Archivi autore: Riccardo Piroddi

L’ilarità filosofica

Il paradosso del comico tra autocoscienza e tragicità dell’esistenza

 

 

 

 

L’ilarità, un concetto che apparentemente evoca leggerezza e semplicità, assume nella riflessione filosofica un valore profondamente complesso. Non è solo una reazione immediata al comico o all’inaspettato, ma una finestra sul rapporto tra l’individuo e la propria esistenza, una chiave per comprendere le sfumature della consapevolezza di sé. Nel corso della storia del pensiero, questo termine ha attraversato una trasformazione significativa, divenendo simbolo di un’esperienza umana in bilico tra il tragico e il comico, tra il ridicolo e il sublime.
La celebre aneddotica di Platone su Talete, il filosofo che cade in un pozzo mentre osserva il cielo, suscitando le risa di una serva, aggiunge un’altra dimensione al concetto di ilarità. Qui il riso nasce dall’incontro-scontro tra due visioni opposte della vita: da un lato, la ricerca speculativa di chi tenta di comprendere le stelle e i misteri del cosmo; dall’altro, il pragmatismo terreno di chi, come la serva, deride ciò che non comprende. L’ilarità diventa, in questo caso, un mezzo per mettere in luce i limiti di entrambe le prospettive. La caduta di Talete non è solo un incidente fisico, ma un simbolo dell’intrinseca vulnerabilità del pensiero filosofico. Mentre l’astrazione spinge il filosofo a distaccarsi dal mondo concreto, la risata della serva mostra quanto questo distacco possa sembrare ridicolo a chi vive immerso nella quotidianità. Tuttavia, Platone non condanna né il filosofo né la risata: piuttosto, ci invita a considerare l’ironia come una forza dialettica, capace di mettere in discussione le certezze di entrambi i poli.
Giordano Bruno approfondisce ulteriormente il concetto di ilarità attraverso il suo motto: “ilare nella tristezza, triste nell’ilarità”. Qui l’ilarità si carica di una tensione paradossale, rivelando la complessità dell’esperienza umana. Bruno, filosofo del pensiero libero e della vastità dell’universo, non considera la risata come mera leggerezza, ma come un modo di confrontarsi con l’infinito e la propria limitatezza. Essere ilare nella tristezza significa, per Bruno, trovare un sorriso nella consapevolezza della tragicità dell’esistenza: l’universo infinito, che egli descrive come privo di un centro, ci ricorda la nostra piccolezza e insignificanza. Tuttavia, in questo senso di smarrimento cosmico, si apre la possibilità di un’ilarità profonda, che non è distrazione, ma accettazione consapevole. Allo stesso modo, essere tristi nell’ilarità richiama il rischio dell’autoinganno: la risata che nasce dall’ignoranza della condizione umana è una tristezza mascherata, un’espressione di inconsapevolezza. In Bruno, dunque, l’ilarità non è mai disgiunta dal tragico, ma ne è una controparte dialettica, un mezzo per attraversare il dolore e andare oltre.

Per Søren Kierkegaard, pensatore profondamente attento alle contraddizioni dell’esistenza, l’ilarità non è solo un segnale di superficialità, ma anche un sintomo di un’umanità che sfugge alla responsabilità della propria condizione. Nel suo celebre scenario apocalittico, il mondo viene immaginato come destinato a finire non tra disperazione o orrore, ma tra le risate dei “buontemponi”, figure che incarnano l’incapacità di affrontare il peso dell’esistenza. Questa ilarità è leggera, ma non innocua: essa rappresenta una forma di rimozione collettiva della verità. Kierkegaard lega il riso a una delle sue nozioni centrali: l’angoscia. L’ilarità può emergere come un riflesso dell’angoscia, una fuga dalle domande fondamentali della vita, come il senso della morte, la responsabilità etica e la possibilità della fede. In questa prospettiva, il comico diventa tragico: le risate che accompagnano la fine del mondo non sono liberatorie, ma testimonianza di un fallimento esistenziale, di un’umanità che si è ridotta a giocare con la propria finitezza, ignorandola fino alla fine.
Nel contesto filosofico, il termine ilarità assume un valore profondamente esistenziale. Non si tratta più soltanto di una reazione emotiva, ma di un sentimento di sé, un barlume iniziale di autocoscienza che emerge dall’esperienza dell’assurdo e del paradosso. Questa esperienza può manifestarsi come distacco, nel senso di ridere di sé stessi per prendere una distanza critica dalla propria condizione, superare l’egocentrismo e riconoscere la relatività delle proprie preoccupazioni. Può anche presentarsi come risveglio, poiché l’ilarità, in particolare quella che nasce dall’ironia, scuote dalle certezze consolidate, aprendo la strada a una riflessione più profonda sulla propria esistenza. Infine, può rappresentare un’accettazione, dove il riso, nei suoi momenti più alti, diventa un atto di riconciliazione con la tragicità della vita, un modo per dire “sì” al mondo nonostante le sue contraddizioni. L’ilarità filosofica, dunque, non è mai pura evasione, ma uno strumento per affrontare il reale. Essa permette di cogliere la sottile linea che separa il senso dal non senso, mostrando come il comico e il tragico si intreccino nell’esperienza umana.

 

 

 

 

 

La superstizione tra potere, paura e ragione

Un breve viaggio filosofico attraverso i secoli

 

 

 

 

Il concetto di superstizione ha affascinato e impegnato molti dei più grandi filosofi della storia, ciascuno dei quali ha affrontato il tema in relazione al contesto culturale e intellettuale del proprio tempo. Approfondire le riflessioni di Seneca, Spinoza, Kant e Nietzsche ci permette di comprendere come l’idea di superstizione si sia evoluta e come rappresenti non solo una manifestazione di credenze errate, ma anche un riflesso della società e dei suoi limiti.
Per Lucio Anneo Seneca, la superstizione costituisce una corruzione dell’autentica religione. Nei suoi scritti, Seneca distingue la vera religione, caratterizzata da un culto sobrio e razionale degli dèi, dalla superstizione, che è irrazionale e dominata da rituali eccessivi e senza significato. Questa distinzione si basa sulla convinzione che la religione dovrebbe promuovere la virtù e guidare l’uomo verso una vita in armonia con la natura e la ragione, secondo i princìpi dello stoicismo. Seneca critica aspramente coloro che sostituiscono la devozione ponderata con riti complessi e futili, che non solo non arricchiscono l’animo umano, ma lo impoveriscono, legandolo a pratiche insensate. La superstizione, per lui, è l’incapacità di vedere la divinità come razionale e benevola, preferendo, piuttosto, attribuirle caratteristiche capricciose e temibili. Questo atteggiamento porta a una religione basata sulla paura anziché sul rispetto e sulla comprensione, compromettendo così la vera essenza spirituale e morale della fede.
Baruch Spinoza ritiene la superstizione un riflesso dell’insicurezza umana. Nel suo Tractatus Theologico-Politicus, sostiene che l’uomo, incapace di controllare gli eventi naturali e soggetto a passioni forti come la paura, cerca rifugio in spiegazioni che lo rassicurino. Questo processo psicologico, secondo il filosofo, è alla base della formazione delle credenze superstiziose. Quando le persone affrontano situazioni di crisi o di pericolo, tendono a sviluppare una fede cieca in entità soprannaturali o rituali che promettono protezione o salvezza. Spinoza va oltre la semplice descrizione della superstizione come prodotto dell’ignoranza: la interpreta come uno strumento di manipolazione sociale. I leader politici e religiosi sfruttano la superstizione per consolidare il loro potere. Promuovendo credenze che incutono timore, possono influenzare le azioni delle masse e controllare le loro scelte. Questa prospettiva evidenzia un’analisi sofisticata delle dinamiche tra potere e credenza, suggerendo che la superstizione non sia solo un sottoprodotto della mente umana, ma anche una costruzione intenzionale per il controllo sociale.

