Archivio mensile:Gennaio 2025

Agostino e la verità

Una “elegante” prova dell’esistenza di Dio

 

 

 

 

Le prove dell’esistenza di Dio sono un argomento che da sempre mi affascina, tanto da costituire una delle tematiche che spesso occupano le mie riflessioni e i miei scritti. La rilettura del De libero arbitrio di Agostino mi ha fornito uno spunto nuovo e sorprendente. Nel secondo libro di questa celebre opera, il dialogo tra Agostino ed Evodio introduce una dimostrazione che unisce una raffinata speculazione filosofica a una profonda intuizione teologica, trovando il suo fondamento ultimo nel concetto di verità.
Agostino, nella sua ricerca di Dio, parte non da una deduzione astratta o da un’idea ipotetica, ma dalla realtà stessa. Egli identifica tre aspetti fondamentali dell’esperienza umana, che sono indubitabili e autoevidenti: l’essere, il vivere e l’intendere. Questi tre elementi non possono essere messi in discussione, poiché si impongono alla nostra coscienza con una forza tale da rendere ogni negazione un’implicita affermazione della loro verità. L’essere: il fatto stesso di esistere è una verità che nessuno può negare, poiché il negare presuppone un’esistenza che lo renda possibile. Non posso dubitare di esistere senza affermare, nel dubbio stesso, la mia esistenza. Il vivere: non solo esistiamo, ma viviamo, cioè partecipiamo a un’esperienza che va oltre il semplice essere. Vivere implica sensibilità, movimento, attività, e anche questa dimensione è autoevidente. L’intendere: infine, intendiamo, cioè siamo in grado di comprendere, percepire la realtà e riflettere su di essa. Anche questa capacità non può essere negata senza contraddirsi, poiché negare implica un atto di comprensione. Questi tre aspetti sono quindi veri in modo immediato e indiscutibile. Essi non derivano da un ragionamento complesso, ma si presentano come dati primari della nostra esperienza.

Agostino, tuttavia, non si accontenta di constatare la realtà di essere, vivere e intendere. Egli si chiede: cosa accomuna questi tre elementi? La risposta risiede nella loro verità. Se esistono, se sono evidenti, allora sono veri. Ma questa verità non può essere ridotta alle cose stesse o all’intelletto umano che le riconosce. La verità è qualcosa di più: è un fondamento che trascende il contingente e il mutevole.
Qui il pensiero di Agostino compie un salto decisivo. Egli mostra che la verità, per essere tale, non può dipendere dal nostro pensiero né da alcun aspetto particolare della realtà. Deve essere assoluta, cioè indipendente da tutto ciò che è relativo; deve essere eterna, poiché una verità che cambia cesserebbe di essere tale; deve essere trascendente, ossia esistere al di là del mondo materiale e delle limitazioni umane. Questa verità, dunque, è realtà suprema e universale. Ed è proprio questa trascendenza che porta Agostino a identificarla con Dio.
Arriviamo così al cuore dell’argomentazione: se la verità è assoluta, eterna e trascendente, allora coincide necessariamente con ciò che intendiamo per Dio. Dio, infatti, è da sempre concepito come la realtà suprema, immutabile, fonte di ogni esistenza e conoscenza. In altre parole, la verità, intesa come principio fondamentale e autosufficiente, non può che essere Dio stesso. Questa dimostrazione si distingue per la sua raffinatezza e per la capacità di radicare il concetto di Dio in un’esperienza universale e condivisibile. Non si tratta di un’argomentazione che presuppone una fede già data, ma di un ragionamento che parte da ciò che chiunque può riconoscere come vero.
Interessante è il legame con il neoplatonismo, da cui Agostino trae ispirazione. La sua idea di una verità trascendente che dà senso al mondo ricorda la dottrina dell’Uno e del Nous di Plotino, ma il pensiero cristiano introduce una dimensione personale e relazionale, identificando questa verità con un Dio vivo e creatore. La dimostrazione di Agostino, poi, anticipa, per certi aspetti, altre celebri prove dell’esistenza di Dio, in particolare quella ontologica di Anselmo d’Aosta. Anche Anselmo, infatti, individua in Dio il fondamento ultimo della realtà, definendolo come “ciò di cui non si può pensare il maggiore”. Tuttavia, mentre Anselmo si muove in un ambito strettamente logico, Agostino parte dall’esperienza concreta e dalla percezione immediata della verità.

 

 

 

 

Il barbaro nel mondo greco

Tra identità culturale e pregiudizio ideologico

 

 

 

 

Il termine barbaro ha un’origine etimologica profondamente radicata nella percezione che i greci avevano del mondo esterno. Derivato dall’onomatopea “bar-bar”, imitava il suono che i greci attribuivano a chi parlava lingue incomprensibili o sconnesse rispetto alla loro. Questo uso originariamente descrittivo si trasformò in uno strumento culturale e politico per distinguere tra il “noi” e il “loro”. Parlare greco correttamente, o meglio ancora padroneggiarne le sfumature colte, significava essere parte della civiltà; non farlo equivaleva a essere esclusi da essa.
Questo pregiudizio linguistico era intrinsecamente legato al concetto di cultura e identità, ponendo i greci al centro di un universo ideale. Persino popoli di grande raffinatezza culturale, come i Persiani, venivano inclusi nella categoria dei barbari, nonostante fossero portatori di una tradizione ricca e consolidata. L’idea di barbaro, quindi, non era semplicemente una questione di lingua o di capacità comunicativa, ma uno strumento di categorizzazione culturale che implicava giudizi di valore e gerarchie di civiltà.
Nel mondo greco, il concetto di barbaro era fluido e multifattoriale, adattandosi ai bisogni ideologici e politici del tempo. Da una parte, serviva a consolidare l’identità collettiva dei greci, definendo il loro sistema di valori e il loro modello di convivenza sociale. Dall’altra, rappresentava uno specchio delle loro paure e aspirazioni nei confronti di popoli stranieri. La distinzione fondamentale non era tanto basata su un’oggettiva arretratezza delle altre civiltà, quanto sulla contrapposizione simbolica tra polis greca e il mondo esterno.
La polis, con il suo sistema di partecipazione politica, l’uguaglianza tra cittadini e la centralità delle leggi, incarnava il modello ideale di organizzazione civile. In contrapposizione, le società definite “barbare” venivano spesso descritte come dominate dal dispotismo e caratterizzate dalla subordinazione degli individui a un sovrano assoluto. Questa visione stereotipata non teneva conto della complessità dei sistemi sociali stranieri, ma serviva a giustificare la percezione di superiorità greca.
Tuttavia, è importante sottolineare che questa dicotomia non era immutabile. Nel corso dei secoli, l’interazione con altre culture portò a una maggiore consapevolezza della ricchezza culturale straniera. Le guerre persiane, ad esempio, furono un momento cruciale: pur essendo un confronto violento e ideologicamente polarizzato, permisero ai greci di osservare da vicino la complessità e l’organizzazione dei loro avversari.
In questo panorama dominato da pregiudizi e contrapposizioni, alcune figure emersero come punti di riferimento per un’analisi più equilibrata. Erodoto, considerato il padre della storiografia, è uno degli esempi più emblematici. Nelle sue Storie, non si limitò a descrivere i conflitti tra greci e barbari, ma trattò con curiosità e ammirazione le tradizioni, i costumi e le istituzioni di popoli come Egiziani, Persiani e Lidi.

