Archivi autore: Riccardo Piroddi

L’evoluzione di Orlando

Dall’epica medievale alla complessità rinascimentale

 

 

 

 

La figura di Orlando costituisce una delle icone più celebri della letteratura cavalleresca europea, il cui significato si è arricchito e trasformato nel corso dei secoli. Dalla Chanson de Roland, monumento dell’epica medievale, passando per l’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo, fino all’Orlando furioso di Ludovico Ariosto, il personaggio si evolve da simbolo eroico e cristiano a figura umana complessa, portatrice di dubbi, passioni e debolezze. Ciascuna di queste opere riflette un diverso momento storico, con il suo specifico contesto culturale, e offre un’immagine di Orlando che si adatta ai valori e alle tensioni ideali dell’epoca.

Orlando nella Chanson de Roland

La Chanson de Roland, composta intorno alla metà dell’XI secolo, è un poema epico di straordinaria importanza nella tradizione letteraria medievale. In questo testo, Orlando (o Roland) incarna il perfetto cavaliere cristiano, leale alla fede e al sovrano Carlo Magno. L’opera si colloca in un contesto in cui l’epica celebrava i valori feudali e religiosi, enfatizzando il legame tra il guerriero e la difesa della cristianità contro il nemico musulmano, percepito come il grande “altro” da combattere. Orlando si distingue per il suo eroismo tragico e la sua assoluta dedizione al dovere. Il momento culminante del poema è nel racconto della battaglia di Roncisvalle, in cui il paladino, alla guida della retroguardia dell’esercito di Carlo Magno, si sacrifica per difendere l’onore del proprio re e della propria religione. Durante l’imboscata, Orlando, pur vedendosi sopraffatto dai nemici, si rifiuta di suonare l’olifante per richiedere rinforzi, temendo che ciò possa macchiare il suo onore. Quando infine decide di farlo, è troppo tardi. Giunto allo stremo delle forze, tenta di spezzare la sua spada Durlindana. Non riuscendoci, si accascia sul terreno con le braccia incrociate in attesa della morte. Questa scena simbolizza il sacrificio e la gloria eterna, elementi cardine della concezione eroica medievale. Orlando muore da martire. La sua figura rappresenta, quindi, l’ideale trascendente del cavaliere che sacrifica tutto, anche la propria vita, per ideali superiori: la fede e la patria. Non vi è spazio per le passioni personali o i dilemmi interiori; Orlando è un eroe lineare, mosso da princìpi assoluti.

Orlando nell’Orlando innamorato di Boiardo

Nel passaggio al Rinascimento, l’immagine di Orlando subisce una profonda trasformazione. Matteo Maria Boiardo, con l’Orlando innamorato (1483), rivisita il paladino adattandolo ai gusti e alle aspettative della cultura umanistica e cortigiana. In questa nuova veste, Orlando non è più soltanto un guerriero al servizio della fede e del sovrano, ma diventa un uomo che vive intensamente i propri conflitti interiori, soprattutto quelli legati all’amore. La trama si sviluppa attorno alla passione di Orlando per Angelica, una principessa del lontano Oriente. Questo amore rappresenta una forza destabilizzante per il paladino, che si trova diviso tra il dovere cavalleresco e il desiderio personale. Se nella Chanson de Roland l’eroe era simbolo di disciplina e sacrificio, in Boiardo diventa un uomo fragile, vulnerabile alle emozioni e alle tentazioni. Questa caratterizzazione riflette l’interesse rinascimentale per l’individuo e per la complessità delle sue motivazioni. Il poema è anche fortemente segnato dall’elemento meraviglioso: Orlando e gli altri personaggi si muovono in un mondo popolato da incantesimi, creature magiche e castelli incantati. Questo scenario amplifica il senso di avventura e rende il paladino non solo un guerriero, ma anche un esploratore di mondi sconosciuti. Tuttavia, il poema si interrompe bruscamente, lasciando incompiuta la storia di Orlando e il suo amore tormentato per Angelica.

Orlando nell’Orlando furioso di Ariosto

L’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, pubblicato per la prima volta nel 1516 e successivamente ampliato, porta la figura di Orlando a una nuova maturità letteraria e psicologica. La cultura rinascimentale e il clima umanistico influenzano profondamente il poema, che unisce elementi epici, cavallereschi e lirici a una sottile ironia e a una riflessione sulla condizione umana. Nel Furioso, Orlando è ancora innamorato di Angelica, ma il suo amore si trasforma da passione a ossessione. Quando scopre che Angelica ama un altro uomo, Medoro, il paladino perde completamente il controllo di sé e cade in una follia distruttiva. Questo evento, simbolo della rottura dell’ordine cavalleresco, segna un punto di svolta nella rappresentazione del personaggio: l’eroe invincibile diventa un uomo sconfitto dalle proprie emozioni. Ariosto descrive la follia di Orlando con una mescolanza di tragicità e grottesco. L’episodio in cui il paladino, ormai privo di senno, vaga per il mondo devastando tutto ciò che incontra è emblematico dell’irrazionalità delle passioni umane. Alla fine, la sua ragione viene recuperata grazie all’intervento di Astolfo, che viaggia fino alla Luna per recuperare l’ampolla con il senno di Orlando, simboleggiando la possibilità di recuperare l’equilibrio, ma solo attraverso un atto straordinario e surreale. L’Orlando furioso non si limita a raccontare le vicende del protagonista, ma intreccia una molteplicità di storie e personaggi, consegnando una visione complessa e frammentata del mondo cavalleresco. Ariosto utilizza il registro ironico per mettere in discussione i valori tradizionali della cavalleria, mostrando come il desiderio, l’ambizione e l’irrazionalità siano forze centrali nella vita umana.

