Archivio mensile:Febbraio 2025

Il nichilismo come crisi e condizione

Nietzsche e Cioran a confronto

 

 

 

 

 

Il nichilismo, concepito come rifiuto dei valori tradizionali e confronto diretto con il vuoto che permea l’esistenza, rappresenta un nodo fondamentale nella filosofia moderna. Friedrich Nietzsche ed Emil Cioran sono tra i pensatori che meglio hanno saputo indagare il significato e le implicazioni di questa condizione. Sebbene entrambi abbiano affrontato il nichilismo con intensità e lucidità, le loro riflessioni divergono profondamente per metodo, obiettivi e prospettive. Mentre Nietzsche vede nel nichilismo una crisi necessaria per la creazione di nuovi valori, Cioran lo abbraccia come una verità ineluttabile, un orizzonte insuperabile della condizione umana.
Per Nietzsche, il nichilismo è una condizione storica e culturale che si manifesta in seguito alla “morte di Dio”, espressione che sintetizza il crollo delle certezze metafisiche e religiose che per secoli avevano sostenuto l’edificio dei valori occidentali. La morte di Dio segna la fine dell’idea che esista un ordine assoluto e trascendente che conferisce significato alla vita. In un mondo privo di fondamenti divini od oggettivi, l’uomo si trova di fronte al vuoto e alla necessità di affrontare il nichilismo. Nietzsche distingue tra “nichilismo passivo” e “nichilismo attivo”. Il primo è caratterizzato dalla rassegnazione, dall’accettazione impotente del vuoto di senso, che conduce al decadimento morale e culturale. È una forma di nichilismo distruttiva, che si limita a constatare la crisi senza proporre alcuna via d’uscita. Il nichilismo attivo, invece, è il momento in cui l’uomo riconosce la caduta dei valori tradizionali e decide di crearne di nuovi. Questo processo culmina nell’Oltreuomo (Übermensch), un individuo capace di affermare la vita nonostante la sua mancanza di significato trascendente. Al centro del pensiero di Nietzsche c’è l’idea che la vita stessa possa e debba essere il valore supremo. L’eterno ritorno, altro concetto cardine della sua filosofia, invita a immaginare di vivere ogni istante come se dovesse ripetersi all’infinito, richiedendo così un amore incondizionato per l’esistenza. Nietzsche, pertanto, trasforma il nichilismo in un’opportunità per la rinascita, proponendo una visione tragica ma vitalistica, che invita a “dire sì” alla vita in tutte le sue contraddizioni.
Emil Cioran, invece, non concepisce il nichilismo come un fenomeno storico da superare, ma come una realtà ontologica che definisce l’essere umano. Per Cioran, il vuoto non è una crisi contingente, ma l’essenza stessa della condizione esistenziale. Nella sua opera, la vita è descritta come intrinsecamente priva di senso, una condanna a cui l’uomo non può sfuggire. Questo pessimismo radicale non si traduce, però, in una chiamata all’azione o al rinnovamento, ma in una forma di contemplazione disincantata del nulla. Cioran abbraccia il nichilismo con un atteggiamento che oscilla tra la malinconia e l’umorismo nero. I suoi aforismi e saggi riflettono un pensiero che non cerca redenzione, ma si limita a osservare con lucidità l’assurdità dell’esistenza. La sofferenza, per Cioran, non è un accidente della vita, ma la sua struttura fondamentale. Tuttavia, questo non lo conduce a un nichilismo disperato: il suo approccio al nulla è intriso di una sorta di ironia tragica, un distacco che permette di convivere con l’insopportabilità dell’essere. A differenza di Nietzsche, Cioran non intravede alcuna possibilità di superare il nichilismo. Anzi, egli critica ogni tentativo di attribuire un senso all’esistenza come una forma di autoinganno. Anche il linguaggio che usa riflette questo atteggiamento: se Nietzsche si esprime con toni vibranti e visionari, Cioran adotta un registro intimo, frammentario, che rende la sua scrittura un’espressione diretta dell’esperienza esistenziale.

La principale differenza tra Nietzsche e Cioran risiede nel loro atteggiamento verso la possibilità di rispondere al nichilismo. Nietzsche vede nel vuoto un’occasione per ricostruire, per immaginare una nuova scala di valori che permetta all’uomo di vivere pienamente nonostante l’assenza di un significato ultimo. Questo slancio vitale rende il suo nichilismo dinamico e propositivo. Al contrario, Cioran si rifiuta di cercare una via d’uscita: il nichilismo, per lui, non è un problema da risolvere, ma una verità ineludibile. Questo lo conduce a un pessimismo radicale, che però non è privo di una sua eleganza estetica e di un’ironia sottile.
Anche il rapporto con la sofferenza li distingue profondamente. Per Nietzsche, la sofferenza è un elemento imprescindibile della vita, qualcosa che va accettato e persino valorizzato come parte del processo creativo. Per Cioran, invece, la sofferenza è la prova della vanità dell’esistenza, il segno della sua intrinseca inutilità. Eppure, in entrambi si trova un invito implicito a confrontarsi con il nulla senza illusioni, ciascuno secondo la propria prospettiva.

 

 

 

 

 

History of Medieval Church


Part X


The Crusades

 

 

 

After Pope Gregory VII asserted the “libertas ecclesiae,” which reached its peak under Innocent III, the task of spreading and affirming the faith (negotium fidei) fell entirely to the Church, which became its primary advocate. Among these efforts were both the Crusades and the struggles against heretics. This movement followed a precise logic: the Church’s spiritual authority (gladius spiritualis) issued decrees and bulls (gladius spiritualis materialis) that justified certain undertakings, which were then entrusted to the king (gladius temporalis). This framework operated within a historical and social order perceived as divine, ordained by God for salvific purposes.

Formation and Motivation of the Crusading Idea

The Crusades, launched to liberate the Holy Land from Islam, were based on two fundamental principles: a religious-political one—the “pilgrimage to Jerusalem” and the “libertas ecclesiae”—and a practical one: removing obstacles imposed by Muslims on the numerous pilgrims traveling to the Holy Land. The Crusades were preceded by armed escorts accompanying pilgrims, thereby integrating into the concept of an armed pilgrimage. They also found their political foundation in the Gregorian Reform’s Libertas ecclesiae: the pope was now responsible for ensuring the Church’s security by liberating it not only from heretics, simoniacs, and Nicolaitans but also from infidels besieging Jerusalem, perceived as an extension of the Church itself. Thus, the early Crusades became a political exercise of the new libertas ecclesiae, shaping the reformed Church of the Gregorian era. Furthermore, while the Church had always maintained a passive stance toward wars, between the 10th and 11th centuries, it was compelled to take a stand against the daily misfortunes, abuses, violence, and feuds plaguing Christian Europe. Particularly in southern France, two “pacifist” movements emerged: the “Peace of God” and the “Truce of God,” the latter appearing at the Council of Elne in 1027, which established specific periods during which violence was prohibited.

However, these pacifist efforts yielded little success. Consequently, security measures led by bishops were implemented to suppress violence and enforce the truces. The knight was entrusted with defending the weak, forming the ideal of the Christian knight. In the latter half of the 11th century, the reforming papacy sought to influence the nobility’s ethics, adopting the instrument of holy war. Gregory VII, who exhibited a strong warrior spirit, inspired the Militia Sancti Petri and linked pilgrimages to the Holy Land with the Church’s freedom. These developments fostered the Church’s concept of Holy War—war waged for religious purposes and in the Church’s and Christendom’s interest, where the use of arms and violence was deemed meritorious if for just causes. Thus, both the defense of the Church and the pilgrimage to Jerusalem were considered acts of merit for the remission of sins. From this sacralization of war emerged the belief that its jurisdiction belonged to the clergy. It was the pope’s prerogative to declare wars “just,” granting indulgences and remission of sins while justifying the violence committed by participants.
To fully understand the phenomenon of the Crusades, one must consider the spiritual climate of Christianitas in the West, shaped by the Gregorian Reform. Only within a Christendom imbued with a strong religious and faith-driven ideal could the psychological, moral, and spiritual conditions enabling the Crusades arise.
The Crusading idea was closely linked to the concept of pilgrimage to the Holy Land, viewed as a return to the cradle of faith and Christianity. The Crusades were fundamentally religious in nature and were conceived as military actions to ensure safe passage and Christian presence in the Holy Places. Additionally, historical circumstances played a role: Rome was deeply concerned about the East’s situation following the Byzantine defeat at Manzikert in 1071 and the Turkish conquest of Jerusalem and Damascus in 1076. What would happen to the West and Christendom if the Eastern Roman Empire collapsed? Another crucial factor in the formation of the Crusades was chivalry. After the Carolingian Empire’s dissolution, chivalry became synonymous with plunder, robbery, and oppression. The Church’s patient educational efforts redirected these energies toward noble ideals of protecting the weak and women. Finally, through a liturgical consecration, the knight took on the form of a Christian warrior, akin to a religious soldier. Nobility began to converge within the chivalric ranks, leading to the rise of knightly orders, which the pope would later call upon to defend Christendom and the Holy Sepulcher.