Pur rimanendo ancorato a una prospettiva greco-centrica, Erodoto riconobbe l’importanza dei contributi culturali e scientifici del Vicino Oriente. Egli osservò, ad esempio, che molte delle conoscenze greche in ambito matematico, astronomico e medico derivassero dall’Egitto e dalla Mesopotamia. Questa visione, sebbene non completamente priva di giudizi di valore, introdusse una sfumatura di apertura e rispetto per l’altro, che contrastava con l’immagine stereotipata del barbaro come rozzo e inferiore.
Se Erodoto cercava un punto di equilibrio tra curiosità e pregiudizio, Aristotele contemplò un approccio diametralmente opposto, consolidando una visione fortemente gerarchica delle relazioni tra greci e barbari. Nel suo trattato Politica, Aristotele sviluppò una teoria che attribuiva una differenza biologica e naturale tra questi due gruppi. I barbari, secondo lui, erano “schiavi per natura” (physei douloi), incapaci di esercitare il controllo sulla propria vita e dunque destinati a essere governati da altri.
Questa concezione non era solo una giustificazione della superiorità greca, ma una base teorica per la legittimazione di rapporti di subordinazione politica, economica e sociale. Aristotele elevava la polis greca a modello ideale, suggerendo che essa rappresentasse l’apice della civiltà e che i popoli barbari, incapaci di creare istituzioni simili, fossero intrinsecamente inferiori. Questa idea trovò terreno fertile nella società greca, contribuendo a radicare stereotipi che avrebbero influenzato il pensiero occidentale per secoli.
L’idea di barbaro non può essere compresa senza analizzare il suo ruolo nel definire l’identità greca. Per i greci, il barbaro rappresentava l’opposto del cittadino: era l’altro, il diverso, colui che metteva in evidenza, per contrasto, i valori e i meriti della cultura greca. Questo dualismo, tuttavia, non era privo di ambiguità. Da un lato, il barbaro era considerato inferiore e minaccioso; dall’altro, il suo stesso esistere stimolava i greci a riflettere su se stessi e sul significato della loro civiltà.
La percezione dei barbari si trasformò ulteriormente con l’espansione dell’Impero macedone e, successivamente, con l’Ellenismo, quando le culture greca e orientale entrarono in una fase di intensa contaminazione reciproca. Durante questo periodo, l’idea di superiorità greca fu parzialmente mitigata dalla consapevolezza della complessità e della ricchezza delle civiltà orientali.
L’evoluzione del concetto di barbaro nel mondo greco ci rivela molto non solo sul rapporto tra i greci e gli altri popoli, ma anche sulla loro stessa visione del mondo e della civiltà. Il barbaro era un simbolo, una costruzione ideologica che rifletteva le ansie, i pregiudizi e le aspirazioni di una cultura in continua ricerca di definizione. Oggi, l’analisi storica di questo concetto ci invita a riflettere su come le categorie di “noi” e “loro” continuino a plasmare il nostro modo di vedere il mondo.

 

 

 

 

Il sistro

L’armonia sacra tra suono e divinità

 

 

 

 

Il sistro è uno strumento musicale dalle origini antichissime, il cui suono tintinnante ha accompagnato rituali religiosi, celebrazioni sacre e momenti di vita quotidiana nella storia culturale e artistica di molte civiltà. Nato nell’antico Egitto, si è diffuso nel Mediterraneo e oltre, divenendo un simbolo potente di spiritualità e armonia cosmica. Esaminandone le caratteristiche, il significato simbolico e i riferimenti letterari, se ne comprende l’importanza nella storia dell’umanità.
Il sistro è formato da un telaio metallico arcuato o a forma di manico, spesso decorato con immagini e simboli sacri. Attraverso il telaio passano asticelle orizzontali, che reggono dischi metallici o anelli mobili. Il movimento di queste parti, generato agitando lo strumento, produce un suono ritmico e vibrante.
Due tipologie principali se ne distinguono: il sistro arcaico egizio, spesso decorato con immagini della dea Hathor, caratterizzato da una struttura semplice e simbolica, e il sistro romano, più elaborato, introdotto a Roma attraverso il culto di Iside e associato a rituali complessi e misterici. Il bronzo, il rame o l’argento erano usati per la sua realizzazione e la decorazione era parte integrante del valore rituale e artistico dello strumento.
Il sistro era un elemento fondamentale nei rituali religiosi egizi, specialmente in quelli dedicati a divinità femminili come Hathor, Iside e Bastet. Hathor, dea della musica, della fertilità e della gioia, era spesso raffigurata con il sistro, simbolo della sua capacità di armonizzare il mondo. Il tintinnio evocava la vibrazione primordiale che, secondo la cosmogonia egizia, aveva dato origine alla creazione. Al suono del sistro erano anche attribuiti poteri apotropaici: scacciava le forze negative e ristabiliva l’equilibrio universale. Era spesso utilizzato nelle processioni, accompagnando danze e canti, per invocare la protezione divina e celebrare la fecondità della terra e delle acque. Nella tradizione greco-romana, poi, il sistro divenne un elemento centrale nei misteri isiaci, rituali iniziatici che celebravano la rinascita spirituale e il potere rigenerante della dea.