Differenze tra le opere e significati culturali

L’evoluzione della figura di Orlando riflette il mutamento dei valori e delle sensibilità attraverso i secoli. Nella Chanson de Roland, Orlando è un eroe epico, simbolo di un ideale assoluto, in cui prevalgono l’onore e il sacrificio. L’umanità del personaggio è subordinata all’ideale religioso e feudale. Nell’Orlando innamorato, diventa un uomo in balia dei propri sentimenti. L’amore e il conflitto interiore lo rendono più vicino al lettore, riflettendo l’interesse rinascimentale per la psicologia e l’individuo. Nell’Orlando furioso, l’eroe si dissolve in una figura tragica e ironica, il cui smarrimento rappresenta la crisi dell’ideale cavalleresco e, più in generale, la fragilità dell’essere umano.
In termini stilistici, si passa dalla solennità epica della Chanson de Roland alla sperimentazione narrativa di Boiardo e Ariosto, che introducono elementi lirici, ironici e fantastici in un tessuto letterario estremamente ricco.
La figura di Orlando, da eroe perfetto e incorruttibile a uomo tormentato e fragile, testimonia l’evoluzione della letteratura e della cultura europea. Ogni autore, reinterpretando il paladino, ha dato vita a un personaggio capace di incarnare i valori, le tensioni e i dubbi della propria epoca, rendendo Orlando un simbolo universale e senza tempo. Questo viaggio letterario, che parte dall’epica medievale per arrivare alla complessità del Rinascimento, non solo arricchisce il personaggio, ma lo trasforma in un emblema dell’essere umano e delle sue contraddizioni.

 

 

 

La miseria della filosofia

Il duello intellettuale tra Marx e Proudhon
che ridefinì il socialismo moderno

 

 

 

 

La miseria della filosofia di Karl Marx, pubblicata nel 1847, è una delle opere più significative del pensiero marxiano, imperniata su una critica serrata alle teorie di Pierre-Joseph Proudhon e alla sua Philosophie de la misère (1846). Nella prima metà del XIX secolo, l’espansione del capitalismo stava generando una rapida crescita economica, accompagnata da disuguaglianze sempre più marcate tra le classi sociali. La borghesia industriale si affermava come classe dominante, mentre la classe operaia, vittima di sfruttamento e di dure condizioni di lavoro, cominciava a organizzarsi per rivendicare diritti e condizioni più eque. In questo contesto, il socialismo emergeva come un movimento articolato in diverse correnti e interpretazioni. Proudhon, tra i principali teorici del socialismo francese, tentava di proporre soluzioni ai problemi della società capitalista, combinando filosofia, economia e morale. Tuttavia, la sua opera, pur animata da uno spirito progressista, fu considerata da Marx teoricamente incoerente e insufficiente per affrontare le contraddizioni del capitalismo. Esiliato a Bruxelles, Marx stava sviluppando il suo materialismo storico, approfondendo l’analisi sull’economia politica e sulla storia. La critica a Proudhon costituì per lui l’occasione di affinare il proprio pensiero, differenziando il socialismo scientifico da quello utopistico.
La miseria della filosofia è un testo polemico e sistematico, che demolisce le fondamenta teoriche delle proposte di Proudhon. Divisa in due parti principali, l’opera critica l’economia politica idealistica di del filosofo francese e riflette sul metodo dialettico e sul ruolo della storia nelle trasformazioni sociali.
Proudhon sosteneva che fosse possibile creare una società giusta ed equilibrata attraverso riforme che promuovessero la cooperazione tra individui e una giusta distribuzione della ricchezza. In Philosophie de la misère, proponeva un sistema mutualistico basato sulla collaborazione libera e priva delle imposizioni dello Stato o del capitalismo. Pur criticando la proprietà capitalistica con il celebre slogan “La proprietà è un furto”, considerava comunque legittimo il possesso personale derivante dal lavoro. Proudhon, riformista convinto, credeva in una trasformazione graduale del capitalismo attraverso cooperative, democratizzazione del credito e abolizione degli interessi sui prestiti. Tuttavia, Marx giudicava queste idee ingenue e incapaci di risolvere le contraddizioni strutturali del capitalismo.
Marx accusò Proudhon di un approccio superficiale e idealistico, basato su una presunta scienza universale dell’economia fondata su princìpi di giustizia eterna. Per esempio, Proudhon proponeva una “banca del popolo” per offrire credito senza interessi e un sistema di scambio fondato sul valore del lavoro. Marx stroncava tutto ciò, sostenendo che il problema centrale risiedesse nella struttura stessa del capitalismo, basata sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e sullo sfruttamento del lavoro salariato.
Un elemento centrale della critica di Marx era il concetto di valore. Mentre Proudhon cercava una definizione morale e universale del valore economico, Marx sviluppò una teoria più articolata, evidenziando come il valore fosse il prodotto delle condizioni storiche e sociali della produzione. Nel capitalismo, il valore delle merci è determinato dal tempo di lavoro socialmente necessario, ma questa realtà è oscurata dal “feticismo delle merci”, secondo cui il prodotto domina l’uomo e i rapporti sociali appaiono come semplici rapporti fra cose, autonome rispetto a chi le ha prodotte e dimenticando che le merci sono il frutto del lavoro umano. Proudhon, nel giudizio marxiano, non riusciva a cogliere questa dimensione, limitandosi a proporre soluzioni astratte e irrealizzabili.
La critica metodologica di Marx si concentrò anche sull’uso della dialettica. Proudhon semplificava la dialettica hegeliana in un procedimento in cui la sintesi fosse, in realtà, solamente la tesi che aveva sconfitto l’antitesi. Marx la considerava, invece, un metodo per comprendere le contraddizioni sociali e il movimento della storia. Le trasformazioni sociali avvenivano tramite il conflitto tra classi, non con compromessi o riforme graduali. Marx si opponeva radicalmente al riformismo di Proudhon accusandolo di mascherare il capitalismo con una facciata morale. Per Marx, il capitalismo non poteva essere riformato, ma doveva essere superato attraverso la lotta di classe e la rivoluzione. La proprietà privata dei mezzi di produzione era per lui la causa principale dello sfruttamento e dell’alienazione, e solo la sua abolizione avrebbe portato a una società senza classi. Nel pensiero marxiano, la lotta di classe è il motore della storia, e il proletariato ha il compito storico di rovesciare il capitalismo e costruire una nuova società basata sulla proprietà collettiva. Marx rifiutava altresì l’idea di un cambiamento graduale e pacifico, ritenendo che le contraddizioni del capitalismo richiedessero una rottura radicale. Le istituzioni esistenti erano strutturate per mantenere il potere della classe dominante e le proposte di Proudhon di riformare il capitalismo dall’interno risultavano, secondo Marx, illusorie e inefficaci.
La miseria della filosofia costituisce uno spartiacque nel pensiero socialista del XIX secolo. Con la critica a Proudhon, Marx elaborò le basi teoriche del socialismo scientifico, distinguendolo dalle correnti utopistiche e riformiste. L’opera evidenziò le divergenze tra due grandi pensatori e anche due visioni opposte del cambiamento sociale: quella gradualista e morale di Proudhon e quella rivoluzionaria e materialista di Marx. La forza della critica marxiana era nella capacità di analizzare il capitalismo nelle sue contraddizioni più profonde, ponendo le fondamenta per una teoria rivoluzionaria che avrebbe condizionato profondamente la storia del XX secolo.

