornalieri: 31 Gennaio 2025

L’illusione del tempo e l’eterno presente

Schopenhauer e il principio di individuazione

 

 

 

 

Arthur Schopenhauer, tra i filosofi tedeschi più influenti del XIX secolo, occupa un posto di rilievo nel panorama del pensiero filosofico per la sua originale concezione del mondo come rappresentazione e volontà. Un elemento cardine della sua filosofia è costituito dall’analisi dello spazio e del tempo, considerati forme a priori della sensibilità. Questo principio, ispirato dalla filosofia trascendentale di Immanuel Kant, viene rielaborato da Schopenhauer e integrato in un sistema metafisico che coniuga rigore speculativo e una visione profondamente pessimistica dell’esistenza umana, caratterizzata da un lucido disincanto.
Schopenhauer ritiene che spazio e tempo siano le strutture fondamentali attraverso le quali l’essere umano percepisce e ordina la realtà. Non si tratta di elementi esistenti indipendentemente dal soggetto, bensì di forme mentali, intrinseche alla coscienza, che organizzano le sensazioni in un sistema coerente. Senza di esse, l’esperienza del mondo come la conosciamo non sarebbe possibile.
Il filosofo definisce spazio e tempo come il principium individuationis, il principio che frammenta l’unità originaria della realtà in una molteplicità di individui distinti. Secondo questa visione, l’idea universale, che è una forma pura, eterna e unica, si manifesta nel mondo fenomenico in una serie infinita di esseri individuali. Questo processo di moltiplicazione è reso possibile dal fatto che l’intelletto umano percepisce gli oggetti nel tempo e nello spazio, strutturando l’esperienza secondo queste due coordinate fondamentali. Ad esempio, ogni essere umano appare diverso da un altro non perché esista una reale separazione ontologica tra di loro, ma perché la coscienza, nel percepire il mondo, “rompe” l’unità universale, frammentandola in unità molteplici.
In assenza del soggetto e delle sue forme a priori, cioè senza spazio e tempo, non potrebbe esistere il mondo della rappresentazione. Questa idea si lega strettamente al concetto apicale della filosofia di Schopenhauer: il mondo è, in ultima analisi, una rappresentazione del soggetto. Ciò significa che la realtà che percepiamo non è altro che un fenomeno, un’apparenza creata dall’interazione tra il soggetto e il noumeno, la cosa in sé che non possiamo conoscere direttamente. Il mondo fenomenico esiste solo in quanto appare al soggetto, e spazio e tempo sono i criteri attraverso cui tale apparenza si organizza.
Tra spazio e tempo, il secondo assume un ruolo particolarmente importante nella riflessione di Schopenhauer. Egli sostiene che il tempo, così come lo concepiamo, è una costruzione della nostra fantasia. Nella realtà, secondo il filosofo, non esistono né il passato né il futuro: essi sono solo proiezioni mentali, mere astrazioni create dalla nostra coscienza. Il passato vive unicamente nel ricordo, una traccia che permane nella memoria, mentre il futuro è una costruzione immaginativa, basata su desideri, aspettative o timori.