Immanuel Kant assegna alla ragione il compito di contrastare la superstizione. Nel suo saggio Risposta alla domanda: Che cos’è l’Illuminismo?, definisce l’Illuminismo come l’uscita dell’uomo da una condizione di minorità intellettuale, caratterizzata dall’incapacità di usare il proprio intelletto senza la guida altrui. La superstizione è, per Kant, una manifestazione di questa minorità, un ostacolo che impedisce all’uomo di raggiungere la piena autonomia intellettuale. Secondo Kant, la superstizione non solo compromette la capacità dell’individuo di pensare in modo critico, ma si oppone anche al progresso morale e sociale. Essa sfrutta la debolezza dell’essere umano per mantenere una società stagnante, bloccata in una condizione di paura e dipendenza. La ragione, quindi, diventa lo strumento per illuminare il cammino dell’uomo, liberandolo dalla schiavitù della credenza infondata e avviandolo verso la costruzione di un mondo basato
Friedrich Nietzsche porta la critica della superstizione a un livello più radicale. In Così parlò Zarathustra, egli afferma che i “saggi illustri” hanno servito la superstizione del popolo, non la verità. Questo concetto rivela la convinzione di Nietzsche che la società e le sue istituzioni siano fondate su una rete di menzogne e credenze che soffocano la vitalità e la creatività dell’individuo. Per Nietzsche, la superstizione è un segno di debolezza, una prova della riluttanza dell’umanità a confrontarsi con la realtà senza filtri. Egli vede la superstizione come un elemento che perpetua l’inerzia morale e intellettuale, bloccando l’individuo nel conformismo e nell’accettazione passiva di valori imposti. Solo attraverso il superamento di queste credenze, e quindi attraverso la “morte di Dio” come simbolo della rottura con la tradizione superstiziosa, l’individuo può risvegliarsi alla propria forza e diventare il “superuomo” capace di creare nuovi valori e significati.
La superstizione non è mai stata un fenomeno limitato al passato. Ancora oggi, in una società apparentemente razionale e tecnologicamente avanzata, questa continua a manifestarsi sotto diverse forme. Può assumere aspetti innocui, come rituali scaramantici, oppure infiltrarsi in contesti più pericolosi, come teorie del complotto e credenze pseudoscientifiche. La permanenza della superstizione nel mondo moderno suggerisce che essa risponde a bisogni psicologici profondi: la ricerca di significato, il desiderio di controllo in un mondo caotico e l’affermazione di identità in un contesto collettivo. Le riflessioni dei filosofi offrono una chiave per comprendere come affrontare questa tendenza, promuovendo un’educazione alla razionalità, al pensiero critico e al dialogo aperto.
Pertanto, la superstizione rappresenta un punto d’incontro tra paura, potere, cultura e ragione. Gli insegnamenti di Seneca, Spinoza, Kant e Nietzsche ci esortano a vagliare non solo la natura delle nostre credenze, ma anche a riflettere su come queste influenzino la nostra vita individuale e collettiva. La sfida, oggi come allora, è quella di riconoscere le nostre tendenze superstiziose e contrastarle con la forza della ragione, della conoscenza e della libertà intellettuale.

 

 

 

 

 

Tommaso Campanella e la rivoluzione del pensiero

La filosofia dei sensi come via alla verità

 

 

 

La filosofia di Tommaso Campanella, come emerge dalla sua opera Philosophia sensibus demonstrata, costituisce una risposta vigorosa e innovativa al pensiero filosofico del suo tempo, distinguendosi per il suo forte realismo sensistico e l’opposizione al razionalismo astratto. Pubblicata nel contesto di un’epoca segnata da cambiamenti culturali e scientifici, quest’opera mostra la centralità dell’esperienza sensibile come fondamento della conoscenza, contrapponendosi alle concezioni dominanti della Scolastica medievale.
Campanella, condizionato dalle correnti rinascimentali e dall’interesse per la natura, afferma che la conoscenza debba essere basata sui sensi e sull’osservazione del mondo esterno. Secondo il filosofo calabrese, i sensi non ingannano l’uomo, ma sono il primo e fondamentale strumento per comprendere la realtà. Questa idea viene esplicitata attraverso una critica serrata alle posizioni puramente razionali e logiche, tipiche di alcuni pensatori contemporanei e precedenti.
Un aspetto fondamentale dell’opera è la critica ad Aristotele e alla sua influenza sul pensiero scolastico. Campanella ritiene che l’approccio aristotelico, incentrato su deduzioni logiche e categorizzazioni rigide, abbia distolto la filosofia dall’osservazione diretta della natura. Al contrario, egli propone un metodo che privilegia la sperimentazione diretta e il confronto continuo con la realtà, ponendo in risalto la necessità di un’indagine empirica che sappia trarre le sue leggi dall’esperienza.

Un altro punto chiave del pensiero campanelliano è la concezione della natura come manifestazione del divino. L’opera sottolinea che ogni cosa nell’universo possiede una propria anima o sensibilità, in linea con una visione animistica che permea il suo sistema filosofico. La natura, secondo Campanella, è intrinsecamente legata a Dio e ogni esperienza sensibile rivela una traccia del divino, portando l’uomo non solo alla conoscenza scientifica ma anche alla comprensione spirituale della realtà.
Sebbene, poi, esalti il ruolo dei sensi, non li considera separati dalla ragione. La Philosophia sensibus demonstrata rivela un tentativo di integrazione tra l’osservazione sensibile e la riflessione logica, sottolineando che la vera conoscenza si ottiene quando i sensi collaborano con la mente razionale. In questo modo, egli anticipa alcune istanze della filosofia moderna, proponendo un approccio in cui la scienza e la filosofia dialogano in un rapporto di reciproco arricchimento.
L’opera di Campanella ha influenzato non solo i suoi contemporanei, ma anche il pensiero successivo, gettando le basi per lo sviluppo di un pensiero scientifico più aperto e basato sull’osservazione empirica. La sua critica alle astrazioni logiche e il suo richiamo al mondo sensibile hanno contribuito a delineare un nuovo modo di fare filosofia, in cui l’esperienza diretta non è solo un punto di partenza ma una componente essenziale del processo conoscitivo.
Philosophia sensibus demonstrata rappresenta, quindi, un importante tassello nella storia della filosofia, segnando una svolta verso un metodo empirico e una visione integrata della conoscenza, dove sensi e intelletto collaborano per avvicinare l’uomo alla verità ultima.