 

 

 

 

 

Agostino e la verità

Una “elegante” prova dell’esistenza di Dio

 

 

 

 

Le prove dell’esistenza di Dio sono un argomento che da sempre mi affascina, tanto da costituire una delle tematiche che spesso occupano le mie riflessioni e i miei scritti. La rilettura del De libero arbitrio di Agostino mi ha fornito uno spunto nuovo e sorprendente. Nel secondo libro di questa celebre opera, il dialogo tra Agostino ed Evodio introduce una dimostrazione che unisce una raffinata speculazione filosofica a una profonda intuizione teologica, trovando il suo fondamento ultimo nel concetto di verità.
Agostino, nella sua ricerca di Dio, parte non da una deduzione astratta o da un’idea ipotetica, ma dalla realtà stessa. Egli identifica tre aspetti fondamentali dell’esperienza umana, che sono indubitabili e autoevidenti: l’essere, il vivere e l’intendere. Questi tre elementi non possono essere messi in discussione, poiché si impongono alla nostra coscienza con una forza tale da rendere ogni negazione un’implicita affermazione della loro verità. L’essere: il fatto stesso di esistere è una verità che nessuno può negare, poiché il negare presuppone un’esistenza che lo renda possibile. Non posso dubitare di esistere senza affermare, nel dubbio stesso, la mia esistenza. Il vivere: non solo esistiamo, ma viviamo, cioè partecipiamo a un’esperienza che va oltre il semplice essere. Vivere implica sensibilità, movimento, attività, e anche questa dimensione è autoevidente. L’intendere: infine, intendiamo, cioè siamo in grado di comprendere, percepire la realtà e riflettere su di essa. Anche questa capacità non può essere negata senza contraddirsi, poiché negare implica un atto di comprensione. Questi tre aspetti sono quindi veri in modo immediato e indiscutibile. Essi non derivano da un ragionamento complesso, ma si presentano come dati primari della nostra esperienza.

Agostino, tuttavia, non si accontenta di constatare la realtà di essere, vivere e intendere. Egli si chiede: cosa accomuna questi tre elementi? La risposta risiede nella loro verità. Se esistono, se sono evidenti, allora sono veri. Ma questa verità non può essere ridotta alle cose stesse o all’intelletto umano che le riconosce. La verità è qualcosa di più: è un fondamento che trascende il contingente e il mutevole.
Qui il pensiero di Agostino compie un salto decisivo. Egli mostra che la verità, per essere tale, non può dipendere dal nostro pensiero né da alcun aspetto particolare della realtà. Deve essere assoluta, cioè indipendente da tutto ciò che è relativo; deve essere eterna, poiché una verità che cambia cesserebbe di essere tale; deve essere trascendente, ossia esistere al di là del mondo materiale e delle limitazioni umane. Questa verità, dunque, è realtà suprema e universale. Ed è proprio questa trascendenza che porta Agostino a identificarla con Dio.
Arriviamo così al cuore dell’argomentazione: se la verità è assoluta, eterna e trascendente, allora coincide necessariamente con ciò che intendiamo per Dio. Dio, infatti, è da sempre concepito come la realtà suprema, immutabile, fonte di ogni esistenza e conoscenza. In altre parole, la verità, intesa come principio fondamentale e autosufficiente, non può che essere Dio stesso. Questa dimostrazione si distingue per la sua raffinatezza e per la capacità di radicare il concetto di Dio in un’esperienza universale e condivisibile. Non si tratta di un’argomentazione che presuppone una fede già data, ma di un ragionamento che parte da ciò che chiunque può riconoscere come vero.
Interessante è il legame con il neoplatonismo, da cui Agostino trae ispirazione. La sua idea di una verità trascendente che dà senso al mondo ricorda la dottrina dell’Uno e del Nous di Plotino, ma il pensiero cristiano introduce una dimensione personale e relazionale, identificando questa verità con un Dio vivo e creatore. La dimostrazione di Agostino, poi, anticipa, per certi aspetti, altre celebri prove dell’esistenza di Dio, in particolare quella ontologica di Anselmo d’Aosta. Anche Anselmo, infatti, individua in Dio il fondamento ultimo della realtà, definendolo come “ciò di cui non si può pensare il maggiore”. Tuttavia, mentre Anselmo si muove in un ambito strettamente logico, Agostino parte dall’esperienza concreta e dalla percezione immediata della verità.

 

 

 

 

Il barbaro nel mondo greco

Tra identità culturale e pregiudizio ideologico

 

 

 

 

Il termine barbaro ha un’origine etimologica profondamente radicata nella percezione che i greci avevano del mondo esterno. Derivato dall’onomatopea “bar-bar”, imitava il suono che i greci attribuivano a chi parlava lingue incomprensibili o sconnesse rispetto alla loro. Questo uso originariamente descrittivo si trasformò in uno strumento culturale e politico per distinguere tra il “noi” e il “loro”. Parlare greco correttamente, o meglio ancora padroneggiarne le sfumature colte, significava essere parte della civiltà; non farlo equivaleva a essere esclusi da essa.
Questo pregiudizio linguistico era intrinsecamente legato al concetto di cultura e identità, ponendo i greci al centro di un universo ideale. Persino popoli di grande raffinatezza culturale, come i Persiani, venivano inclusi nella categoria dei barbari, nonostante fossero portatori di una tradizione ricca e consolidata. L’idea di barbaro, quindi, non era semplicemente una questione di lingua o di capacità comunicativa, ma uno strumento di categorizzazione culturale che implicava giudizi di valore e gerarchie di civiltà.
Nel mondo greco, il concetto di barbaro era fluido e multifattoriale, adattandosi ai bisogni ideologici e politici del tempo. Da una parte, serviva a consolidare l’identità collettiva dei greci, definendo il loro sistema di valori e il loro modello di convivenza sociale. Dall’altra, rappresentava uno specchio delle loro paure e aspirazioni nei confronti di popoli stranieri. La distinzione fondamentale non era tanto basata su un’oggettiva arretratezza delle altre civiltà, quanto sulla contrapposizione simbolica tra polis greca e il mondo esterno.
La polis, con il suo sistema di partecipazione politica, l’uguaglianza tra cittadini e la centralità delle leggi, incarnava il modello ideale di organizzazione civile. In contrapposizione, le società definite “barbare” venivano spesso descritte come dominate dal dispotismo e caratterizzate dalla subordinazione degli individui a un sovrano assoluto. Questa visione stereotipata non teneva conto della complessità dei sistemi sociali stranieri, ma serviva a giustificare la percezione di superiorità greca.
Tuttavia, è importante sottolineare che questa dicotomia non era immutabile. Nel corso dei secoli, l’interazione con altre culture portò a una maggiore consapevolezza della ricchezza culturale straniera. Le guerre persiane, ad esempio, furono un momento cruciale: pur essendo un confronto violento e ideologicamente polarizzato, permisero ai greci di osservare da vicino la complessità e l’organizzazione dei loro avversari.
In questo panorama dominato da pregiudizi e contrapposizioni, alcune figure emersero come punti di riferimento per un’analisi più equilibrata. Erodoto, considerato il padre della storiografia, è uno degli esempi più emblematici. Nelle sue Storie, non si limitò a descrivere i conflitti tra greci e barbari, ma trattò con curiosità e ammirazione le tradizioni, i costumi e le istituzioni di popoli come Egiziani, Persiani e Lidi.

Pur rimanendo ancorato a una prospettiva greco-centrica, Erodoto riconobbe l’importanza dei contributi culturali e scientifici del Vicino Oriente. Egli osservò, ad esempio, che molte delle conoscenze greche in ambito matematico, astronomico e medico derivassero dall’Egitto e dalla Mesopotamia. Questa visione, sebbene non completamente priva di giudizi di valore, introdusse una sfumatura di apertura e rispetto per l’altro, che contrastava con l’immagine stereotipata del barbaro come rozzo e inferiore.
Se Erodoto cercava un punto di equilibrio tra curiosità e pregiudizio, Aristotele contemplò un approccio diametralmente opposto, consolidando una visione fortemente gerarchica delle relazioni tra greci e barbari. Nel suo trattato Politica, Aristotele sviluppò una teoria che attribuiva una differenza biologica e naturale tra questi due gruppi. I barbari, secondo lui, erano “schiavi per natura” (physei douloi), incapaci di esercitare il controllo sulla propria vita e dunque destinati a essere governati da altri.
Questa concezione non era solo una giustificazione della superiorità greca, ma una base teorica per la legittimazione di rapporti di subordinazione politica, economica e sociale. Aristotele elevava la polis greca a modello ideale, suggerendo che essa rappresentasse l’apice della civiltà e che i popoli barbari, incapaci di creare istituzioni simili, fossero intrinsecamente inferiori. Questa idea trovò terreno fertile nella società greca, contribuendo a radicare stereotipi che avrebbero influenzato il pensiero occidentale per secoli.
L’idea di barbaro non può essere compresa senza analizzare il suo ruolo nel definire l’identità greca. Per i greci, il barbaro rappresentava l’opposto del cittadino: era l’altro, il diverso, colui che metteva in evidenza, per contrasto, i valori e i meriti della cultura greca. Questo dualismo, tuttavia, non era privo di ambiguità. Da un lato, il barbaro era considerato inferiore e minaccioso; dall’altro, il suo stesso esistere stimolava i greci a riflettere su se stessi e sul significato della loro civiltà.
La percezione dei barbari si trasformò ulteriormente con l’espansione dell’Impero macedone e, successivamente, con l’Ellenismo, quando le culture greca e orientale entrarono in una fase di intensa contaminazione reciproca. Durante questo periodo, l’idea di superiorità greca fu parzialmente mitigata dalla consapevolezza della complessità e della ricchezza delle civiltà orientali.
L’evoluzione del concetto di barbaro nel mondo greco ci rivela molto non solo sul rapporto tra i greci e gli altri popoli, ma anche sulla loro stessa visione del mondo e della civiltà. Il barbaro era un simbolo, una costruzione ideologica che rifletteva le ansie, i pregiudizi e le aspirazioni di una cultura in continua ricerca di definizione. Oggi, l’analisi storica di questo concetto ci invita a riflettere su come le categorie di “noi” e “loro” continuino a plasmare il nostro modo di vedere il mondo.

 

 

 

 

Il sistro

L’armonia sacra tra suono e divinità

 

 

 

 

Il sistro è uno strumento musicale dalle origini antichissime, il cui suono tintinnante ha accompagnato rituali religiosi, celebrazioni sacre e momenti di vita quotidiana nella storia culturale e artistica di molte civiltà. Nato nell’antico Egitto, si è diffuso nel Mediterraneo e oltre, divenendo un simbolo potente di spiritualità e armonia cosmica. Esaminandone le caratteristiche, il significato simbolico e i riferimenti letterari, se ne comprende l’importanza nella storia dell’umanità.
Il sistro è formato da un telaio metallico arcuato o a forma di manico, spesso decorato con immagini e simboli sacri. Attraverso il telaio passano asticelle orizzontali, che reggono dischi metallici o anelli mobili. Il movimento di queste parti, generato agitando lo strumento, produce un suono ritmico e vibrante.
Due tipologie principali se ne distinguono: il sistro arcaico egizio, spesso decorato con immagini della dea Hathor, caratterizzato da una struttura semplice e simbolica, e il sistro romano, più elaborato, introdotto a Roma attraverso il culto di Iside e associato a rituali complessi e misterici. Il bronzo, il rame o l’argento erano usati per la sua realizzazione e la decorazione era parte integrante del valore rituale e artistico dello strumento.
Il sistro era un elemento fondamentale nei rituali religiosi egizi, specialmente in quelli dedicati a divinità femminili come Hathor, Iside e Bastet. Hathor, dea della musica, della fertilità e della gioia, era spesso raffigurata con il sistro, simbolo della sua capacità di armonizzare il mondo. Il tintinnio evocava la vibrazione primordiale che, secondo la cosmogonia egizia, aveva dato origine alla creazione. Al suono del sistro erano anche attribuiti poteri apotropaici: scacciava le forze negative e ristabiliva l’equilibrio universale. Era spesso utilizzato nelle processioni, accompagnando danze e canti, per invocare la protezione divina e celebrare la fecondità della terra e delle acque. Nella tradizione greco-romana, poi, il sistro divenne un elemento centrale nei misteri isiaci, rituali iniziatici che celebravano la rinascita spirituale e il potere rigenerante della dea.