Il fascino esercitato dal sistro attraversa secoli di letteratura, dalle descrizioni degli antichi storici fino alle opere di epoche successive. I testi letterari non solo ne testimoniano l’uso, ma ne rimarcano anche il significato simbolico e rituale. Nella sua opera Storie, Erodoto descrive in dettaglio i rituali in onore di Iside, evidenziando l’uso del sistro come elemento essenziale. La sua cronaca testimonia il legame indissolubile tra musica e religione nell’antico Egitto, rilevando il ruolo del sistro nella celebrazione della fertilità e della vita. Nel romanzo Le Metamorfosi (o L’asino d’oro), Apuleio riporta una delle più suggestive rappresentazioni del culto di Iside. Nella visione mistica del protagonista Lucio, i sacerdoti agitano i sistri durante una solenne processione, evocando il potere della dea e la trasformazione spirituale. Virgilio, nell’Eneide, descrive Cleopatra, regina d’Egitto, che porta il sistro come segno della sua identità e dei suoi legami religiosi con il mondo egizio. Nel Medioevo, il sistro appare in descrizioni di fonti arabe e bizantine come simbolo esotico, legato all’antico Egitto. Durante il Rinascimento, con il rinnovato interesse per l’antichità, lo strumento fu citato da scrittori e artisti, spesso per evocare atmosfere misteriose o per rappresentare la sapienza e la spiritualità orientale.
Oltre che nella letteratura, il sistro appare frequentemente nell’arte. Affreschi, bassorilievi e statuette raffigurano sacerdotesse e musicisti che lo suonano. Notevole è la rappresentazione del sistro nei templi egizi, come a Dendera, dove scene di culto mostrano l’importanza di questo strumento nei rituali sacri. In epoca romana, il sistro è presente su monete e rilievi dedicati a Iside, a sottolineare l’universalità del suo significato.
Sebbene oggi il sistro non sia più utilizzato come in passato, esso sopravvive in strumenti musicali simili, come alcuni tipi di sonagli e tamburelli. Inoltre, il suo significato simbolico continua a essere approfondito in studi accademici, opere letterarie e performance artistiche che celebrano il legame tra musica, religione e cultura.

 

 

 

 

Luce nell’ombra

Il canto malinconico di Manfredi

 

 

Dedicato a Manfredi Brichetto Scotti

 

 

 

Tra i tanti spiriti che Dante incontra lungo il suo viaggio letterario ultraterreno, Manfredi di Svevia si distingue per la dolente dignità e per il tragico intreccio di storia, politica e redenzione. Nel Canto III del Purgatorio, egli appare quale figura luminosa, immersa in una malinconia che non è disperazione, ma consapevolezza del destino umano e della misericordia divina. La sua vicenda, narrata nei versi danteschi, è un richiamo alla fragilità del potere terreno e alla speranza eterna che si accende nel pentimento.
Figlio illegittimo dell’imperatore Federico II e di Bianca Lancia d’Agliano, Manfredi incarnava molte delle virtù e dei difetti della dinastia sveva. Nato nel 1232, fu cresciuto in un ambiente di raffinata cultura, che lo plasmò come poeta e uomo d’ingegno. Al pari del padre Federico, fu un mecenate delle arti e della letteratura e la sua corte fu un centro di straordinario fermento culturale. Tuttavia, la sua vita non fu solo votata alla cultura: fu un abile stratega militare e politico, che lottò per consolidare il Regno di Sicilia contro le minacce dei papi e dei nemici esterni. Dopo la morte di Federico II e del fratellastro Corrado IV, assunse la reggenza del regno, che proclamò suo nel 1258. La sua bellezza fisica e il carisma personale contribuirono a creare il mito di un re amatissimo dal popolo, ma odiato dalla Chiesa, che lo scomunicò ripetutamente per la sua resistenza all’autorità papale. Manfredi trovò la morte nella battaglia di Benevento, nel 1266, sconfitto dall’esercito angioino di Carlo I, inviato da papa Clemente IV per estirpare la dinastia sveva. La sua morte fu l’epilogo di una vita segnata dal contrasto tra ambizione e persecuzione, tra grandezza e condanna.
Nel Purgatorio, Dante lo incontra tra le anime degli scomunicati, che attendono di purificarsi per salire verso il Paradiso. Il re è descritto con delicatezza e rispetto, quasi con affetto, come un’apparizione luminosa ma malinconica. Manfredi è presentato con un gesto umile e regale insieme, svelando la sua identità con un senso di tragica ironia:

Io mi volsi ver’ lui e guarda il fiso:
biondo era e bello e di gentile aspetto,
ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso.

La descrizione fisica è simbolica: la bellezza del principe è spezzata da una ferita, un dettaglio che richiama la sua morte violenta e il destino travagliato. L’elemento lirico del verso si mescola alla concretezza della sua storia, rendendo Manfredi una figura profondamente umana e poetica.

Manfredi narra a Dante il momento della sua fine, quando, ferito a morte, si rivolse a Dio con un pentimento sincero. I versi sottolineano la potenza della misericordia divina, che supera ogni giudizio terreno:

Poscia ch’io ebbi rotta la persona
di due punte mortali, io mi rendei,
piangendo, a quei che volontier perdona.