 

 

 

 

History of Medieval Church


Part V


Relationship between the Church and Charlemagne

 

 

 

 

The strong missionary drive led by the Anglo-Saxons and St. Boniface (Winfrid), coupled with the establishment of the Papal State, had concentrated significant power in the hands of the Pope, extending across almost the entire Western world.
Following the death of Pope Adrian I (772-795), Leo III (795-816), a presbyter of humble origins, ascended to the papacy. However, he soon became embroiled in courtly intrigues, facing accusations of perjury and adultery, which led to his arrest.
Leo III managed to escape and sought refuge with Charlemagne, who travelled to Rome in November 800 to resolve the papal controversy and restore order. A synod convened to examine the accusations against the Pope, but it declared itself unable to judge, invoking the principle of “Prima sedes a nemine iudicatur,” derived from a false document known as the Symmachian (from Pope Symmachus, 498-514). This forgery created an account of an invented Council of Sinuessa in 303 that asserted this principle.
Two days after the Roman synod concluded on December 23, 800, Charlemagne was acclaimed and crowned emperor in a ceremony modelled after the Byzantine imperial coronation. Although the event appeared sudden and unexpected, various signs indicate that the coronation was prearranged: the elaborate imperial welcome Charlemagne received upon his arrival in Rome, where an opulent crown was already prepared. Additionally, there had been previous imperial aspirations advocating for equal status between Charlemagne and the Byzantine Emperor.
It is likely that this plan was agreed upon between Pope Leo III (795-816) and Charlemagne during their meeting in Paderborn.
The coronation marked a definitive break between Rome and Constantinople and initiated a new era in Christendom, characterized by dual leadership: the Pope and the Emperor. It also represented a turning point in Church-Empire relations, establishing the anointing, coronation, and papal consecration as essential elements of imperial authority.

Charlemagne and the establishment of the Holy Roman Empire

The rise of Charlemagne (768-814) and his subsequent coronation solidified the idea of a restored Roman Empire. He strengthened his internal power and expanded his influence outward. The coronation on December 25, 800, as “Imperator Romanorum,” definitively asserted his dominance over the West. This title was later formally recognized by Byzantium through a series of agreements.
For Charlemagne, however, titles held less significance than the essence of imperial authority, free from Roman claims. He envisioned a new “Imperium Romanum” akin to the Byzantine model, centralized in the core of the Carolingian realm along the Meuse and Rhine.
Thus, two years after his coronation, Charlemagne required an oath of allegiance and sought formal acknowledgment of his title from Constantinople, which Byzantium granted through agreements concluded between 810 and 814. This recognition marked Byzantium’s permanent retreat from Western affairs.
Following these agreements, Charlemagne crowned his son Louis the Pious in Aachen in 813, using the Byzantine imperial rite. This coronation was reiterated in 816 at Reims by Pope Stephen V, reinforcing the Roman origin of the imperial title, which was in service to the Church’s protection.
Charlemagne diligently worked to create a cohesive empire: he mandated the use of a standardized script (Carolingian minuscule); aligned Latin with patristic standards; imposed a unified liturgy blending Gallican-Frankish and Roman traditions; and standardized monastic practices under the Rule of St. Benedict.
Despite these efforts, the Empire remained fragile due to Charlemagne’s death in 814, which prevented full consolidation. The Frankish inheritance system, which called for power-sharing among heirs, also contributed to its downfall.

After Charlemagne’s death, the Holy Roman Empire was divided into three separate kingdoms. Louis the Pious, Charlemagne’s successor, distributed the Empire among his sons according to Frankish succession customs, formalized by the Treaty of Verdun (843), which permanently divided the Empire and ended the unity of the Western Holy Roman Empire. This fragmentation led to significant internal and external pressures, culminating in the abdication of Charles the Fat, one of Charlemagne’s descendants, who proved unable to defend the Empire. The realm ultimately split into five distinct entities: Germany, France, Italy, and Upper and Lower Burgundy, with the imperial title ceasing upon the death of Berengar I, who was assassinated in Verona in 924.
The decline of the Empire coincided with the Church’s waning influence.
In Italy, the papacy, bolstered by the “Pactum Ludovicianum,” secured its autonomy, severing ties with the decaying Carolingian Empire. While this newfound autonomy could have been advantageous, it sparked fierce power struggles. The papacy became a highly contested institution among Roman nobility and southern Italian leaders, resulting in violent conflicts. This era, known as the “Saeculum Obscurum” of the Church, saw rapid turnovers in the papal office, often driven by the shifting dominance of competing factions, leading to instances where rival popes were simultaneously appointed.

A reflection on Theocracy in the Carolingian Empire

It is essential to differentiate between the terms “theocracy,” “hierocracy,” and “caesaropapism.”
“Theocracy” refers to the intervention of rulers in religious matters that fall within the Church’s jurisdiction. In contrast, “hierocracy” is the Church’s intrusion into State affairs. “Caesaropapism” denotes the State’s involvement in the internal administration and organization of the Church.
The Carolingian era was marked by theocratic tendencies, particularly evident in liturgical reform, which aligned with Roman practices yet incorporated local elements, resulting in the Franco-Roman liturgy. This reform was initiated by rulers, not the Church. This development would later give rise to the Latin liturgy.
In legal matters, the “Dionysio-Hadriana Collection” was upheld, augmented with new legislation to meet evolving needs.
Episcopal offices were integrated into the Kingdom through feudal rights.
Legislative mechanisms in the Carolingian period included:

  • Mixed councils, comprising both clerical and lay participants, tasked with legislating social and ecclesiastical matters.
  • The Capitularies, or laws supplementing ordinary chapters.
  • The Missi dominici, inspectors sent on missions throughout the Empire, composed of bishops and lay officials. This overview highlights how, in Carolingian governance, religious and secular responsibilities were interwoven. Charlemagne also engaged in theological debates, such as Adoptionism, which claimed Jesus was God’s Son by adoption; and Iconoclasm, initially resolved by the Second Council of Nicaea convened by Empress Irene but whose conclusions Charlemagne rejected due to the exclusion of the Frankish Church. This applied similarly to the Filioque dispute, stemming from the Council of Constantinople (381).