The Crusades: Historical Aspects

There is no doubt that the ideals driving the Crusades were primarily Christian and missionary in nature. What prompted the pope and Western Christendom to create these military movements for conquest and liberation was the alarming situation in the East: the Turkish conquest of Jerusalem (1071) and the continuous complaints from pilgrims about Turkish oppression. Additionally, Islamic armies threatened Constantinople, leading Emperor Alexios I to seek Western aid. Pope Urban II, moved by these appeals, made a passionate call to Christendom at the Synods of Piacenza and Clermont. The response was overwhelming, with the unanimous cry of Deus lo vult! as Europe mobilized to aid the Byzantine East and liberate the Holy Land. Since both Henry IV and Philip I were excommunicated, leadership of this vast movement fell to the pope. Remarkably, this happened just 50 years after the Synod of Sutri (1046), in which Henry III had saved the papacy and set it on the path to universal greatness.

The Major Crusades

First Crusade (1096–1099)
Urban II’s powerful speech at Clermont, spread by zealous preachers across Europe, ignited fervor. The popular response was overwhelming. An enormous crowd of peasants and commoners, led by Peter the Hermit, preceded the official crusading armies. However, these undisciplined zealots committed bloody massacres of Jews and engaged in pillaging and violence along their path. They were swiftly annihilated by the Turks in their first encounter. The main army, divided into four contingents, converged at Constantinople in 1097 and, in July 1099, conquered Jerusalem, unleashing disgraceful looting and horrific massacres of the local population. The outcome of this First Crusade was the establishment of the Christian Kingdom of Jerusalem, modeled on the feudal system with small principalities.

Second Crusade (1147–1149)
Launched to aid Eastern Christians against the Turks, who had seized Edessa (1144). Preached fervently by Bernard of Clairvaux, the crusading armies of France and Germany regrouped but suffered heavy losses, ultimately returning defeated and disillusioned. This left the Kingdom of Jerusalem isolated and vulnerable to the powerful Saladin, who conquered it in 1187. This set the stage for the Third Crusade.

Third Crusade (1189–1192)
Responding to Saladin’s conquest of Jerusalem, this well-organized crusade achieved a brilliant victory at Iconium. However, the unexpected death of Emperor Frederick Barbarossa deprived the expedition of its leader, preventing further success. Nonetheless, it secured a truce allowing Christians access to Jerusalem.

Fourth Crusade (1202–1204)
The death of Saladin (1192) encouraged the West to embark on another crusade, promoted by Pope Innocent III. Unfortunately, the expedition, financed by Venice, which had expansionist and commercial ambitions in the East, was diverted to Constantinople. There, after a horrific massacre that deepened the rift between East and West, the Latin Empire was established, provoking bitterness and outrage throughout the Western world. This crusade was a religious and political tragedy to the extent that doubts arose about the feasibility of continuing these “Christian expeditions.” It was at this point that the idea emerged that God might prefer to rely on defenseless virgins and children rather than warriors. Inspired by this notion, the so-called “Children’s Crusade” (1212) took place, consisting of boys from France and Germany, but it ended in utter failure.

Fifth Crusade (1217–1221)
This was a private enterprise undertaken by the excommunicated Emperor Frederick II, which ultimately proved to be a substantial failure. The crusaders seized Damietta in Egypt with the intention of exchanging it for Jerusalem; however, they became trapped there and were forced to retreat hastily to save themselves. It was in Damietta, in 1219, that Saint Francis attempted, unsuccessfully, to convert Sultan Al-Kamil.

Sixth Crusade (1228–1229)
This was the only crusade, aside from the First, to achieve positive results. Led by Frederick II, it secured Jerusalem, Nazareth, and Bethlehem through negotiations with Sultan Al-Kamil, along with a ten-year truce. However, Christendom viewed this achievement with suspicion, considering it impious, though Jerusalem remained under Christian control until 1244.