Il fascino esercitato dal sistro attraversa secoli di letteratura, dalle descrizioni degli antichi storici fino alle opere di epoche successive. I testi letterari non solo ne testimoniano l’uso, ma ne rimarcano anche il significato simbolico e rituale. Nella sua opera Storie, Erodoto descrive in dettaglio i rituali in onore di Iside, evidenziando l’uso del sistro come elemento essenziale. La sua cronaca testimonia il legame indissolubile tra musica e religione nell’antico Egitto, rilevando il ruolo del sistro nella celebrazione della fertilità e della vita. Nel romanzo Le Metamorfosi (o L’asino d’oro), Apuleio riporta una delle più suggestive rappresentazioni del culto di Iside. Nella visione mistica del protagonista Lucio, i sacerdoti agitano i sistri durante una solenne processione, evocando il potere della dea e la trasformazione spirituale. Virgilio, nell’Eneide, descrive Cleopatra, regina d’Egitto, che porta il sistro come segno della sua identità e dei suoi legami religiosi con il mondo egizio. Nel Medioevo, il sistro appare in descrizioni di fonti arabe e bizantine come simbolo esotico, legato all’antico Egitto. Durante il Rinascimento, con il rinnovato interesse per l’antichità, lo strumento fu citato da scrittori e artisti, spesso per evocare atmosfere misteriose o per rappresentare la sapienza e la spiritualità orientale.
Oltre che nella letteratura, il sistro appare frequentemente nell’arte. Affreschi, bassorilievi e statuette raffigurano sacerdotesse e musicisti che lo suonano. Notevole è la rappresentazione del sistro nei templi egizi, come a Dendera, dove scene di culto mostrano l’importanza di questo strumento nei rituali sacri. In epoca romana, il sistro è presente su monete e rilievi dedicati a Iside, a sottolineare l’universalità del suo significato.
Sebbene oggi il sistro non sia più utilizzato come in passato, esso sopravvive in strumenti musicali simili, come alcuni tipi di sonagli e tamburelli. Inoltre, il suo significato simbolico continua a essere approfondito in studi accademici, opere letterarie e performance artistiche che celebrano il legame tra musica, religione e cultura.

 

 

 

 

Luce nell’ombra

Il canto malinconico di Manfredi

 

 

Dedicato a Manfredi Brichetto Scotti

 

 

 

Tra i tanti spiriti che Dante incontra lungo il suo viaggio letterario ultraterreno, Manfredi di Svevia si distingue per la dolente dignità e per il tragico intreccio di storia, politica e redenzione. Nel Canto III del Purgatorio, egli appare quale figura luminosa, immersa in una malinconia che non è disperazione, ma consapevolezza del destino umano e della misericordia divina. La sua vicenda, narrata nei versi danteschi, è un richiamo alla fragilità del potere terreno e alla speranza eterna che si accende nel pentimento.
Figlio illegittimo dell’imperatore Federico II e di Bianca Lancia d’Agliano, Manfredi incarnava molte delle virtù e dei difetti della dinastia sveva. Nato nel 1232, fu cresciuto in un ambiente di raffinata cultura, che lo plasmò come poeta e uomo d’ingegno. Al pari del padre Federico, fu un mecenate delle arti e della letteratura e la sua corte fu un centro di straordinario fermento culturale. Tuttavia, la sua vita non fu solo votata alla cultura: fu un abile stratega militare e politico, che lottò per consolidare il Regno di Sicilia contro le minacce dei papi e dei nemici esterni. Dopo la morte di Federico II e del fratellastro Corrado IV, assunse la reggenza del regno, che proclamò suo nel 1258. La sua bellezza fisica e il carisma personale contribuirono a creare il mito di un re amatissimo dal popolo, ma odiato dalla Chiesa, che lo scomunicò ripetutamente per la sua resistenza all’autorità papale. Manfredi trovò la morte nella battaglia di Benevento, nel 1266, sconfitto dall’esercito angioino di Carlo I, inviato da papa Clemente IV per estirpare la dinastia sveva. La sua morte fu l’epilogo di una vita segnata dal contrasto tra ambizione e persecuzione, tra grandezza e condanna.
Nel Purgatorio, Dante lo incontra tra le anime degli scomunicati, che attendono di purificarsi per salire verso il Paradiso. Il re è descritto con delicatezza e rispetto, quasi con affetto, come un’apparizione luminosa ma malinconica. Manfredi è presentato con un gesto umile e regale insieme, svelando la sua identità con un senso di tragica ironia:

Io mi volsi ver’ lui e guarda il fiso:
biondo era e bello e di gentile aspetto,
ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso.

La descrizione fisica è simbolica: la bellezza del principe è spezzata da una ferita, un dettaglio che richiama la sua morte violenta e il destino travagliato. L’elemento lirico del verso si mescola alla concretezza della sua storia, rendendo Manfredi una figura profondamente umana e poetica.

Manfredi narra a Dante il momento della sua fine, quando, ferito a morte, si rivolse a Dio con un pentimento sincero. I versi sottolineano la potenza della misericordia divina, che supera ogni giudizio terreno:

Poscia ch’io ebbi rotta la persona
di due punte mortali, io mi rendei,
piangendo, a quei che volontier perdona.

Questa ammissione di pentimento, accompagnata dal verbo “piangendo,” dona alla figura di Manfredi una dimensione struggente. Egli, sovrano orgoglioso e guerriero indomito, si arrende infine alla grazia divina, trovando la redenzione nel momento della massima vulnerabilità.
Il racconto di Manfredi si concentra poi sulla crudele sorte del suo corpo dopo la morte. L’arcivescovo di Cosenza, su ordine del papa, fece dissacrare la sua sepoltura, un atto che intendeva cancellare ogni traccia della sua esistenza. Le sue ossa furono gettate al di là del fiume Verde, oltre i confini del Regno di Napoli:

l’ossa del corpo mio sarieno ancora
in co del ponte presso a Benevento,
sotto la guardia de la grave mora.
Or le bagna la pioggia e move il vento
di fuor dal regno, quasi lungo ’l Verde,
dov’e’ le trasmutò a lume spento.
Per lor maladizion sì non si perde,
che non possa tornar, l’etterno amore,
mentre che la speranza ha fior del verde.