Charlemagne played a significant role in these matters, but unlike Byzantine emperors, he respected papal authority, maintaining a clear distinction between religious and state powers within the Empire’s unified administration, thus permitting ecclesiastical autonomy.
Two principal powers emerged, mutually independent yet interlinked: religious and secular. This concept, clearly expressed by Pope Gelasius (492-496) in a letter to Emperor Anastasius in 494 and influencing Western political thought for over a millennium, identified the Church with the broader world. The Church was perceived not as an intermediary between God and humanity but as a “Societas fidelium,” where every member, according to their role, was committed to defending the Kingdom of God and converting all people to God. This universalistic view led the Church to embody “Ecclesia universalis.” The ancient Church’s Christ Pantocrator, creator of all, took on an earthly aspect in the medieval period: Christ became the supreme Priest and King governing the “Ecclesia universalis,” encompassing all Christian humanity. Here, the Pope and the King represented sacramental counterparts of one reality: Christ, who lived and expressed Himself through them.
Yet, by the 8th century, a gradual separation between the laity and priesthood began to emerge, initially evident in the liturgy, which symbolized the Church’s life. The King, as a consecrated layman, retained a sacred status, thereby serving as Christ’s legitimate earthly representative.

 

 

 

David Hume e la supremazia delle passioni

La ragione come strumento al servizio dell’emozione

 

 

 

David Hume, uno dei più influenti filosofi dell’Illuminismo scozzese, elaborò una visione radicale e innovativa sulla relazione tra ragione e passioni, sfidando le concezioni tradizionali del pensiero filosofico. L’idea che “la ragione è, e deve essere, schiava delle passioni” sintetizza la sua teoria fondamentale, esposta nel Trattato sulla natura umana, secondo cui l’essere umano non agisce mosso principalmente dalla logica o dalla razionalità pura, ma dalle emozioni, dai desideri e dagli impulsi.
Per comprendere l’originalità del pensiero di Hume, è essenziale situarlo nel contesto filosofico dell’Illuminismo. I filosofi del tempo sottolineavano il potere della ragione come mezzo per accedere alla verità e controllare la realtà. Hume, invece, rovesciò questa prospettiva: mentre questi vedevano la ragione come guida sovrana della vita umana, Hume riconobbe il primato delle passioni come motore delle azioni umane. In questo quadro, la ragione non è altro che uno strumento che serve le passioni, il cui ruolo è subordinato alle emozioni che dominano le scelte individuali.
Hume distingue due tipi di conoscenza: conoscenze di relazioni tra idee e conoscenze di fatti. Le prime si riferiscono alle verità logico-matematiche, che sono universali e immutabili, mentre le seconde riguardano il mondo empirico e possono essere influenzate dalle percezioni sensoriali. Tuttavia, nessuna di queste conoscenze può motivare l’azione da sola; le passioni sono le vere forze propulsive. La ragione, quindi, ha la funzione di fornire le informazioni e i mezzi per raggiungere gli obiettivi determinati dalle passioni, ma non può generare il desiderio di agire autonomamente.
Hume approfondisce la sua analisi distinguendo tra passioni dirette e indirette. Le passioni dirette sono reazioni immediate a esperienze o sensazioni, come dolore, gioia, paura e speranza. Le passioni indirette, invece, sono più complesse e si sviluppano attraverso interazioni con la società, come l’orgoglio, la vergogna, l’amore e l’odio. Queste emozioni non solo influenzano, ma definiscono il modo in cui percepiamo il mondo e le nostre azioni.

Nella visione di Hume, la ragione svolge un ruolo di supporto. Può modulare le passioni e analizzare le conseguenze delle azioni, ma non è essa stessa a motivare l’agire umano. La ragione illumina il percorso, suggerendo strategie e soluzioni, ma la decisione di intraprendere un’azione è sempre radicata nel desiderio e nelle emozioni. Questa concezione sfida la visione più razionalista dell’epoca, che considerava la ragione come la guida suprema e indipendente delle scelte morali.
L’idea che la ragione sia schiava delle passioni ha profonde implicazioni in campo etico. Mentre i filosofi razionalisti come Immanuel Kant sostenevano che la moralità derivasse da principi universali e razionali, Hume argomentò che i giudizi morali fossero il risultato di sentimenti e reazioni emotive. Quando diciamo che qualcosa è “buono” o “cattivo”, non stiamo esprimendo un giudizio oggettivo basato sulla ragione, ma una reazione soggettiva. Le emozioni, dunque, sono la base della moralità, e i giudizi etici variano in base alle esperienze e ai sentimenti comuni all’umanità, piuttosto che seguire un rigido schema razionale.
La concezione di Hume della ragione come “schiava delle passioni” ha trasformato la comprensione della mente umana e del comportamento etico. Ha aperto la strada a una filosofia più empatica e realistica, riconoscendo l’essere umano come un’entità complessa guidata da un intreccio di emozioni e ragione. Questa prospettiva ha avuto un impatto duraturo non solo sulla filosofia, ma anche su psicologia, etica e scienze cognitive, influenzando il modo in cui comprendiamo la motivazione e il comportamento umano.

L’inno alla menzogna

L’arte come rivolta e verità suprema in Oscar Wilde

 

 

 

 

La decadenza della menzogna di Oscar Wilde, pubblicato, per la prima volta, nel 1889, è un saggio emblematico del pensiero dell’autore e dell’estetismo di fine Ottocento, un movimento che rivendicava la centralità dell’arte e della bellezza nella vita contro l’imperante utilitarismo e moralismo della società vittoriana. Wilde, figura iconica di questo movimento, utilizza questo saggio per presentare una difesa appassionata della finzione e della menzogna creativa come essenza stessa dell’arte e della cultura.
La forma dialogica, scelta non casualmente da Wilde, richiama l’antica tradizione platonica e ci introduce a una discussione vivace e stimolante tra Vivian e Cyril. Vivian, la voce principale e alter ego intellettuale di Wilde, espone una teoria estetica audace e paradossale, mentre Cyril funge da contrappunto scettico, un elemento essenziale per creare un dibattito in cui le idee si scontrano e si raffinano. La scelta di questa struttura permette a Wilde non solo di presentare i propri argomenti in modo teatrale, ma anche di coinvolgere il lettore in una riflessione attiva.
Wilde sostiene che la menzogna, lungi dall’essere un atto riprovevole, rappresenta l’apice dell’arte. In un mondo in cui la verità è spesso associata al banale e al convenzionale, l’artista, secondo Wilde, ha il dovere di creare mondi nuovi e visioni superiori della realtà attraverso l’invenzione e la finzione.
Questa difesa della menzogna va letta non come un elogio dell’inganno in senso etico, ma come una celebrazione del potere immaginativo dell’arte, capace di rivelare verità più profonde attraverso l’invenzione. L’arte, sostiene Vivian, deve elevarsi al di sopra della realtà e non limitarsi a imitarla in maniera pedissequa. Questa idea sfida direttamente le concezioni naturalistiche dell’epoca, che cercavano nell’arte uno specchio della realtà.

Wilde critica la tradizione platonica che vede l’arte come imitazione della natura, sottolineando come questa visione sia responsabile di una decadenza culturale. Al contrario, l’arte dovrebbe prendere le distanze dalla natura e proporre qualcosa di completamente nuovo e diverso, una creazione originale che trascende la banalità del mondo tangibile. Per Wilde, la realtà è limitata, imperfetta e grezza; l’arte, invece, è raffinata, ideale e trasformativa.
Questa critica alla mimesi anticipa in parte idee moderne sulla funzione dell’arte, che si distacca dall’essere solo un riflesso della realtà per diventare un’interpretazione o una costruzione indipendente. La modernità ha accolto molte di queste idee, influenzando movimenti artistici e letterari successivi, come il surrealismo e il modernismo, che esplorarono la dimensione del sogno, della finzione e del non convenzionale.
Uno degli aforismi più celebri di Wilde, “La vita imita l’arte molto più di quanto l’arte imiti la vita”, riassume una delle idee chiave del saggio. Secondo questa prospettiva, la realtà prende forma dai modelli artistici e non viceversa. Le mode, i comportamenti e persino le emozioni sono influenzati dall’arte, che agisce come un filtro attraverso il quale la società percepisce e costruisce la propria esperienza. Wilde anticipa così la concezione secondo cui i fenomeni culturali plasmano le nostre percezioni della realtà, un’idea che diventerà centrale nella filosofia e nella critica culturale del Novecento.
La decadenza della menzogna, quindi, non costituisce solo una difesa teorica dell’arte, ma anche una critica sottile e ironica alla società del tempo. Wilde mette in discussione il culto della scienza, del progresso e della verità empirica, sostenendo che una società ossessionata da questi valori rischia di diventare priva di fantasia e di bellezza. La provocazione non è fine a se stessa; piuttosto, serve a scardinare il conformismo intellettuale e a incoraggiare un ritorno all’apprezzamento dell’arte per il suo valore intrinseco.
Le riflessioni di Wilde sulla menzogna e sull’arte sono ancora oggi fonte di ispirazione per il dibattito sull’autonomia dell’arte. La sua difesa dell’immaginazione come strumento di verità superiore ha influenzato non solo la letteratura e l’arte visiva, ma anche la critica filosofica e la teoria della percezione. In un’epoca in cui le rappresentazioni digitali e i mondi virtuali stanno ridefinendo la nostra esperienza del reale, le idee di Wilde sulla finzione e sull’illusione appaiono particolarmente pertinenti.
La sua opera sfida le nozioni tradizionali di verità e realtà, e ci invita a considerare l’importanza di preservare lo spazio dell’immaginazione come un regno di libertà creativa e introspezione. La decadenza della menzogna ci ricorda che, nella sua forma più alta, l’arte è un mezzo attraverso il quale possiamo sfuggire alla tirannia della realtà per scoprire nuove prospettive e significati.

 

 

 

 

L’estetica trascendentale di Kant

La rivoluzione nella comprensione
della conoscenza e della percezione

 

 

 

 

L’estetica trascendentale è una parte fondamentale della filosofia critica di Immanuel Kant ed è approfonditamente trattata nella sua opera principale, la Critica della ragion pura, pubblicata nel 1781. Questa sezione dell’opera si occupa di indagare le condizioni a priori che rendono possibile la conoscenza sensibile, ponendo le basi per la comprensione di come la mente umana struttura l’esperienza.
L’estetica trascendentale è parte di ciò che Kant stesso definì come la sua “rivoluzione copernicana” in filosofia. Questo concetto marca il passaggio da una visione in cui la conoscenza si adatta agli oggetti a una in cui sono gli oggetti dell’esperienza a conformarsi alle strutture della mente. Kant parte dall’assunto che i precedenti tentativi di spiegare come la conoscenza fosse possibile – quelli degli empiristi e dei razionalisti – non fossero stati in grado di risolvere la questione dell’oggettività della conoscenza. Di conseguenza, introdusse un nuovo approccio in cui il soggetto non è una semplice tabula rasa, ma un partecipante attivo che contribuisce alla formazione dell’esperienza.
I concetti di spazio e tempo in Kant sono radicalmente diversi da quelli che si possono trovare in altri filosofi precedenti. Per Kant, sia lo spazio che il tempo non esistono indipendentemente dall’intuizione sensibile: non sono entità che si trovano al di fuori del soggetto, ma condizioni soggettive che permettono al soggetto stesso di organizzare la realtà fenomenica.
Kant afferma che lo spazio è la condizione necessaria per percepire gli oggetti esterni. Non è un concetto derivato dall’esperienza, ma una forma di intuizione che precede l’esperienza stessa. Questa intuizione pura permette al soggetto di percepire le relazioni spaziali, come la distanza e la disposizione degli oggetti. Lo spazio, quindi, non è una qualità degli oggetti stessi, ma una struttura attraverso cui gli oggetti possono essere percepiti come esterni e separati l’uno dall’altro.
Analogamente, il tempo è la forma a priori con cui percepiamo la sequenza e la durata degli eventi. Mentre lo spazio è legato alla percezione esterna, il tempo è connesso alla percezione interna, permettendo al soggetto di organizzare gli stati mentali e le esperienze in una successione coerente. Questo rende possibile non solo la percezione degli eventi, ma anche la loro comprensione come parte di una sequenza temporale.
Uno degli aspetti più significativi dell’estetica trascendentale kantiana è la distinzione tra fenomeno e noumeno. Kant introdusse questa distinzione per chiarire che, sebbene la conoscenza umana possa comprendere il mondo fenomenico (ossia il mondo così come appare a noi), non può mai raggiungere il noumeno (la “cosa in sé”), che rimane inconoscibile. Le forme a priori della sensibilità – spazio e tempo – appartengono al regno del fenomeno e non hanno applicazione al di fuori di esso.

Questa distinzione porta a una comprensione limitata, ma comunque fondamentale, del mondo: conosciamo solo ciò che appare secondo le nostre capacità di percezione e organizzazione. Di conseguenza, la scienza e la conoscenza empirica sono valide solo all’interno dei limiti dell’esperienza umana, senza pretendere di conoscere l’essenza ultima della realtà.
Kant si distanziò dai filosofi empiristi, come Locke e Hume, che sostenevano che la mente umana fosse un foglio bianco su cui le esperienze sensoriali scrivevano il loro contenuto. In contrasto, Kant sostenne che la mente possedesse una struttura innata che organizza e dà senso alle percezioni sensoriali. Questa posizione non è però completamente razionalista. Kant sviluppò una sintesi unica: la conoscenza nasce da una combinazione di intuizioni sensoriali e categorie intellettuali a priori.
L’estetica trascendentale ha implicazioni profonde non solo per l’epistemologia, ma anche per la metafisica. Stabilendo che spazio e tempo sono condizioni soggettive, Kant mostrò che le pretese metafisiche di conoscere l’assoluto sono infondate. La metafisica tradizionale, che cercava di definire la natura ultima della realtà, viene superata dall’approccio critico kantiano: la conoscenza umana ha dei limiti insormontabili e il compito della filosofia non è quello di speculare su ciò che è oltre la portata dell’esperienza, ma di chiarire le condizioni in cui la conoscenza è possibile.
L’impatto della teoria dell’estetica trascendentale di Kant si estese ampiamente al pensiero filosofico successivo. La sua idea che la mente fosse attivamente coinvolta nella costruzione della realtà percepita influenzò il movimento della fenomenologia, con Edmund Husserl che approfondì ulteriormente come la coscienza costituisse l’esperienza. Inoltre, l’idea di limiti intrinseci alla conoscenza umana è stata ripresa dalla filosofia analitica e dalla filosofia della mente contemporanee, contribuendo alle discussioni sui modelli cognitivi e sulle rappresentazioni mentali.

 

 

 

 

Le diverse concezioni filosofiche dello Stato

Da Platone a Fichte, tra ragione, giustizia e libertà

 

 

 

L’idea dello Stato è stata al centro delle riflessioni di molti filosofi, ognuno dei quali ha offerto una prospettiva unica, che riflette la propria visione della natura umana e delle strutture sociali. L’analisi di Platone, Kant, Hegel e Fichte rivela approcci distinti che esaminano lo Stato non solo come istituzione politica ma come elemento fondamentale della realizzazione umana e del progresso sociale.
Platone, nel dialogo Repubblica, analizza la nascita e la struttura ideale dello Stato, partendo dall’idea che esso emerga per rispondere ai bisogni fondamentali dell’uomo. L’essere umano, secondo Platone, non è autosufficiente; è costretto a vivere in comunità per sopravvivere e prosperare. Lo Stato nasce, dunque, per soddisfare le necessità basilari, ma la sua funzione non si limita alla mera sopravvivenza. Platone immagina uno Stato guidato dalla ragione, in cui ogni cittadino occupa il proprio posto in base alle sue capacità e inclinazioni naturali, dando vita a una società giusta e ordinata.
L’idea centrale è che la giustizia non sia solo una virtù personale ma un principio che deve essere incarnato nella struttura stessa dello Stato. Platone divide la società in tre classi: i filosofi-re, i guerrieri e i produttori. I filosofi-re, che possiedono la conoscenza del bene e del giusto, governano lo Stato; i guerrieri difendono e proteggono; i produttori provvedono ai bisogni materiali della società. Questa divisione mira a creare una città armoniosa in cui ogni parte contribuisce al benessere dell’intero.
Immanuel Kant, nella sua filosofia politica, vede lo Stato come un’entità necessaria per garantire la libertà e l’ordine attraverso il diritto. La sua concezione è profondamente legata all’idea di libertà come autonomia, ovvero la capacità di agire secondo la propria ragione, ma nel rispetto della libertà degli altri. Il diritto, per Kant, non è una limitazione arbitraria della libertà individuale, ma una condizione per la sua realizzazione. La legge, emanata dallo Stato, deve essere giusta e universale, rispondendo a ciò che Kant chiama l’imperativo categorico: agire in modo che la massima della propria azione possa diventare una legge universale.
Kant ritiene l’idea di “contratto sociale” quale fondamento dello Stato. Tuttavia, diversamente da altri pensatori come Hobbes o Rousseau, vede il contratto come un modello regolativo piuttosto che storico. Lo Stato non è soltanto un meccanismo di controllo ma un’istituzione morale che permette agli individui di vivere in una società giusta, dove la libertà e l’uguaglianza sono preservate.

Georg Wilhelm Friedrich Hegel, filosofo tedesco dell’Idealismo, pone lo Stato al vertice del processo dialettico, considerandolo l’incarnazione concreta dello spirito oggettivo. Per Hegel, la realtà è mossa da un processo dialettico che implica tesi, antitesi e sintesi, attraverso cui lo spirito si sviluppa e si realizza progressivamente. In questa prospettiva, lo Stato rappresenta la sintesi suprema in cui la libertà individuale e quella collettiva si uniscono in un’armonia razionale.
Hegel considera lo Stato come l’incarnazione della razionalità e della moralità oggettive, distinguendolo dalle associazioni private, come la famiglia e la società civile, che si muovono in un ambito più ristretto. La famiglia è per Hegel la base naturale della società, caratterizzata da affetti e legami personali, mentre la società civile è il luogo del mercato e delle relazioni economiche, dove prevalgono interessi individuali. Lo Stato, invece, supera e include queste sfere, integrandole in una totalità razionale e universale. In tal modo, lo Stato non limita la libertà individuale ma la realizza, poiché ogni cittadino trova la propria vera libertà nella partecipazione alla volontà generale, che riflette la razionalità universale.
Johann Gottlieb Fichte, filosofo idealista tedesco, elabora una visione dello Stato più centrata sull’individuo e sulla sua relazione con la collettività. Lo Stato, per Fichte, è il risultato dell’interazione e della volontà collettiva degli individui che lo compongono. La sua visione è profondamente influenzata dall’idea che l’uomo, per realizzare la propria libertà e dignità, debba trovare un equilibrio tra l’individualità e il bene comune.
Lo Stato fichtiano non si limita a proteggere i diritti naturali dell’individuo, ma li promuove attivamente. In un’ottica di giustizia sociale, Fichte ritiene che lo Stato abbia il compito di creare le condizioni per cui ogni individuo possa sviluppare pienamente le proprie potenzialità. Egli introduce l’idea di uno Stato etico, in cui il benessere comune è prioritario e la libertà di ognuno è concepita come una libertà che contribuisce al rafforzamento della comunità nel suo complesso.
Le concezioni di Platone, Kant, Hegel e Fichte, pur nella loro diversità, mettono in luce la complessità e la profondità del concetto di Stato. Questi contributi filosofici, pertanto, restano fondamentali per comprendere le basi teoriche della politica moderna e per riflettere su come lo Stato possa essere organizzato per garantire libertà, giustizia e progresso sociale.