Seventh Crusade (1249–1254)
King Louis IX took on the mission of liberating the Holy Land, but after conquering Damietta, he was captured and remained imprisoned for four years before returning to France upon paying a hefty ransom. He later attempted an Eighth Crusade (1270), which ended in disaster as disease decimated his forces. The king died in front of Tunis. Twenty years later, all Latin possessions in the East were abandoned.

The Consequences of the Crusades

Although the Crusades ultimately ended in military failure, they had a profound impact on social, cultural, political, and religious spheres. For nearly two centuries (1095–1291), Europe rediscovered its Christianitas, rallying around the papacy as the spiritual, religious, and political leader of the West, transcending the boundaries of individual states. During these centuries, a unified European and Western consciousness emerged, with the papacy serving as its focal point and unifying force. Additionally, there was a spiritual and religious awakening of consciences, as people viewed the Crusades as a Peregrinatio religiosa—a sacred pilgrimage modeled on the poor and crucified Redeemer, inspiring the ideal of imitating Christ through poverty and penance. This, in turn, led to the rise of the first pauperist movements. Another consequence was the increase in the religious and political authority of the papacy, which became the central force unifying all of Western Christendom. The Crusades also fostered a renewed connection between the West and the East, akin to a return to Christian origins. They facilitated encounters with Arab culture, particularly Arab-Aristotelian philosophy, opening new theological perspectives. Trade also benefited, especially for Venice, which built its commercial empire upon the Crusades. Finally, the Crusades alleviated social tensions by channeling everyday violence into what was perceived as a righteous cause. For violent individuals, troublemakers, impoverished wanderers, and adventurers, the Crusades provided an outlet for their existential instability.

Negative Aspects of the Crusades

The Crusades’ results were meager, disappointing, and virtually nonexistent. The objectives set out were largely unfulfilled, leading to massive casualties and unimaginable violence that wounded the consciences of both the Western and Eastern worlds. From an evangelical perspective, the Crusades were a disaster, inflicting a deep spiritual and moral wound within the Church. In recent times, the Church has felt the need to seek God’s forgiveness for the immense, reckless massacres and the great suffering inflicted on a part of humanity.

 

 

 

 

 

L’utopia realizzabile

La visione politica di James Harrington
in La Repubblica di Oceana

 

 

 

 

James Harrington, filosofo e teorico politico inglese, scrisse La Repubblica di Oceana nel 1656, in un periodo storico segnato da profondi cambiamenti politici e sociali in Inghilterra. L’opera fu pubblicata durante il Commonwealth di Oliver Cromwell, successivo alla Guerra civile inglese (1642-1651) e alla decapitazione del re Carlo I nel 1649. In un’epoca in cui il vecchio ordine monarchico veniva messo in discussione e le idee repubblicane iniziavano a guadagnare terreno, Harrington propose un modello di governo che si poneva quale alternativa sia al dispotismo monarchico sia ai rischi di instabilità associati alla democrazia diretta. La Repubblica di Oceana rappresenta, quindi, una risposta politica e intellettuale ai problemi del suo tempo, fornendo la visione di una società razionale, equilibrata e stabile.
Il contesto culturale e politico del Seicento inglese fu caratterizzato da una crescente riflessione sulla sovranità, sulla proprietà e sulla partecipazione politica. La rivoluzione puritana e la successiva instaurazione del Commonwealth avevano sollevato interrogativi fondamentali sull’organizzazione del potere e sul ruolo delle istituzioni. Harrington, influenzato dai classici greci e romani, nonché dalle opere di Machiavelli, si fece portavoce di un’idea di governo basata su princìpi razionali e sulla virtù civica. La sua opera si distingue per l’intento pratico: non si limita a immaginare una società ideale, ma si propone di offrire soluzioni concrete e applicabili al contesto inglese del suo tempo.
Il cuore della riflessione di Harrington risiede nella connessione tra proprietà terriera e potere politico. Secondo il filosofo, il controllo della terra determina inevitabilmente l’equilibrio delle forze politiche in una società. La concentrazione delle proprietà in poche mani conduce a governi oligarchici o tirannici, mentre una distribuzione più equa della terra garantisce stabilità e partecipazione democratica. Harrington propone, quindi, una redistribuzione della proprietà fondiaria come fondamento di una società giusta e di un governo repubblicano. Questo approccio evidenzia l’importanza delle strutture economiche come base per l’organizzazione politica, anticipando tematiche che sarebbero poi emerse con forza nel pensiero politico moderno.