Questa immagine del “fior del verde” è profondamente lirica e simbolica: il verde della speranza divina contrasta con la desolazione del luogo dove furono gettate le sue spoglie. Anche qui, Dante ribalta la condanna umana: nonostante l’ingiustizia terrena, l’anima di Manfredi è accolta dalla misericordia divina. Il suo messaggio è un grido contro l’arroganza del potere ecclesiastico, che non può limitare la grazia di Dio.
Manfredi incarna uno dei temi fondamentali della Divina Commedia: la possibilità della redenzione, che è aperta a tutti, anche agli scomunicati e ai peccatori più gravi, purché si pentano sinceramente. La sua figura richiama altre anime del Purgatorio, come Bonconte da Montefeltro, che si salva grazie a un ultimo pensiero rivolto a Dio.
La storia di Manfredi risuona anche come un ammonimento per i lettori: il potere terreno è effimero, ma la salvezza è eterna. Dante utilizza la sua vicenda per criticare l’eccessiva severità della Chiesa medievale e per ribadire il primato della misericordia divina. L’umanità di Manfredi, il suo pentimento e la sua speranza sono un esempio di come la grazia possa illuminare anche le esistenze più tormentate.
La figura di Manfredi nella Divina Commedia è un intreccio di storia, poesia e teologia. Il suo racconto, intriso di malinconia e speranza, supera la dimensione individuale per diventare un simbolo universale. Egli non è solo un re sconfitto, ma un’anima che trova la pace nel riconoscimento della propria fragilità e nella fiducia nella misericordia divina.
Le sue ultime parole a Dante sono un invito a guardare oltre le apparenze, oltre i giudizi umani, e a confidare nella giustizia divina:

Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,
revelando a la mia buona Costanza
come m’ hai visto, e anco esto divieto;
ché qui per quei di là molto s’avanza.

Con queste parole, Manfredi riafferma la sua identità non come re, ma come figlio di Dio, riconquistando quella dignità che gli era stata negata in vita.

 

 

 

 

 

Come un fucile carico. La vita di Emily Dickinson

 

 

Recensione di Carmela Puntillo

 

 

 

Un libro appassionante e istruttivo per chi vuole affrontare la lettura delle lettere e delle poesie di Emily Dickinson, apportatrice della cultura e dei valori della società americana di estrazione puritana (utile soprattutto per gli studiosi di letteratura americana) è Come un fucile carico. La vita di Emily Dickinson, della scrittrice sudafricana Lyndall Gordon, Fazi Editore, 2017. La biografia traccia una panoramica molto approfondita dell’opera della Dickinson, vissuta nella seconda metà dell’Ottocento negli Stati Uniti, e lo fa attraverso le vicende personali e della famiglia, le quali figurano così come l’origine della sua produzione. Il libro scorre come una cronaca della vita e della mentalità di una piccola cittadina degli Stati Uniti, mentalità che viene presentata come causa e spiegazione del contenuto dei versi di Emily. È forse la maniera migliore per penetrare nel significato intrinseco del lavoro di una poetessa che era parte di un mondo che non palesava i suoi sentimenti (lei stessa aveva dato ordine che dopo la sua morte fosse bruciata la corrispondenza con le persone estranee). Partendo dall’educazione tendenzialmente religiosa a cui lei non aderiva totalmente, cercando una religione consapevole e non costrittiva (famoso è l’episodio in cui un’insegnante del seminario di Mount Holyoke, che Emily frequentava, chiese di alzarsi in piedi alle ragazze che volessero diventare cristiane e lei, unica fra tutte, non lo fece) e dalla sua vicinanza a quella corrente di pensiero che è all’inizio del movimento femminile in America (segnato dalle dichiarazioni di Seneca Falls), passando alle vicende della sua malattia, probabilmente l’epilessia, di cui non si sa nulla, e alle sue “passioni amorose” (forse solo amicizie) per due persone, Sam Bowles ed il reverendo Wadsworth, giungendo fino alle vicende legali della famiglia, come la causa intentata ai Todd per il lascito di un terreno, la sua poesia si snoda con scioltezza e può essere naturalmente compresa e ricordata anche dal lettore comune. Si presentano quindi ai nostri occhi i lavori domestici, che spesso nascondono con una parvenza di serenità avvenimenti tragici e dolori da cui era stata segnata, la sua attitudine alla dolcezza femminile ed all’intimità delle cose (in una poesia scrive: “Malati? Abbiamo bacche per placare la sete”), gli affetti e gli uomini amati (alcune poesie parlano di un “padrone” non meglio identificato, forse l’uomo che amava, il reverendo Wadsworth o Sam Bowles o forse una persona immaginaria che lei riteneva fosse un padrone), la sua malattia (non fu mai accertato, ma forse era l’epilessia, infatti in alcuni versi dice: “Avvertimento all’ombra sbigottita / che la tenebra sta per cominciare”, alludendo probabilmente ai sintomi di avvertimento dell’attacco), la natura a cui lei era affezionata e la sua creatività nella lingua (la Dickinson ha creato nuovi vocaboli come “perfettità”, perché secondo lei rendevano meglio il concetto, e ha rivoluzionato la punteggiatura, concependo il trattino come uno spazio che può essere riempito dai lettori), il senso del divino, fondamentale nella poetessa, che le parlava di un Dio a cui doveva tutto il suo talento (“È Dio che mi ha fatta – Signore – non mi sarebbe dato d’esser da me stessa”, dice in alcuni suoi versi) e che per lei era un’immagine di sicura giustizia (“Nessuno resta defraudato dal Cielo / anche se il Cielo sembra un ladro rende / in qualche dolce modo occultamente / secondo che decide il suo volere”). Così la biografia spiega indirettamente l’origine della creazione di quelle “perle” arrivate fino ai nostri giorni, che giustificano la burrasca sorta dopo la morte di Emily per la spartizione di questo gioiello immortale.

