L’ilarità, un concetto che apparentemente evoca leggerezza e semplicità, assume nella riflessione filosofica un valore profondamente complesso. Non è solo una reazione immediata al comico o all’inaspettato, ma una finestra sul rapporto tra l’individuo e la propria esistenza, una chiave per comprendere le sfumature della consapevolezza di sé. Nel corso della storia del pensiero, questo termine ha attraversato una trasformazione significativa, divenendo simbolo di un’esperienza umana in bilico tra il tragico e il comico, tra il ridicolo e il sublime.
La celebre aneddotica di Platone su Talete, il filosofo che cade in un pozzo mentre osserva il cielo, suscitando le risa di una serva, aggiunge un’altra dimensione al concetto di ilarità. Qui il riso nasce dall’incontro-scontro tra due visioni opposte della vita: da un lato, la ricerca speculativa di chi tenta di comprendere le stelle e i misteri del cosmo; dall’altro, il pragmatismo terreno di chi, come la serva, deride ciò che non comprende. L’ilarità diventa, in questo caso, un mezzo per mettere in luce i limiti di entrambe le prospettive. La caduta di Talete non è solo un incidente fisico, ma un simbolo dell’intrinseca vulnerabilità del pensiero filosofico. Mentre l’astrazione spinge il filosofo a distaccarsi dal mondo concreto, la risata della serva mostra quanto questo distacco possa sembrare ridicolo a chi vive immerso nella quotidianità. Tuttavia, Platone non condanna né il filosofo né la risata: piuttosto, ci invita a considerare l’ironia come una forza dialettica, capace di mettere in discussione le certezze di entrambi i poli.
Giordano Bruno approfondisce ulteriormente il concetto di ilarità attraverso il suo motto: “ilare nella tristezza, triste nell’ilarità”. Qui l’ilarità si carica di una tensione paradossale, rivelando la complessità dell’esperienza umana. Bruno, filosofo del pensiero libero e della vastità dell’universo, non considera la risata come mera leggerezza, ma come un modo di confrontarsi con l’infinito e la propria limitatezza. Essere ilare nella tristezza significa, per Bruno, trovare un sorriso nella consapevolezza della tragicità dell’esistenza: l’universo infinito, che egli descrive come privo di un centro, ci ricorda la nostra piccolezza e insignificanza. Tuttavia, in questo senso di smarrimento cosmico, si apre la possibilità di un’ilarità profonda, che non è distrazione, ma accettazione consapevole. Allo stesso modo, essere tristi nell’ilarità richiama il rischio dell’autoinganno: la risata che nasce dall’ignoranza della condizione umana è una tristezza mascherata, un’espressione di inconsapevolezza. In Bruno, dunque, l’ilarità non è mai disgiunta dal tragico, ma ne è una controparte dialettica, un mezzo per attraversare il dolore e andare oltre.
Per Søren Kierkegaard, pensatore profondamente attento alle contraddizioni dell’esistenza, l’ilarità non è solo un segnale di superficialità, ma anche un sintomo di un’umanità che sfugge alla responsabilità della propria condizione. Nel suo celebre scenario apocalittico, il mondo viene immaginato come destinato a finire non tra disperazione o orrore, ma tra le risate dei “buontemponi”, figure che incarnano l’incapacità di affrontare il peso dell’esistenza. Questa ilarità è leggera, ma non innocua: essa rappresenta una forma di rimozione collettiva della verità. Kierkegaard lega il riso a una delle sue nozioni centrali: l’angoscia. L’ilarità può emergere come un riflesso dell’angoscia, una fuga dalle domande fondamentali della vita, come il senso della morte, la responsabilità etica e la possibilità della fede. In questa prospettiva, il comico diventa tragico: le risate che accompagnano la fine del mondo non sono liberatorie, ma testimonianza di un fallimento esistenziale, di un’umanità che si è ridotta a giocare con la propria finitezza, ignorandola fino alla fine.
Nel contesto filosofico, il termine ilarità assume un valore profondamente esistenziale. Non si tratta più soltanto di una reazione emotiva, ma di un sentimento di sé, un barlume iniziale di autocoscienza che emerge dall’esperienza dell’assurdo e del paradosso. Questa esperienza può manifestarsi come distacco, nel senso di ridere di sé stessi per prendere una distanza critica dalla propria condizione, superare l’egocentrismo e riconoscere la relatività delle proprie preoccupazioni. Può anche presentarsi come risveglio, poiché l’ilarità, in particolare quella che nasce dall’ironia, scuote dalle certezze consolidate, aprendo la strada a una riflessione più profonda sulla propria esistenza. Infine, può rappresentare un’accettazione, dove il riso, nei suoi momenti più alti, diventa un atto di riconciliazione con la tragicità della vita, un modo per dire “sì” al mondo nonostante le sue contraddizioni. L’ilarità filosofica, dunque, non è mai pura evasione, ma uno strumento per affrontare il reale. Essa permette di cogliere la sottile linea che separa il senso dal non senso, mostrando come il comico e il tragico si intreccino nell’esperienza umana.