 

 

 

 

La Volontà e la Potenza

Schopenhauer e Nietzsche a confronto

 

 

 

 

Il confronto tra il concetto di Volontà in Arthur Schopenhauer e quello di volontà di potenza in Friedrich Nietzsche rappresenta un tema fondamentale nella filosofia moderna, evidenziando le profonde differenze di visione tra i due pensatori riguardo alla natura umana e al significato dell’esistenza.
Per approfondire tale raffronto, è utile esaminare le implicazioni ontologiche, etiche e pratiche di ciascun concetto, oltre che il contesto storico-filosofico che ha influenzato queste teorie.
Schopenhauer fonda la sua visione sul concetto di noumeno kantiano, ossia la realtà che esiste al di là della nostra percezione sensoriale. In Il mondo come volontà e rappresentazione, sostiene che, sebbene il mondo come lo percepiamo sia una rappresentazione mentale, esiste una realtà sottostante: la Volontà. Questa non è la volontà individuale e conscia di una persona, ma una forza universale e cieca, che opera al di sotto della superficie di tutte le cose, manifestandosi nel desiderio incessante di vivere, crescere e perpetuarsi.
Schopenhauer ritiene che questa Volontà sia priva di razionalità e significato, portando inevitabilmente alla sofferenza. Ogni essere umano, spinto da questo desiderio incessante, si trova in una condizione di perenne insoddisfazione. La felicità, nella visione schopenhaueriana, è transitoria e momentanea, poiché raggiungere un obiettivo non fa che generare nuovi desideri e perpetuare il ciclo di frustrazione.
La sua prospettiva pessimista è chiara quando afferma: “La vita è essenzialmente dolore, e tanto più si sale nella perfezione della forma, tanto più il dolore aumenta”. “La vita umana deve essere una sorta di errore: la sua condizione preminente è in ogni caso la sofferenza” (Il mondo come volontà e rappresentazione).
Per Schopenhauer, la redenzione dall’incessante sofferenza generata dalla Volontà è possibile solo attraverso la negazione del volere, che può essere raggiunta tramite pratiche ascetiche, la contemplazione estetica e un distacco radicale dai desideri materiali. Questo avvicinamento alla tradizione filosofica orientale, in particolare al buddhismo, implica una via di liberazione che abbandona la lotta e accetta la rinuncia come strada verso la serenità.

Nietzsche riformula l’idea di Volontà, trasformandola in una forza creativa ed essenziale per la realizzazione dell’individuo. A differenza della Volontà schopenhaueriana, che è cieca e dolorosa, la volontà di potenza è un impulso positivo, vòlto all’affermazione, alla crescita e al superamento dei propri limiti. Nei suoi scritti, tra cui Al di là del bene e del male e Così parlò Zarathustra, Nietzsche sviluppa un pensiero in cui la volontà di potenza rappresenta la spinta fondamentale che anima l’intero universo e si manifesta in tutti gli esseri viventi come desiderio di affermarsi e migliorarsi.
La volontà di potenza nietzschiana non è solo un’energia vitale, ma è un principio ontologico che trasforma la vita in un atto creativo. Questo concetto si contrappone alla morale tradizionale e alla visione ascetica proposta da Schopenhauer. Nietzsche critica apertamente la negazione della volontà e la visione pessimistica della vita, vedendo in esse un segno di debolezza e di decadenza. La sua filosofia, invece, celebra la vitalità, l’audacia e la capacità di creare nuovi valori in un mondo privo di significato intrinseco.
Come Nietzsche dichiara in La gaia scienza: “Dio è morto. Dio resta morto. E noi lo abbiamo ucciso. […] Non è forse la grandezza di quest’atto troppo grande per noi? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, solo per esserne all’altezza?”. Questa affermazione sottolinea l’idea che, senza un ordine cosmico prestabilito o valori assoluti, l’uomo è libero (e obbligato) a forgiare il proprio destino attraverso la propria volontà di potenza. L’essere umano, secondo Nietzsche, deve abbandonare il risentimento e l’atteggiamento rinunciatario per diventare il superuomo (Übermensch), un individuo che crea e impone i propri valori senza essere limitato dalle morali tradizionali.
Dal punto di vista etico, Schopenhauer e Nietzsche propongono due visioni diametralmente opposte. Schopenhauer vede nella compassione e nella rinuncia agli impulsi egoistici un ideale morale, influenzato anche dalla sua conoscenza del pensiero buddista e della mistica orientale. Il suo etos è incentrato sull’empatia e sulla comprensione del dolore universale, considerando la pietà e l’autodisciplina come virtù suprema.
Nietzsche, al contrario, rigetta la compassione come debolezza e promuove un’etica del potere e dell’affermazione. Egli accusa la morale cristiana e quella schopenhaueriana di promuovere un’etica dei deboli, soffocando l’autentico potenziale umano. Il superuomo nietzschiano, che incarna la volontà di potenza, rappresenta colui che trasforma la propria esistenza in un’opera d’arte, accettando la lotta, il conflitto e persino la sofferenza come parti integranti del processo di crescita.
L’approccio schopenhaueriano si riflette anche nella sua concezione dell’arte, vista come un mezzo per sublimare la Volontà e trovare momentaneo sollievo dal ciclo di desiderio e sofferenza. L’esperienza estetica permette di distaccarsi dal mondo della rappresentazione e di cogliere, per un attimo, la quiete. La musica, per Schopenhauer, è l’arte suprema perché esprime direttamente l’essenza della Volontà.
Nietzsche, che inizialmente apprezza Schopenhauer, si distacca progressivamente da questa visione, sviluppando una concezione dell’arte come manifestazione della volontà di potenza. In La nascita della tragedia, approfondisce la tensione tra il dionisiaco e l’apollineo, celebrando il dionisiaco come simbolo della forza creatrice e distruttiva della vita, l’incarnazione della volontà di potenza. L’arte, per Nietzsche, non è una fuga dalla realtà, ma un’affermazione della vita stessa, con tutte le sue contraddizioni.
La differenza tra la Volontà di Schopenhauer e la volontà di potenza di Nietzsche, pertanto, è molto più di una semplice opposizione concettuale; rappresenta due visioni del mondo e della vita umana profondamente diverse. La Volontà di Schopenhauer è un impulso cieco che porta inevitabilmente alla sofferenza e dalla quale l’uomo deve distaccarsi per trovare pace. Al contrario, la volontà di potenza nietzschiana è un principio affermativo e dinamico, che vede nella lotta e nel superamento di sé stessi la più alta espressione dell’essere umano. Mentre Schopenhauer invita alla rassegnazione e alla compassione, Nietzsche incita all’azione e al superamento. Queste visioni divergenti hanno influenzato profondamente non solo la filosofia, ma anche la letteratura, l’arte e la cultura moderna, stimolando riflessioni sul significato della vita, del potere e della sofferenza.

