Nelle ombre degli Inferi

L’ultimo dono di Anticlea

 

 

 

 

Nella foschia eterna degli Inferi, Ulisse avanzava con passi cauti, il cuore gravido di timori e speranze. Intorno a lui si muovevano ombre evanescenti, fioche come candele sul punto di spegnersi e un vento immoto portava con sé il suono delle voci perdute, spezzate come onde sulla riva del silenzio.
Quando la figura di sua madre, Anticlea, emerse dal nulla, il respiro gli si fermò. Era lì, pallida come la luna, i contorni sfumati dall’eternità. Non era più carne, non era più sangue: era un ricordo incarnato, un’eco della vita che un tempo aveva brillato. Ulisse rimase immobile, il corpo teso come un arco, mentre una fitta di dolore gli squarciava il petto.
«Madre mia», disse infine, la voce tremante come un ramo piegato dal vento. «Perché sei qui? Perché cammini in questo regno di ombre? Quando ti ho lasciata, eri viva, forte…».
Anticlea lo guardò con occhi che riflettevano una tristezza infinita. Parlò con un filo di voce, come se ogni parola fosse un frammento d’anima che si staccava da lei. «Figlio mio, la vita si è spenta in me come una lampada senza olio. Ti ho atteso, Ulisse, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Ma la speranza si consuma, e il cuore, pur forte, può spezzarsi sotto il peso dell’assenza».
Ulisse tese le mani verso di lei, ma il suo gesto incontrò solo il vuoto. Il contatto tanto desiderato si rivelava impossibile; le sue dita affondavano in un’aria gelida e inconsistente. «Madre!», gridò, la voce rotta da un’angoscia senza rimedio. «Non posso abbracciarti? Non posso sentire ancora una volta il tuo calore?».

Anticlea scosse il capo, con un sorriso amaro che non raggiungeva gli occhi. «Non più, figlio mio. Io sono ombra e tu sei vivo. Ma ascolta le mie parole e portale con te come un ultimo dono. Non lasciarti consumare dal rimpianto, né dal desiderio vano di ciò che non puoi cambiare. Torna alla tua casa, alla tua Itaca. Vivi per coloro che ti attendono ancora, perché ogni attesa ha un termine e il tempo non perdona chi lo spreca».
Ulisse rimase in silenzio, le lacrime che solcavano il viso come fiumi di dolore. Sapeva che non l’avrebbe più rivista e quel pensiero era un peso che il suo cuore a stento poteva sopportare. Ma, in quel momento, comprese anche il valore delle sue parole: la vita era il fiume che scorre e non si poteva trattenere l’acqua con le mani.
Mentre Anticlea svaniva nella nebbia, Ulisse rimase lì, avvolto dalla malinconia. Poi, con un ultimo sguardo verso il buio, si voltò, portando con sé non solo il dolore ma anche la consapevolezza che, per onorare i morti, occorre vivere.
E così, il viaggiatore riprese il suo cammino, lasciando dietro di sé le ombre degli Inferi e il fantasma di sua madre, ma portandola per sempre nel cuore, come una fiamma che non si spegne mai.

La vita è un dono fragile, un filo teso tra il passato e il presente. Il dolore del distacco può piegare il cuore, ma non deve imprigionarlo. I morti vivono nei nostri ricordi e il loro insegnamento più grande è questo: vivere pienamente è l’unico modo per onorarli, per trasformare il rimpianto in gratitudine e l’assenza in presenza eterna.

 

 

 

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *