Archivi autore: Riccardo Piroddi

Maria de’ Medici

Una donna italiana sul trono di Francia

 

 

 

Maria de’ Medici, sesta figlia di Francesco I de’ Medici (1541-1587), granduca di Toscana, e di Giovanna (1548-1578), arciduchessa d’Austria, figlia di Ferdinando I d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero, è stata una regina la cui grazia e saggezza splenderono come una luce dorata sui giorni tumultuosi del regno di Francia. Maria incantava chiunque posasse lo sguardo su di lei, i suoi occhi, come due laghi profondi, riflettevano le storie della Firenze rinascimentale, culla della cultura e dell’arte. Il suo spirito indomito era pari alla delicatezza delle rose che adornavano i giardini della sua infanzia. Cresciuta tra le meraviglie del Palazzo Pitti, Maria portava con sé l’eleganza delle corti italiane. Sposa del re Enrico IV, divenne la madre amorevole di un intero popolo, la sua voce un balsamo che leniva le inquietudini del regno.


Regina consorte e poi reggente di Luigi XIII, si distinse per la sua forza e determinazione, eredità di una famiglia che aveva modellato la storia italiana ed europea. Le sue mani, pur delicate, tenevano saldamente le redini del potere, guidando la Francia attraverso mari tempestosi con una sapienza che pareva provenire direttamente dagli antichi filosofi.
Nel suo cuore, un amore profondo per l’arte e la bellezza; fu mecenate di pittori, scultori e musicisti, contribuendo a rendere Parigi un faro culturale del suo tempo. Il suo nome risuona ancora nei corridoi del Louvre, dove le opere da lei commissionate raccontano di un’epoca in cui la grandezza si misurava in meraviglia e splendore.
E così, Maria de’ Medici rimane una figura incantatrice nella storia, una regina la cui luce non si è mai spenta ma continua a brillare attraverso i secoli, riflessa nei capolavori e nelle leggende che la celebrano. Una donna la cui vita è stata un arazzo ricamato con fili d’oro e di seta, ogni nodo e intreccio narrante la storia di un’anima nobile e indomita, regina non solo di Francia, ma anche di coloro i quali ancora oggi ne raccontano le gesta.

 

 

Diogene il Cinico

Uomo, filosofo, provocatore

 

 

 

Diogene di Sinope, meglio conosciuto come il Cinico, è certamente una delle figure più eccentriche e iconoclastiche della filosofia antica. Nato intorno al 412 a.C. a Sinope, città greca sul Mar Nero, fu discepolo di Antistene, il fondatore della scuola cinica. La filosofia cinica, che Diogene incarnò con estrema dedizione, si fonda su una critica radicale della società e dei suoi valori, favorendo, invece, la semplicità, l’autosufficienza e la virtù come unica vera ricchezza.
Diogene è famoso per la sua vita austera e per i molti aneddoti che lo vedono protagonista, spesso con intenti provocatori. Si dice che vivesse in una botte, rifiutando qualsiasi tipo di comodità materiale. Una delle storie più celebri narra dell’incontro con Alessandro Magno. Quando il re macedone, incuriosito dalla fama del filosofo, gli chiese se potesse fare qualcosa per lui, Diogene rispose semplicemente: “Sì, scansati, perché mi stai togliendo il sole”. Questa risposta incarna perfettamente l’atteggiamento cinico di Diogene verso il potere e la ricchezza, considerati irrilevanti rispetto alla libertà e alla felicità derivanti dall’autosufficienza.