 

 

 

 

 

La luce invisibile che guida i passi di chi osa cercare

 

 

 

 

I Magi non si misero in cammino perché avevano visto la Stella, ma videro la Stella perché si erano messi in cammino”. Questa frase di Giovanni Crisostomo (344/354 – 407) racchiude una verità profonda, una chiave di lettura universale per il mistero della fede, della ricerca interiore e del rapporto tra l’uomo e il divino. Non si tratta di un semplice gioco di parole, ma di un ribaltamento del modo in cui spesso concepiamo la relazione tra segni esterni e decisioni interiori. Il cammino dei Magi, così come quello di ciascuno di noi, non inizia da una certezza, ma da una domanda, da un desiderio di andare oltre ciò che è visibile e conosciuto.
La Stella che guida i Magi verso Betlemme è, per tradizione, un segno straordinario. Un evento celeste che attrae lo sguardo di uomini sapienti, esperti di astronomia e conoscitori dei segreti della natura. Ma, secondo l’interpretazione di Giovanni Crisostomo, non è la Stella a spingere i Magi a partire, bensì il loro cuore, già teso verso una verità più grande. La Stella è un simbolo: brilla non tanto per i loro occhi, quanto per il loro spirito già disposto ad accoglierla. È una luce che si manifesta solo a chi è pronto a vederla. Questo capovolgimento ci spinge a riflettere sul senso profondo della ricerca. Non sono i segni esterni a mettere in moto il cammino, ma l’interiore necessità di trovare qualcosa che dia senso alla vita. La Stella è il riflesso visibile di una luce che già arde nell’animo di chi cerca, una luce che guida ma non impone, che invita ma non costringe.
Il viaggio dei Magi è una metafora del cammino spirituale che ciascuno di noi è chiamato a intraprendere. Non si parte mai con tutte le risposte in tasca, né con una mappa chiara e precisa. Si parte, spesso, nel buio, mossi da un’intuizione o da un desiderio che non riusciamo nemmeno a spiegare pienamente. I Magi, provenienti da terre lontane, affrontano un viaggio pieno di incognite, guidati non dalla certezza ma dalla fiducia. È un cammino che richiede il coraggio di abbandonare le proprie sicurezze: la propria terra, le proprie conoscenze, i propri punti di riferimento. Questo abbandono è un atto di fede. Si lascia ciò che è noto per inseguire l’ignoto, fidandosi di una voce interiore che sussurra che ne vale la pena. Ed è proprio in questo movimento, in questo atto di fiducia, che si manifesta il mistero della Stella: non appare prima del viaggio, ma durante il cammino, come una conferma luminosa di una scelta già compiuta.

Giovanni Crisostomo sottolinea un aspetto cruciale: la Stella non si rivela a tutti, ma solo a chi è già in cammino. Questo ci insegna che i segni del divino, le tracce della verità, non sono evidenti a chi rimane fermo, a chi aspetta che le risposte cadano dall’alto. Sono invece visibili a chi si muove, a chi cerca con cuore aperto e spirito vigile. Non si tratta di una ricerca casuale o superficiale, ma di un viaggio interiore, un cammino di trasformazione che richiede impegno, umiltà e perseveranza.
Nel mondo contemporaneo siamo spesso tentati di cercare risposte immediate, di aspettare segni evidenti che ci indichino la strada. Giovanni Crisostomo ci esorta a ribaltare questa prospettiva: non sono i segni a guidare il nostro cammino, ma è il cammino stesso che rende visibili i segni. La ricerca interiore, dunque, non è un accessorio, ma il cuore stesso della vita spirituale. È un esercizio di attenzione e di apertura, un modo per preparare il nostro spirito a riconoscere la luce quando si manifesta.
Un altro aspetto importante della questione è che la Stella non è la causa del cammino dei Magi, ma il suo coronamento. Non si tratta di un fenomeno che obbliga o che impone una direzione, ma di un segno che conferma una scelta già fatta. Ciò ci insegna che nella vita spirituale non possiamo aspettare di vedere tutto chiaramente prima di agire. Spesso le conferme arrivano solo dopo che abbiamo avuto il coraggio di muoverci, di fare il primo passo. Questo principio ha un valore universale, applicabile a ogni aspetto della nostra esistenza. Quante volte rimaniamo bloccati, incapaci di scegliere, in attesa di un segno inequivocabile? Quante volte il timore di sbagliare ci paralizza? Eppure, la lezione dei Magi ci mostra che è il movimento stesso a generare chiarezza, che è nel cammino che si trova la luce.
In un mondo caratterizzato da incertezze, ansie e continue sollecitazioni, il messaggio di Giovanni Crisostomo risuona con una straordinaria attualità. Ci induce a riscoprire il valore del cammino, dell’azione intrapresa con fede e fiducia, anche quando le direzioni non sono chiare. Non dobbiamo aspettare che tutte le risposte siano a nostra disposizione; dobbiamo invece metterci in viaggio, sapendo che la luce si manifesterà lungo la strada. Questo non significa agire in modo impulsivo o superficiale, ma coltivare un atteggiamento di apertura e di ascolto. Significa essere pronti a lasciare le nostre sicurezze, ad accogliere l’imprevisto e a credere che, anche nei momenti più bui, c’è una Stella pronta a guidarci.

 

 

 

 

 

Nelle ombre degli Inferi

L’ultimo dono di Anticlea

 

 

 

 

Nella foschia eterna degli Inferi, Ulisse avanzava con passi cauti, il cuore gravido di timori e speranze. Intorno a lui si muovevano ombre evanescenti, fioche come candele sul punto di spegnersi e un vento immoto portava con sé il suono delle voci perdute, spezzate come onde sulla riva del silenzio.
Quando la figura di sua madre, Anticlea, emerse dal nulla, il respiro gli si fermò. Era lì, pallida come la luna, i contorni sfumati dall’eternità. Non era più carne, non era più sangue: era un ricordo incarnato, un’eco della vita che un tempo aveva brillato. Ulisse rimase immobile, il corpo teso come un arco, mentre una fitta di dolore gli squarciava il petto.
«Madre mia», disse infine, la voce tremante come un ramo piegato dal vento. «Perché sei qui? Perché cammini in questo regno di ombre? Quando ti ho lasciata, eri viva, forte…».
Anticlea lo guardò con occhi che riflettevano una tristezza infinita. Parlò con un filo di voce, come se ogni parola fosse un frammento d’anima che si staccava da lei. «Figlio mio, la vita si è spenta in me come una lampada senza olio. Ti ho atteso, Ulisse, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Ma la speranza si consuma, e il cuore, pur forte, può spezzarsi sotto il peso dell’assenza».
Ulisse tese le mani verso di lei, ma il suo gesto incontrò solo il vuoto. Il contatto tanto desiderato si rivelava impossibile; le sue dita affondavano in un’aria gelida e inconsistente. «Madre!», gridò, la voce rotta da un’angoscia senza rimedio. «Non posso abbracciarti? Non posso sentire ancora una volta il tuo calore?».