 

 

 

 

 

History of Medieval Church


Part IV


The Early Medieval Church (400-1050) or the King’s Church

 

 

 

Political-religious background to the Holy Roman Empire

With the transfer of the imperial seat from Rome to Constantinople (May 11th, 330) and the subsequent disintegration of the Western Empire by the barbarians (476), along with the rapid Christianization of the new Germanic populations—through which they assimilated Latin culture—the papacy, heir to Latin heritage, organization, and imperial culture, became the focal point of the nascent Western world. The connection to Rome was based on two main ideas: one religious-ecclesiastical and the other religious-political.
Regarding the first, it should be noted that in late antiquity, the Latinity of the Church and the West was centered in North Africa, which was the birthplace of great martyrs, theologians, and apologists. However, with the Islamic conquest of North Africa, it was lost to the Western world, which found its natural point of reference in the Church of Rome and the papacy.
These religious ties with Rome were particularly established and strengthened by the Anglo-Saxon monk Boniface.
The entire Catholic Europe, therefore, looked to Rome as the reference point for its Christian identity in which all recognized themselves.
It was not, of course, a legal dependency, but a moral one, and we will see how, in the High Middle Ages under Innocent III, a legal assertion was also initiated.
As for the second idea, it would be affirmed with Charlemagne in the attempt to revive the Roman Empire, whose intent was to unite the entire West under a single political and religious leadership. Thus, the Augustinian dream of the “Civitas Dei,” the Kingdom of God on earth, was realized.

Formation of the Papal States

As long as the Roman Empire served as a unifying force for the peoples, the Church had no need for material power as it was supported by the Empire. However, when the Empire began to crumble, the Church fragmented into various local churches. This led to the need for the pope’s political autonomy to defend spiritual independence.
During the time of Gregory I (590-604), thanks to the “Justinian Code,” the popes already held power over Rome, and bishops were recognized as public figures.
Two events strengthened the papacy during Gregory I’s time:

  • The possession of large tracts of land, received as donations (the so-called “Patrimonium Petri”).
  • The papal governance acting as a substitute for the exarch of Ravenna, who was unable to manage his power. The popes soon became the true masters of Rome.

 

The Roman Church and the Franks

The birth of the Christian West found its original nucleus in the relations between the Frankish Kingdom and the Church. With Clovis, a first concentration of lordships was established over a vast area, but it was under the Carolingians that power was consolidated under a single ruler. By 680, they were already mayors of the palace under the Merovingians and concentrated significant power in the region of the Meuse and Rhine. The victory of Charles Martel at Poitiers in 732 against the Arabs strengthened the Carolingian position, making it easy for Pippin the Short to depose the last Merovingian, Childeric III, and have himself proclaimed king by the greats of the kingdom and consecrated by Frankish bishops.
Thus, the Frankish kingdom was being formed, leading among European powers and becoming champions of Christianity for halting the Arab advance at Poitiers. It was to them that Gregory III (731-741) turned around 739-740 to oppose the Lombards, submission to whom would have reduced the popes to mere territorial bishops under their control.
This move by Gregory III was historically significant as it indicated the new direction of the Western Church: a first step that would detach it definitively from the East, creating its own empire in the West. The decisive date of this separation can ideally be marked as 741, when the figures of Gregory II, replaced by Pope Zacharias for the Church; Charles Martel, replaced by his sons Carloman and Pippin III for the Franks; and Leo III, succeeded by his son Constantine V for the Eastern Empire, disappeared almost simultaneously. Carloman withdrew from the political scene, leaving the position to his brother Pippin III, who turned to Pope Zacharias for reassurance on the legality of his ascent to the Frankish throne. Zacharias pragmatically resolved the matter by asserting that it was better to call king the one who actually held power rather than the one who had been stripped of authority.
Pippin was thus elected king and anointed. This anointing, inspired by that of Saul and David, took on a sacred and religious character and developed a sacramental theology of anointing. This consecratory anointing legitimized the involvement of kings in Church affairs and vice versa. Thus, a profound union between temporal and spiritual power was forming to the point that Innocent III (1202) declared that only he had the right to examine who had been elected king. The king, therefore, became a theocratic sovereign and could govern the Church, which, incorporated into the Kingdom, reserved the right to approve the king’s election.
After the death of the Lombard Liutprand (744), King Aistulf resumed expansionist policies and advanced to Rome with the intention of making it the capital of Italy. Pope Stephen II (752-757), having asked Emperor Constantine V for help in vain as he was preoccupied with the iconoclastic controversy, turned to Pippin III, who not only promised assistance but also the return of the Exarchate of Ravenna.
Pippin III’s prompt acceptance of the invitation concealed his ambition to extend his influence in Italy and annex the Lombards to the Frankish kingdom.
After an initial failed attempt at the diet of Bernacum, which ended inconclusively, Pippin III secured approval for papal assistance with the diet of Quierzy and promised vast Italian territories to the pope.
Thus, after a failed diplomatic attempt to persuade King Aistulf to return the land to the pope, Pippin III, through two military campaigns, repeatedly defeated Aistulf, who was forced to cede a third of his treasure and vast lands to the pope. This donation by Pippin marked the birth of the Papal States. The formation of the Papal States immediately triggered a power struggle, and upon the death of Pope Paul I, brother of Stephen II, various nobles and noble factions placed Constantine, who ruled for a year, and then Philip, who was deposed after a few months, on the papal throne. Finally, Stephen III (768-772) was duly elected.
These incidents highlighted the need for regulations for papal elections, which gradually evolved over the centuries, leading to the two-thirds requirement of the cardinal assembly (1179).
Under Adrian I, the Church began to mint its own currency and date diplomas according to the years of the pontificate. The final break from Constantinople would come with Charlemagne and the establishment of the Holy Roman Empire.

The Donation of Constantine

To cement greater autonomy and power for the Papal States, the most famous forgery in history appeared: the “Donation of Constantine” or “Constitutum Constantini.” It likely emerged under Pope Stephen II (750) and consists of two parts: a “Confessio” in which Constantine professes his faith and recounts how he was miraculously cured of leprosy by Pope Sylvester; and the “Donatio,” where Constantine, before departing for Constantinople, recognized the supremacy of the bishop of Rome over the patriarchates of Alexandria, Antioch, Jerusalem, and Constantinople. The pope was also granted the regalia of “basileus,” including the purple mantle, scepter, and mounted escort, which conferred temporal power over the Western Empire and independence from the Eastern one. The clergy were equated with the Senate and authorized to adorn their mounts with white trappings; the emperor personally deposited the act of donation on the tomb of St. Peter. The complete text of the “Donation” appeared for the first time around the mid-9th century in the “Pseudo-Isidorian Decretals,” another medieval forgery, and was long regarded as authentic. It was only in the 15th century that humanists like Nicholas of Cusa and Lorenzo Valla proved its falsehood. However, the exact time, place, and purpose of this forgery remain unclear. It was likely created within papal circles to justify Rome’s independence from Byzantium and the founding of a Papal State.