Questa ammissione di pentimento, accompagnata dal verbo “piangendo,” dona alla figura di Manfredi una dimensione struggente. Egli, sovrano orgoglioso e guerriero indomito, si arrende infine alla grazia divina, trovando la redenzione nel momento della massima vulnerabilità.
Il racconto di Manfredi si concentra poi sulla crudele sorte del suo corpo dopo la morte. L’arcivescovo di Cosenza, su ordine del papa, fece dissacrare la sua sepoltura, un atto che intendeva cancellare ogni traccia della sua esistenza. Le sue ossa furono gettate al di là del fiume Verde, oltre i confini del Regno di Napoli:

l’ossa del corpo mio sarieno ancora
in co del ponte presso a Benevento,
sotto la guardia de la grave mora.
Or le bagna la pioggia e move il vento
di fuor dal regno, quasi lungo ’l Verde,
dov’e’ le trasmutò a lume spento.
Per lor maladizion sì non si perde,
che non possa tornar, l’etterno amore,
mentre che la speranza ha fior del verde.

Questa immagine del “fior del verde” è profondamente lirica e simbolica: il verde della speranza divina contrasta con la desolazione del luogo dove furono gettate le sue spoglie. Anche qui, Dante ribalta la condanna umana: nonostante l’ingiustizia terrena, l’anima di Manfredi è accolta dalla misericordia divina. Il suo messaggio è un grido contro l’arroganza del potere ecclesiastico, che non può limitare la grazia di Dio.
Manfredi incarna uno dei temi fondamentali della Divina Commedia: la possibilità della redenzione, che è aperta a tutti, anche agli scomunicati e ai peccatori più gravi, purché si pentano sinceramente. La sua figura richiama altre anime del Purgatorio, come Bonconte da Montefeltro, che si salva grazie a un ultimo pensiero rivolto a Dio.
La storia di Manfredi risuona anche come un ammonimento per i lettori: il potere terreno è effimero, ma la salvezza è eterna. Dante utilizza la sua vicenda per criticare l’eccessiva severità della Chiesa medievale e per ribadire il primato della misericordia divina. L’umanità di Manfredi, il suo pentimento e la sua speranza sono un esempio di come la grazia possa illuminare anche le esistenze più tormentate.
La figura di Manfredi nella Divina Commedia è un intreccio di storia, poesia e teologia. Il suo racconto, intriso di malinconia e speranza, supera la dimensione individuale per diventare un simbolo universale. Egli non è solo un re sconfitto, ma un’anima che trova la pace nel riconoscimento della propria fragilità e nella fiducia nella misericordia divina.
Le sue ultime parole a Dante sono un invito a guardare oltre le apparenze, oltre i giudizi umani, e a confidare nella giustizia divina:

Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,
revelando a la mia buona Costanza
come m’ hai visto, e anco esto divieto;
ché qui per quei di là molto s’avanza.

Con queste parole, Manfredi riafferma la sua identità non come re, ma come figlio di Dio, riconquistando quella dignità che gli era stata negata in vita.

 

 

 

 

 

Come un fucile carico. La vita di Emily Dickinson

 

 

Recensione di Carmela Puntillo

 

 

 

Un libro appassionante e istruttivo per chi vuole affrontare la lettura delle lettere e delle poesie di Emily Dickinson, apportatrice della cultura e dei valori della società americana di estrazione puritana (utile soprattutto per gli studiosi di letteratura americana) è Come un fucile carico. La vita di Emily Dickinson, della scrittrice sudafricana Lyndall Gordon, Fazi Editore, 2017. La biografia traccia una panoramica molto approfondita dell’opera della Dickinson, vissuta nella seconda metà dell’Ottocento negli Stati Uniti, e lo fa attraverso le vicende personali e della famiglia, le quali figurano così come l’origine della sua produzione. Il libro scorre come una cronaca della vita e della mentalità di una piccola cittadina degli Stati Uniti, mentalità che viene presentata come causa e spiegazione del contenuto dei versi di Emily. È forse la maniera migliore per penetrare nel significato intrinseco del lavoro di una poetessa che era parte di un mondo che non palesava i suoi sentimenti (lei stessa aveva dato ordine che dopo la sua morte fosse bruciata la corrispondenza con le persone estranee). Partendo dall’educazione tendenzialmente religiosa a cui lei non aderiva totalmente, cercando una religione consapevole e non costrittiva (famoso è l’episodio in cui un’insegnante del seminario di Mount Holyoke, che Emily frequentava, chiese di alzarsi in piedi alle ragazze che volessero diventare cristiane e lei, unica fra tutte, non lo fece) e dalla sua vicinanza a quella corrente di pensiero che è all’inizio del movimento femminile in America (segnato dalle dichiarazioni di Seneca Falls), passando alle vicende della sua malattia, probabilmente l’epilessia, di cui non si sa nulla, e alle sue “passioni amorose” (forse solo amicizie) per due persone, Sam Bowles ed il reverendo Wadsworth, giungendo fino alle vicende legali della famiglia, come la causa intentata ai Todd per il lascito di un terreno, la sua poesia si snoda con scioltezza e può essere naturalmente compresa e ricordata anche dal lettore comune. Si presentano quindi ai nostri occhi i lavori domestici, che spesso nascondono con una parvenza di serenità avvenimenti tragici e dolori da cui era stata segnata, la sua attitudine alla dolcezza femminile ed all’intimità delle cose (in una poesia scrive: “Malati? Abbiamo bacche per placare la sete”), gli affetti e gli uomini amati (alcune poesie parlano di un “padrone” non meglio identificato, forse l’uomo che amava, il reverendo Wadsworth o Sam Bowles o forse una persona immaginaria che lei riteneva fosse un padrone), la sua malattia (non fu mai accertato, ma forse era l’epilessia, infatti in alcuni versi dice: “Avvertimento all’ombra sbigottita / che la tenebra sta per cominciare”, alludendo probabilmente ai sintomi di avvertimento dell’attacco), la natura a cui lei era affezionata e la sua creatività nella lingua (la Dickinson ha creato nuovi vocaboli come “perfettità”, perché secondo lei rendevano meglio il concetto, e ha rivoluzionato la punteggiatura, concependo il trattino come uno spazio che può essere riempito dai lettori), il senso del divino, fondamentale nella poetessa, che le parlava di un Dio a cui doveva tutto il suo talento (“È Dio che mi ha fatta – Signore – non mi sarebbe dato d’esser da me stessa”, dice in alcuni suoi versi) e che per lei era un’immagine di sicura giustizia (“Nessuno resta defraudato dal Cielo / anche se il Cielo sembra un ladro rende / in qualche dolce modo occultamente / secondo che decide il suo volere”). Così la biografia spiega indirettamente l’origine della creazione di quelle “perle” arrivate fino ai nostri giorni, che giustificano la burrasca sorta dopo la morte di Emily per la spartizione di questo gioiello immortale.