Un altro elemento centrale di La Repubblica di Oceana è la sua struttura istituzionale, che riflette un modello di governo misto. Harrington immagina una repubblica in cui il potere sia distribuito tra diverse istituzioni, ognuna delle quali rappresenta un principio politico distinto. Il Senato rappresenta l’aristocrazia e si occupa della deliberazione e della formulazione delle leggi, mentre l’assemblea popolare, espressione della democrazia, approva le decisioni legislative. A questi due organi si aggiunge un esecutivo, incaricato di applicare le leggi e garantire l’equilibrio tra le parti. Questo sistema misto si ispira alla costituzione dell’antica Roma e alle riflessioni di Polibio sulla combinazione di monarchia, aristocrazia e democrazia, adattandole al contesto moderno di Harrington. Per prevenire la corruzione e il consolidamento del potere, Harrington introduce l’idea della rotazione degli incarichi pubblici attraverso meccanismi di sorteggio ed elezione, una proposta che mira a garantire la partecipazione diffusa e a evitare che una classe politica si trasformi in una casta privilegiata.
L’etica politica di Harrington ruota intorno al concetto di virtù civica, considerata il fondamento di una società stabile e giusta. In Oceana, i cittadini sono attivamente coinvolti nella vita politica e mettono il bene comune al di sopra degli interessi personali. La partecipazione attiva e consapevole alla res publica è il principio cardine su cui si basa la stabilità della repubblica. Harrington ritiene che una società virtuosa possa essere costruita solo attraverso un’educazione politica e una distribuzione equa delle risorse, che impediscano la formazione di disuguaglianze eccessive.
Sul piano delle influenze e dei confronti, La Repubblica di Oceana si colloca nel filone delle utopie politiche del Seicento, ma si distingue per la sua attenzione alle implicazioni pratiche delle teorie proposte. Rispetto a opere precedenti, come La Città del Sole di Tommaso Campanella, pubblicata nel 1602, l’approccio di Harrington è meno idealistico e più orientato a rispondere alle esigenze concrete del suo tempo. Campanella immagina una società teocratica e proto-comunista, in cui la proprietà privata è abolita e il governo è affidato ai sapienti, secondo una visione influenzata dal neoplatonismo e dalla religiosità. Harrington, invece, considera la proprietà come una componente essenziale dell’ordine politico e si concentra su una redistribuzione equa piuttosto che sulla sua eliminazione.
Un altro confronto significativo è con Nuova Atlantide di Francis Bacon, pubblicata postuma nel 1626. Bacon descrive una società ideale basata sul progresso scientifico e tecnologico, in cui l’organizzazione politica è subordinata alla ricerca del sapere e al benessere collettivo derivante dall’innovazione. Sebbene Harrington condivida l’idea di una società razionale, la sua attenzione si rivolge principalmente agli aspetti istituzionali e alla gestione del potere, piuttosto che alla scienza o alla tecnologia.
Infine, un paragone interessante può essere fatto con Utopia di Thomas More, pubblicata nel 1516, che, pur appartenendo a un contesto storico e culturale diverso, condivide con Oceana il desiderio di riformare la società attraverso un modello ideale. Tuttavia, mentre l’opera di More si presenta come una narrazione satirica che solleva interrogativi senza offrire soluzioni applicabili, Harrington costruisce un sistema politico dettagliato e concretamente realizzabile.
L’eredità de La Repubblica di Oceana è significativa, in quanto anticipa molte delle idee che sarebbero state sviluppate nel pensiero politico moderno. Harrington influenzò teorici come John Locke e Montesquieu, i quali ripresero i suoi concetti di separazione dei poteri e di equilibrio politico. L’opera ispirò anche i Padri Fondatori degli Stati Uniti, che ne trassero spunti per la redazione della Costituzione americana. In definitiva, La Repubblica di Oceana costituisce un punto di incontro tra utopia e realismo politico, una visione ambiziosa di una società giusta e stabile che riflette le tensioni e le speranze del Seicento inglese, ma che continua a offrire spunti di riflessione anche nella contemporaneità.