Anticlea scosse il capo, con un sorriso amaro che non raggiungeva gli occhi. «Non più, figlio mio. Io sono ombra e tu sei vivo. Ma ascolta le mie parole e portale con te come un ultimo dono. Non lasciarti consumare dal rimpianto, né dal desiderio vano di ciò che non puoi cambiare. Torna alla tua casa, alla tua Itaca. Vivi per coloro che ti attendono ancora, perché ogni attesa ha un termine e il tempo non perdona chi lo spreca».
Ulisse rimase in silenzio, le lacrime che solcavano il viso come fiumi di dolore. Sapeva che non l’avrebbe più rivista e quel pensiero era un peso che il suo cuore a stento poteva sopportare. Ma, in quel momento, comprese anche il valore delle sue parole: la vita era il fiume che scorre e non si poteva trattenere l’acqua con le mani.
Mentre Anticlea svaniva nella nebbia, Ulisse rimase lì, avvolto dalla malinconia. Poi, con un ultimo sguardo verso il buio, si voltò, portando con sé non solo il dolore ma anche la consapevolezza che, per onorare i morti, occorre vivere.
E così, il viaggiatore riprese il suo cammino, lasciando dietro di sé le ombre degli Inferi e il fantasma di sua madre, ma portandola per sempre nel cuore, come una fiamma che non si spegne mai.

La vita è un dono fragile, un filo teso tra il passato e il presente. Il dolore del distacco può piegare il cuore, ma non deve imprigionarlo. I morti vivono nei nostri ricordi e il loro insegnamento più grande è questo: vivere pienamente è l’unico modo per onorarli, per trasformare il rimpianto in gratitudine e l’assenza in presenza eterna.

 

 

 

 

 

Il tempo secondo Agostino

Tra mutevolezza umana ed eternità divina

 

 

 

 

Le riflessioni di Agostino sul tempo, espresse nel libro XI delle Confessioni, costituiscono uno dei contributi più profondi nella storia della filosofia e della teologia occidentale. Il tempo, per Agostino, non è una semplice misura del movimento o una realtà fisica separata, ma una dimensione complessa che coinvolge la soggettività umana, la relazione con Dio e il mistero dell’eternità.
Il punto di partenza delle considerazioni agostiniane è la difficoltà stessa di definire il tempo. Nelle Confessioni, esprime questa difficoltà con una celebre affermazione: “Quid est ergo tempus? Si nemo ex me quaerat, scio; si quaerenti explicare velim, nescio” (Che cos’è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo domanda, non lo so). Questo passo costituisce una manifestazione di umiltà intellettuale, rivelando, allo stesso tempo, la natura sfuggente e complessa del tempo, che può essere intuitivamente compreso ma difficilmente espresso in termini razionali.
Agostino si oppone alla visione materialista del tempo come qualcosa di oggettivo e indipendente dall’uomo, proponendo, invece, una concezione fenomenologica: il tempo è profondamente radicato nell’esperienza soggettiva dell’uomo. Passato, presente e futuro non esistono come entità autonome ma come modi di essere dell’anima.
Uno degli aspetti più innovativi della riflessione agostiniana è la centralità del presente. Secondo il vescovo di Ippona, il presente è l’unico tempo realmente esistente. Il passato non è più e il futuro non è ancora, ma entrambi trovano una forma di esistenza nell’anima umana. Il passato vive nella memoria, mentre il futuro si proietta nell’attesa. Il presente, tuttavia, non è statico: è continuamente in divenire, sfuggente e transitorio.
Agostino distingue il presente “del passato” (la memoria), il presente “del presente” (l’attenzione) e il presente “del futuro” (l’attesa). Tale tripartizione mostra come il tempo sia un’unità dinamica, radicata nella coscienza. Questa intuizione, anticipando riflessioni moderne sulla temporalità, pone l’uomo al centro del tempo, non come un osservatore passivo, ma come un essere attivo che vive il tempo nella sua interiorità.

La speculazione agostiniana sul tempo non può essere separata dalla sua concezione di Dio e dell’eternità. Dio è eterno e immutabile, esistente fuori dal tempo. L’eternità, in quanto tale, non è una sequenza infinita di istanti temporali, ma un “eterno presente” in cui tutto è simultaneo. Questo concetto di eternità, che trascende il tempo, è fondamentale per comprendere il rapporto tra Dio e la creazione. Il tempo nasce con la creazione del mondo. Prima della creazione non esisteva il tempo, poiché non vi erano eventi o cambiamenti. Dio non è soggetto al tempo, ma lo ha creato come parte dell’ordine del mondo. Questo porta Agostino a rifiutare la domanda su cosa facesse Dio “prima” della creazione, poiché tale domanda implica un errore concettuale: il “prima” non esiste senza il tempo.
La creazione del tempo, dunque, è strettamente legata alla mutevolezza del mondo. Il tempo è il segno del mutamento, una misura del passaggio da un istante all’altro. In contrapposizione alla mutevolezza del tempo, l’eternità di Dio è immutabile e perfetta. Questo contrasto sottolinea la condizione esistenziale dell’uomo, che vive nel tempo ma aspira all’eternità. L’uomo, nel tempo, sperimenta il continuo fluire degli eventi e la tensione verso ciò che non è ancora. Tuttavia, questa condizione di transitorietà non è solo un limite, ma anche un’opportunità. Attraverso il tempo, l’uomo può orientarsi verso Dio, cercando l’eternità come compimento ultimo della propria esistenza.
Agostino, poi, lega profondamente il concetto di tempo alla storia della salvezza. La temporalità umana non è casuale o priva di significato; è inserita in un disegno divino che ha il suo fulcro nell’Incarnazione e nella Redenzione. Il tempo, pertanto, non è solo il teatro del mutamento e della perdita, ma anche lo spazio in cui Dio si manifesta e agisce per salvare l’uomo. La vita umana è una tensione verso l’eterno, un cammino di conversione che si svolge nel presente. Per Agostino, il presente è il momento in cui l’uomo può scegliere di rivolgersi a Dio, abbandonando il peccato e abbracciando la grazia. Questo conferisce al tempo una dimensione etica e spirituale, trasformandolo in uno strumento per raggiungere l’eternità.