 

 

 

 

 

La luce invisibile che guida i passi di chi osa cercare

 

 

 

 

I Magi non si misero in cammino perché avevano visto la Stella, ma videro la Stella perché si erano messi in cammino”. Questa frase di Giovanni Crisostomo (344/354 – 407) racchiude una verità profonda, una chiave di lettura universale per il mistero della fede, della ricerca interiore e del rapporto tra l’uomo e il divino. Non si tratta di un semplice gioco di parole, ma di un ribaltamento del modo in cui spesso concepiamo la relazione tra segni esterni e decisioni interiori. Il cammino dei Magi, così come quello di ciascuno di noi, non inizia da una certezza, ma da una domanda, da un desiderio di andare oltre ciò che è visibile e conosciuto.
La Stella che guida i Magi verso Betlemme è, per tradizione, un segno straordinario. Un evento celeste che attrae lo sguardo di uomini sapienti, esperti di astronomia e conoscitori dei segreti della natura. Ma, secondo l’interpretazione di Giovanni Crisostomo, non è la Stella a spingere i Magi a partire, bensì il loro cuore, già teso verso una verità più grande. La Stella è un simbolo: brilla non tanto per i loro occhi, quanto per il loro spirito già disposto ad accoglierla. È una luce che si manifesta solo a chi è pronto a vederla. Questo capovolgimento ci spinge a riflettere sul senso profondo della ricerca. Non sono i segni esterni a mettere in moto il cammino, ma l’interiore necessità di trovare qualcosa che dia senso alla vita. La Stella è il riflesso visibile di una luce che già arde nell’animo di chi cerca, una luce che guida ma non impone, che invita ma non costringe.
Il viaggio dei Magi è una metafora del cammino spirituale che ciascuno di noi è chiamato a intraprendere. Non si parte mai con tutte le risposte in tasca, né con una mappa chiara e precisa. Si parte, spesso, nel buio, mossi da un’intuizione o da un desiderio che non riusciamo nemmeno a spiegare pienamente. I Magi, provenienti da terre lontane, affrontano un viaggio pieno di incognite, guidati non dalla certezza ma dalla fiducia. È un cammino che richiede il coraggio di abbandonare le proprie sicurezze: la propria terra, le proprie conoscenze, i propri punti di riferimento. Questo abbandono è un atto di fede. Si lascia ciò che è noto per inseguire l’ignoto, fidandosi di una voce interiore che sussurra che ne vale la pena. Ed è proprio in questo movimento, in questo atto di fiducia, che si manifesta il mistero della Stella: non appare prima del viaggio, ma durante il cammino, come una conferma luminosa di una scelta già compiuta.

Giovanni Crisostomo sottolinea un aspetto cruciale: la Stella non si rivela a tutti, ma solo a chi è già in cammino. Questo ci insegna che i segni del divino, le tracce della verità, non sono evidenti a chi rimane fermo, a chi aspetta che le risposte cadano dall’alto. Sono invece visibili a chi si muove, a chi cerca con cuore aperto e spirito vigile. Non si tratta di una ricerca casuale o superficiale, ma di un viaggio interiore, un cammino di trasformazione che richiede impegno, umiltà e perseveranza.
Nel mondo contemporaneo siamo spesso tentati di cercare risposte immediate, di aspettare segni evidenti che ci indichino la strada. Giovanni Crisostomo ci esorta a ribaltare questa prospettiva: non sono i segni a guidare il nostro cammino, ma è il cammino stesso che rende visibili i segni. La ricerca interiore, dunque, non è un accessorio, ma il cuore stesso della vita spirituale. È un esercizio di attenzione e di apertura, un modo per preparare il nostro spirito a riconoscere la luce quando si manifesta.
Un altro aspetto importante della questione è che la Stella non è la causa del cammino dei Magi, ma il suo coronamento. Non si tratta di un fenomeno che obbliga o che impone una direzione, ma di un segno che conferma una scelta già fatta. Ciò ci insegna che nella vita spirituale non possiamo aspettare di vedere tutto chiaramente prima di agire. Spesso le conferme arrivano solo dopo che abbiamo avuto il coraggio di muoverci, di fare il primo passo. Questo principio ha un valore universale, applicabile a ogni aspetto della nostra esistenza. Quante volte rimaniamo bloccati, incapaci di scegliere, in attesa di un segno inequivocabile? Quante volte il timore di sbagliare ci paralizza? Eppure, la lezione dei Magi ci mostra che è il movimento stesso a generare chiarezza, che è nel cammino che si trova la luce.
In un mondo caratterizzato da incertezze, ansie e continue sollecitazioni, il messaggio di Giovanni Crisostomo risuona con una straordinaria attualità. Ci induce a riscoprire il valore del cammino, dell’azione intrapresa con fede e fiducia, anche quando le direzioni non sono chiare. Non dobbiamo aspettare che tutte le risposte siano a nostra disposizione; dobbiamo invece metterci in viaggio, sapendo che la luce si manifesterà lungo la strada. Questo non significa agire in modo impulsivo o superficiale, ma coltivare un atteggiamento di apertura e di ascolto. Significa essere pronti a lasciare le nostre sicurezze, ad accogliere l’imprevisto e a credere che, anche nei momenti più bui, c’è una Stella pronta a guidarci.

