#9 Dream

 

Nell’estate del 1982, tra le cicale del dopopranzo e le inutili letture nel sussidiario, mi affaccio dal mio terrazzino verso il grande ciliegio di fronte, e verso il dirimpettaio, e verso la pubertà. Lui, il dirimpettaio dico, è un ometto sui quaranta, in costume da bagno, intento a leggere un libro e ad abbronzarsi dalla sdraio, là nel suo balcone. Un pomeriggio si accorge di me. Sono lì che sfioro le asparagine nei vasi di mia madre, poi mi tolgo la canottiera, certo del fatto che mi ha finalmente notato. Infatti è lì che guarda, dietro gli occhiali da vista, e poi fa di sì con la testa. Ci separa un garage, ci separa il ciliegio, e, anagraficamente, trent’anni all’incirca. Il pomeriggio dopo il rito si ripete. Cicale, riverbero, afa. L’ometto in costume fa di sì con la testa e poi, ecco, contraccambia. A modo suo. Poi il tutto va avanti per un po’. Giorni, settimane.
“#9 Dream” di John Lennon gira sul piatto dei miei quasi dieci anni, sugli echi delle bombe lanciate nelle Falkland. Sui nostri slip che cadono a terra. Poi l’ometto sforbicia medio e indice e ammicca: esci e vieni da me, sono solo. C’è un sole che spezza. Un abisso di cicale. Tutti che dormono.
“Ah! böwakawa poussé, poussé.”

Patrick Gentile

 

Benjamin-Lasnier-images

 

 

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