La vera realtà è costituita solo dall’eterno presente, l’unico momento autentico in cui si svolge la vita. Il presente non è una semplice somma di istanti successivi, ma rappresenta il fulcro dell’esistenza. Esso è l’unica dimensione temporale effettivamente percepibile e tangibile, mentre passato e futuro sono mere astrazioni, incapaci di influire direttamente sull’esperienza sensibile. Schopenhauer utilizza questa idea per sottolineare l’illusorietà del tempo, una caratteristica che contribuisce a rendere il mondo della rappresentazione un regno di apparenze piuttosto che di verità ultime.
Questa visione ha implicazioni profonde, poiché suggerisce che l’attaccamento umano al passato o al futuro è vano e ingannevole. La nostra tendenza a vivere immersi nei ricordi o a proiettarci in avanti, ignorando il presente, ci distoglie dalla realtà effettiva e ci conduce a uno stato di alienazione. L’unico tempo che davvero esiste è il momento presente, ed è qui che si gioca tutta l’esperienza della vita. Tuttavia, Schopenhauer non celebra questa constatazione come un invito alla serenità, bensì come una riflessione sulla natura effimera e inafferrabile dell’esistenza.
Il mondo della rappresentazione, ordinato secondo le categorie di spazio, tempo e causalità, è solo una maschera che cela la vera natura del reale. Dietro la molteplicità fenomenica si cela l’unità profonda e irriducibile del noumeno, che Schopenhauer identifica con la volontà. Quest’ultima è una forza cieca, irrazionale e universale, che si manifesta in ogni aspetto della natura e che non è soggetta alle forme della sensibilità. La volontà è eterna e fuori dal tempo, non conoscendo né un inizio né una fine.
Questa distinzione tra fenomeno e noumeno rispecchia la tensione tra il mondo come lo percepiamo e il mondo nella sua essenza. La volontà, essendo la cosa in sé, non è frammentata né divisa: è un’energia unica e indivisibile, che si manifesta però nel mondo fenomenico come una molteplicità di individui, proprio grazie al principio di individuazione. L’apparente pluralità degli esseri non è che un’illusione, generata dallo spazio e dal tempo.
In definitiva, Schopenhauer delinea una visione dell’esistenza in cui spazio e tempo, pur essendo indispensabili per l’organizzazione dell’esperienza, sono anche i principali responsabili della nostra alienazione dalla vera natura della realtà. Essi creano l’illusione della molteplicità, separandoci dall’unità originaria della volontà. Il tempo, in particolare, con la sua divisione in passato, presente e futuro, alimenta una percezione frammentata e irrealistica dell’esistenza, relegando l’uomo in una continua oscillazione tra ricordo e attesa. Tuttavia, al di sotto di questa superficie mutevole e transitoria si cela una dimensione eterna e fuori dal tempo, rappresentata dalla volontà, che costituisce l’essenza ultima del mondo. Il riconoscimento di questa duplice natura della realtà – fenomeno e noumeno – costituisce uno degli aspetti più originali e significativi del pensiero di Schopenhauer.

 

 

 

 

Venerdì o il limbo del Pacifico

 

 

Recensione di Carmela Puntillo

 

 

 

Ci sono libri che si lasciano leggere volentieri perché sono ricchi di cambiamenti che provocano nel lettore la curiosità di andare avanti per sapere che cosa succederà in seguito. Uno di questi è “Venerdì o il Limbo del Pacifico”, Einaudi, 2010, opera dello scrittore francese Michel Tournier, Grand Prix du Roman de l’Académie Française. Il libro è una rivisitazione dell’opera di Daniel Defoe: ci presenta un Robinson Crusoe, naufrago su un’isola deserta, che deve organizzare un sistema per poter sopravvivere, che incontra il selvaggio Venerdì a cui insegna i vari elementi della civiltà occidentale e che riesce a costruirsi, nella sua difficile situazione, una vita accettabile. Anche nel romanzo di Tournier, Robinson Crusoe è il tipico borghese inglese dotato di acuto spirito di osservazione, religiosità pratica e gusto del comfort e che insegna al selvaggio Venerdì la cultura occidentale che lui ritiene superiore. Una sorta di “colonialismo” personale, quindi. Poi, il colpo di scena: Venerdì gli distrugge tutto e i due rimangono senza niente. Ed ecco che il selvaggio insegna a Robinson le “sue” tecniche per vivere, legate all’osservazione e al connubio con la natura. Fin dall’inizio del romanzo, momento dopo momento, Robinson rivive personalmente le tappe percorse prima dalla civiltà occidentale: dalla caccia e dalla raccolta passa all’allevamento e all’agricoltura, dall’anarchia alla formulazione di leggi scritte per l’isola, dalla permanenza nella parte più esterna della caverna all’esplorazione delle zone più profonde, dal colonialismo alla rivalutazione delle civiltà considerate inferiori. Questa rivalutazione lo porta a scegliere, quando dopo più di ventotto anni arriverà la nave che potrebbe riportarlo in patria, di rimanere nell’isola, immerso in quella vita innocente e ricca di armonia in cui era ormai entrato. Ma Robinson non sarà solo, avrà una compagnia: il mozzo della nave inglese che vuole rimanere anche lui in quel mondo naturale e buono. Sarà Venerdì, invece, a volere andare in Inghilterra e a imbarcarsi sulla nave. L’opera è un’enciclopedia di tipo antropologico per lettori curiosi e colti, in cui è Venerdì ad avere il ruolo più importante, quello di dire che esistono civiltà diverse e migliori di quella occidentale. Il titolo quindi cambia: da “Robinson Crusoe” a “Venerdì”.