 

 

 

 

 

Nelle ombre degli Inferi

L’ultimo dono di Anticlea

 

 

 

 

Nella foschia eterna degli Inferi, Ulisse avanzava con passi cauti, il cuore gravido di timori e speranze. Intorno a lui si muovevano ombre evanescenti, fioche come candele sul punto di spegnersi e un vento immoto portava con sé il suono delle voci perdute, spezzate come onde sulla riva del silenzio.
Quando la figura di sua madre, Anticlea, emerse dal nulla, il respiro gli si fermò. Era lì, pallida come la luna, i contorni sfumati dall’eternità. Non era più carne, non era più sangue: era un ricordo incarnato, un’eco della vita che un tempo aveva brillato. Ulisse rimase immobile, il corpo teso come un arco, mentre una fitta di dolore gli squarciava il petto.
«Madre mia», disse infine, la voce tremante come un ramo piegato dal vento. «Perché sei qui? Perché cammini in questo regno di ombre? Quando ti ho lasciata, eri viva, forte…».
Anticlea lo guardò con occhi che riflettevano una tristezza infinita. Parlò con un filo di voce, come se ogni parola fosse un frammento d’anima che si staccava da lei. «Figlio mio, la vita si è spenta in me come una lampada senza olio. Ti ho atteso, Ulisse, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Ma la speranza si consuma, e il cuore, pur forte, può spezzarsi sotto il peso dell’assenza».
Ulisse tese le mani verso di lei, ma il suo gesto incontrò solo il vuoto. Il contatto tanto desiderato si rivelava impossibile; le sue dita affondavano in un’aria gelida e inconsistente. «Madre!», gridò, la voce rotta da un’angoscia senza rimedio. «Non posso abbracciarti? Non posso sentire ancora una volta il tuo calore?».

Anticlea scosse il capo, con un sorriso amaro che non raggiungeva gli occhi. «Non più, figlio mio. Io sono ombra e tu sei vivo. Ma ascolta le mie parole e portale con te come un ultimo dono. Non lasciarti consumare dal rimpianto, né dal desiderio vano di ciò che non puoi cambiare. Torna alla tua casa, alla tua Itaca. Vivi per coloro che ti attendono ancora, perché ogni attesa ha un termine e il tempo non perdona chi lo spreca».
Ulisse rimase in silenzio, le lacrime che solcavano il viso come fiumi di dolore. Sapeva che non l’avrebbe più rivista e quel pensiero era un peso che il suo cuore a stento poteva sopportare. Ma, in quel momento, comprese anche il valore delle sue parole: la vita era il fiume che scorre e non si poteva trattenere l’acqua con le mani.
Mentre Anticlea svaniva nella nebbia, Ulisse rimase lì, avvolto dalla malinconia. Poi, con un ultimo sguardo verso il buio, si voltò, portando con sé non solo il dolore ma anche la consapevolezza che, per onorare i morti, occorre vivere.
E così, il viaggiatore riprese il suo cammino, lasciando dietro di sé le ombre degli Inferi e il fantasma di sua madre, ma portandola per sempre nel cuore, come una fiamma che non si spegne mai.

La vita è un dono fragile, un filo teso tra il passato e il presente. Il dolore del distacco può piegare il cuore, ma non deve imprigionarlo. I morti vivono nei nostri ricordi e il loro insegnamento più grande è questo: vivere pienamente è l’unico modo per onorarli, per trasformare il rimpianto in gratitudine e l’assenza in presenza eterna.

 

 

 

 

 

Il tempo secondo Agostino

Tra mutevolezza umana ed eternità divina

 

 

 

 

Le riflessioni di Agostino sul tempo, espresse nel libro XI delle Confessioni, costituiscono uno dei contributi più profondi nella storia della filosofia e della teologia occidentale. Il tempo, per Agostino, non è una semplice misura del movimento o una realtà fisica separata, ma una dimensione complessa che coinvolge la soggettività umana, la relazione con Dio e il mistero dell’eternità.
Il punto di partenza delle considerazioni agostiniane è la difficoltà stessa di definire il tempo. Nelle Confessioni, esprime questa difficoltà con una celebre affermazione: “Quid est ergo tempus? Si nemo ex me quaerat, scio; si quaerenti explicare velim, nescio” (Che cos’è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo domanda, non lo so). Questo passo costituisce una manifestazione di umiltà intellettuale, rivelando, allo stesso tempo, la natura sfuggente e complessa del tempo, che può essere intuitivamente compreso ma difficilmente espresso in termini razionali.
Agostino si oppone alla visione materialista del tempo come qualcosa di oggettivo e indipendente dall’uomo, proponendo, invece, una concezione fenomenologica: il tempo è profondamente radicato nell’esperienza soggettiva dell’uomo. Passato, presente e futuro non esistono come entità autonome ma come modi di essere dell’anima.
Uno degli aspetti più innovativi della riflessione agostiniana è la centralità del presente. Secondo il vescovo di Ippona, il presente è l’unico tempo realmente esistente. Il passato non è più e il futuro non è ancora, ma entrambi trovano una forma di esistenza nell’anima umana. Il passato vive nella memoria, mentre il futuro si proietta nell’attesa. Il presente, tuttavia, non è statico: è continuamente in divenire, sfuggente e transitorio.
Agostino distingue il presente “del passato” (la memoria), il presente “del presente” (l’attenzione) e il presente “del futuro” (l’attesa). Tale tripartizione mostra come il tempo sia un’unità dinamica, radicata nella coscienza. Questa intuizione, anticipando riflessioni moderne sulla temporalità, pone l’uomo al centro del tempo, non come un osservatore passivo, ma come un essere attivo che vive il tempo nella sua interiorità.

La speculazione agostiniana sul tempo non può essere separata dalla sua concezione di Dio e dell’eternità. Dio è eterno e immutabile, esistente fuori dal tempo. L’eternità, in quanto tale, non è una sequenza infinita di istanti temporali, ma un “eterno presente” in cui tutto è simultaneo. Questo concetto di eternità, che trascende il tempo, è fondamentale per comprendere il rapporto tra Dio e la creazione. Il tempo nasce con la creazione del mondo. Prima della creazione non esisteva il tempo, poiché non vi erano eventi o cambiamenti. Dio non è soggetto al tempo, ma lo ha creato come parte dell’ordine del mondo. Questo porta Agostino a rifiutare la domanda su cosa facesse Dio “prima” della creazione, poiché tale domanda implica un errore concettuale: il “prima” non esiste senza il tempo.
La creazione del tempo, dunque, è strettamente legata alla mutevolezza del mondo. Il tempo è il segno del mutamento, una misura del passaggio da un istante all’altro. In contrapposizione alla mutevolezza del tempo, l’eternità di Dio è immutabile e perfetta. Questo contrasto sottolinea la condizione esistenziale dell’uomo, che vive nel tempo ma aspira all’eternità. L’uomo, nel tempo, sperimenta il continuo fluire degli eventi e la tensione verso ciò che non è ancora. Tuttavia, questa condizione di transitorietà non è solo un limite, ma anche un’opportunità. Attraverso il tempo, l’uomo può orientarsi verso Dio, cercando l’eternità come compimento ultimo della propria esistenza.
Agostino, poi, lega profondamente il concetto di tempo alla storia della salvezza. La temporalità umana non è casuale o priva di significato; è inserita in un disegno divino che ha il suo fulcro nell’Incarnazione e nella Redenzione. Il tempo, pertanto, non è solo il teatro del mutamento e della perdita, ma anche lo spazio in cui Dio si manifesta e agisce per salvare l’uomo. La vita umana è una tensione verso l’eterno, un cammino di conversione che si svolge nel presente. Per Agostino, il presente è il momento in cui l’uomo può scegliere di rivolgersi a Dio, abbandonando il peccato e abbracciando la grazia. Questo conferisce al tempo una dimensione etica e spirituale, trasformandolo in uno strumento per raggiungere l’eternità.

 

 

 

 

Don Ferrante

La critica di Manzoni all’arroganza intellettuale del Seicento

 

 

 

 

Don Ferrante è uno dei personaggi secondari più incisivi de I Promessi Sposi, un esempio straordinario della maestria di Alessandro Manzoni nel delineare figure che, seppur marginali nell’intreccio narrativo, assumono un valore simbolico di grande portata. Don Ferrante incarna temi universali e profondamente significativi per comprendere la mentalità e la cultura del Seicento, attraverso cui Manzoni critica sottilmente e ironicamente la vacuità di un’erudizione scollegata dalla realtà, l’attaccamento a concezioni superate e l’incapacità di adattarsi al cambiamento.
La descrizione della biblioteca di don Ferrante e delle sue abitudini intellettuali diventa lo strumento manzoniano per tracciare il ritratto del personaggio, presentandolo come un intellettuale raffinato e amante dello studio, ma il cui sapere si fonda su paradigmi antiquati, ereditati dalla scolastica medievale e dalla cultura aristotelico-tolemaica, ormai sorpassati. Don Ferrante investe il suo tempo nello studio di discipline quali l’astrologia e la magia naturale, che considera scienze esatte, ignorando, invece, le scoperte moderne e le applicazioni pratiche del sapere. La sua biblioteca, ricca di volumi impolverati e inutilizzati, diventa il simbolo di una cultura sterile, un luogo che raccoglie conoscenze obsolete, incapaci di illuminare o guidare l’azione pratica. Manzoni sottolinea ironicamente come don Ferrante si consideri padrone di un sapere immenso, ma sia in realtà schiavo delle sue stesse illusioni.

Emblematico del suo approccio dogmatico è il celebre discorso sulla peste, in cui nega l’esistenza del morbo perché non conforme ai criteri della filosofia aristotelica. Secondo la sua logica (aristotelica), la peste non può essere né una “sostanza” né un “accidente” e, quindi, non esiste. Questa rigida adesione al pensiero teorico, incapace di confrontarsi con l’evidenza empirica, si traduce in un rifiuto della realtà. Qui l’ironia di Manzoni emerge con forza: don Ferrante, convinto della superiorità del proprio sistema di pensiero, diventa vittima della stessa peste che si ostina a negare. La sua morte, tragica e grottesca, rappresenta una punizione simbolica per la sua arroganza intellettuale e per l’incapacità di adeguare le proprie convinzioni all’esperienza.
Attraverso don Ferrante, Manzoni esprime una critica più ampia alla cultura dominante del Seicento, spesso caratterizzata da una miscela di pedanteria, superstizione e astrattezza. Tale cultura, priva di concretezza e di sensibilità verso i bisogni della società, si rifugiava in dispute teoriche e accademiche, lontane dalla vita reale. Don Ferrante rappresenta perfettamente questo tipo di intellettuale autoreferenziale, chiuso nella propria torre d’avorio, che usa il sapere come strumento di autocelebrazione piuttosto che come mezzo per il progresso e il benessere collettivo.
Manzoni accentua il messaggio della parabola di don Ferrante, ponendolo in contrapposizione con altre figure del romanzo. Fra Cristoforo, ad esempio, incarna una conoscenza pratica e umile, fondata sull’esperienza diretta e sulla fede. Il cardinale Borromeo, invece, rappresenta l’ideale dell’intellettuale illuminato, che mette il proprio sapere al servizio degli altri, guidato dalla carità e dalla capacità di comprendere le necessità concrete degli uomini. In questo confronto, don Ferrante si staglia come simbolo dell’arroganza intellettuale e del fallimento di un sapere che rifiuta il dialogo con l’esperienza.
La parabola di don Ferrante si conclude con una lezione amara e universale: la conoscenza, per essere autentica e valida, deve essere accompagnata dall’apertura mentale e dalla capacità di adattarsi al reale. La figura di don Ferrante, quindi, tratteggiata con un’ironia pungente e al tempo stesso malinconica, costituisce un monito contro i pericoli di un sapere autoreferenziale, incapace di trasformarsi in strumento di progresso e di servizio alla società. La sua morte per peste, l’epilogo inevitabile della sua incapacità di confrontarsi con la realtà, suggella il fallimento di un modello culturale sterile e superato, offrendo al lettore una riflessione sempre attuale sulla necessità di una conoscenza fondata sulla concretezza e sul senso del bene comune.

 

 

 

 

History of Medieval Church


Part IX


The Apex of the Papacy: Innocent III and Boniface VIII

 

 

 

 

The ultimate aspiration of Gregory VII (1073–1085), as outlined in his Dictatus Papae (1075), was fully realized with Innocent III, the most powerful pope of the entire Middle Ages.
Under Innocent III, the papacy solidified its primacy throughout the Western Church and its authority—moral and beyond—over all European states. He embodied the Augustinian concept of the Civitas Dei, bolstered by the Donation of Constantine, which was then regarded as genuine.
At this time, the Church appeared as the true Imperium Romanum, with the papacy claiming absolute power over the world. The pope became the Caput Christianitatis, presiding over many peoples united in a single faith.
Innocent III was a deeply religious man, rich in inner spirituality, dedicated to asceticism, and steadfast in his role as pastor and priest. Born Lotario, from the noble Segni family, in 1160, he studied theology and canon law in Paris and Bologna before being inducted into the College of Cardinals by his uncle, Pope Clement III.
Despite his small stature and fragile health, he was a man of extensive learning, remarkable moral strength, and keen intellect. He possessed a broad perspective and addressed all matters with prudence. His involvement in temporal affairs was solely to safeguard the Church’s autonomy and prevent it from becoming an imperial fiefdom.
Innocent III did not claim the right to elect the emperor but reserved the authority to evaluate the moral qualities of the candidate.
To Innocent III, the affairs of this world were subordinate to God’s divine order. Thus, sovereigns and princes were obliged to bow to God’s will. He envisioned the world as a great hierarchy with Christendom at its apex, where the pope served as an intermediary between God and humanity, judging all but answerable only to God.
He recognized the importance of mendicant orders within the Church, particularly approving the Order of St. Francis, understanding that these orders would drive the Church’s renewal, which had become overly entangled in worldly affairs. Innocent shared their detachment from wealth and grandeur, abstaining from such distractions himself.
Innocent III’s legacy can be understood through four key areas. First, in political leadership, Innocent III brought stability to Rome and the Papal States, effectively defending them against expansionist threats and imperial claims. His governance reinforced papal authority and ensured the Church’s influence in temporal matters. Second, in the realm of crusades and unity, he played a pivotal role in organizing the Fourth Crusade, aiming to reclaim the Holy Land. Additionally, he sought to reconcile the Western and Eastern Churches, emphasizing the need for unity in Christendom. Third, Innocent III focused on combatting heresies, actively opposing movements like the Cathars and Waldensians. His efforts to preserve orthodox faith and practice defined much of his papacy’s confrontational stance against perceived threats to Church doctrine. Finally, his commitment to church reform culminated in the Fourth Lateran Council, a historic assembly of 500 bishops and 800 abbots. This council synthesized his reform efforts, addressing themes such as Church administration, the moralization of the clergy, the promotion of the Fourth Crusade, and the suppression of heresies, solidifying Innocent III’s influence and marking the zenith of his papal reign.

Innocent III and the Struggle with the Hohenstaufens

Innocent III’s pontificate and the 13th century as a whole were marked by the papacy’s struggle against the Hohenstaufen dynasty, which resisted its claims, threatening the libertas ecclesiae. The empire sought to restore the dominance it had enjoyed under the Ottonians.
After complex events, Innocent III deposed Emperor Otto IV, who had reneged on his pro-papal promises, and supported Frederick II’s ascension as King of Germany in 1212. However, Frederick II soon sought to subordinate the Church to his authority, envisioning a unified religious and political power vested in the emperor.
Pope Gregory IX (1227–1241) sought to resolve the conflict through a council, which Frederick II forcibly prevented. Innocent IV (1243–1254) convened a council in Lyon that excommunicated and deposed Frederick II. With the assistance of Charles of Anjou, the Hohenstaufen dynasty was ultimately defeated, culminating in the execution of Conradin of Swabia in Naples. However, Charles of Anjou himself proved problematic for the papacy.

The Crisis of the System

The protracted struggle with the Hohenstaufens divided Italy into Guelfs (papal supporters) and Ghibellines (imperial supporters), fracturing political forces and creating internal divisions.
Within the College of Cardinals, a growing French dominance began with Urban V (1362–1370), laying the groundwork for the Avignon Papacy. Personal ambitions among noble families, such as the Colonna and Orsini, further compounded these divisions, complicating papal elections and leading to long periods of vacancy.
This dynamic gave rise to an unseemly strategy: electing either a decrepit candidate for a short pontificate or one lacking influence, thereby preserving the status quo. In this context, the hermit monk Pietro da Morrone was elected as Celestine V (1241), amidst enthusiasm from Franciscans and spiritualists hoping for a return to the primitive Church. However, he abdicated within months under the pressure of Benedetto Caetani, who succeeded him as Boniface VIII (1294–1303).
Boniface VIII, a figure of great cultural, moral, and political stature, reorganized the Church and sought to mediate conflicts, including those between France and England. However, his clash with Philip IV of France ultimately led to his humiliation at Anagni and marked the end of the high medieval papacy’s glory.

The Papacy’s Claim to Hierarchical Leadership

Following Gregory VII, the Concordat of Worms, and Innocent III, the Church achieved internal autonomy, free from imperial domination. This autonomy extended to temporal matters, including the Papal States, feudal territories, the imperial crown, and the ability to command any authority.
The medieval papal imperium was justified by a shift from imperial theocracy—where the Church was seen as an extension of imperial power—to papal hierocracy. This shift reflected not domination but a new worldview where creation served the redemption accomplished by Christ, represented in the Church, whose pinnacle was the pope.

The Theory of the Two Swords

The relationship between spiritual and temporal power was illustrated using metaphors such as body-soul, sun-moon, and spiritual-temporal swords. The “two swords” analogy, based on Luke 22:38, was particularly favored due to its scriptural basis.
The gladius spiritualis had two levels: spiritual sanctification and visible, coercive authority expressed through legal and punitive powers. When applying ecclesiastical law to the defiant, the gladius temporalis provided material coercion to enforce decisions.
This duality clarified the interaction of spiritual and temporal powers, highlighting the Church’s supervisory role over worldly authority and its mechanisms for maintaining order and addressing sin. Understanding this dynamic is key to grasping the functioning of the Inquisition.