La filosofia di Diogene si basa su pochi principi cardine, che mettono in discussione i valori convenzionali della società.
Credeva che la vera felicità fosse raggiungibile solo attraverso l’autosufficienza. Rifiutava il superfluo e viveva con il minimo indispensabile, dimostrando che la felicità non dipende dalle ricchezze materiali. Sfidava apertamente le norme e le convenzioni sociali. Per lui, le leggi e i costumi erano spesso artifici inutili che distoglievano gli individui dalla ricerca della vera virtù.
Seguendo la lezione di Socrate, considerava la virtù come l’unica vera ricchezza. Per lui, vivere secondo natura e in armonia con essa era l’obiettivo principale dell’esistenza.
Diogene praticava e promuoveva la parresia, la franchezza radicale nel dire la verità. Questo atteggiamento lo portava spesso a scontrarsi con le autorità e con i benpensanti del suo tempo.
Diogene è ricordato non solo per la sua vita ascetica e i suoi comportamenti provocatori, ma anche per l’impatto duraturo delle sue idee. La sua critica della società e delle sue ipocrisie ha influenzato molte correnti filosofiche successive, tra cui lo stoicismo. Inoltre, la sua figura continua a essere un simbolo di ribellione contro l’ingiustizia e l’irrazionalità, ispirando artisti, pensatori e ribelli di ogni epoca.
Diogene, quindi, non è solo un personaggio storico, ma un emblema della ricerca della verità e della virtù contro le convenzioni e le illusioni del mondo. La sua vita e la sua filosofia invitano a riflettere su ciò che veramente conta e su come si possa vivere in maniera più autentica e significativa.

 

 

 

Geopolitics: a Philosophical Approach

 

 

 

These my brand-new reflections on geopolitics present it as a philosophical field, emphasizing the influence of geography on political strategies and the impact of geopolitical actions on collective identities and human conditions. It integrates classical philosophical thoughts on power and State acts, aiming to deepen the understanding of nations’ strategic behaviours and ethical considerations. This reflective approach seeks to enhance insights into global interactions and the shaping of geopolitical landscapes.

 

Geopolitics and Philosophy

Part III

 

There is no History without a State; there is no State without self-consciousness; there is no self-consciousness without History. Geopolitics describes self-consciousness as awareness of what one is by virtue of what one has been. In other terms, it is the consciousness of one’s community identity deriving from factors such as belonging to a territory, a certain ethnicity, religion, but above all from the historical depth of its origin. This awareness is what allows the community to remain united and to deduce objectives and possible future trajectories. In philosophy, self-consciousness is a central theme, both in the individual and collective sense. It is a dynamic concept that starts from the intuition of one’s identity, passes through opposition with multiplicity and its loss, and then returns to itself as a completed identity, aware of itself and that the world before it is its own production. If knowledge is power, and therefore every Philo-Sophia is intimately a Krato-Sophia, self-consciousness is the first representation of this power. This is expressed in the solidity of one’s identity and the awareness of being able to determine the object before oneself.
To understand how much strength there is in the knowledge of self-consciousness, one need only observe the weakness of those who believe they can do without it. A prime example is the European Union. A subject that is in truth an object, since it has not emerged from the people but was constructed above them. Based on interest, not identity. An object without self-consciousness because it is populated by a multitude of unlinked self-consciousnesses. Laws and regulations, a common market, and elections are of no use. If there is no identity that comes from below, aware of itself, the object will always remain an object, namely a pure abstraction. An artifact. Its irrelevance on the global stage is the clearest demonstration of what has just been asserted. The European Union is a sin of pride that violates the ontological grammar that wants the concept to adhere to the object. A concept that thinks the object as if it were a subject is an abstraction that can never be realized. The presumption lies in believing that one can determine subjects (different from oneself) rather than objects.


The idea that the subject produces the object; that self-consciousness is founded on the identity of opposites; that in short, reality is an extension of the subject itself and that self-consciousness can be reached when it is understood that externality does not exist as such but simply as my production; this conception, fascinating and powerful, however, conceals within its folds a huge risk. On one hand, it explains the creative force of man, the evolution of collective (as well as individual) consciousness, and the ability of a community to impose itself on others coveting glory; on the other, it predisposes to the error of extending one’s subjectivity (individual and collective) beyond its proper limits. Philosophy has the great merit of explaining how will rises above necessity. At the same time, however, once this process is completed, it exchanges the potency of the will for the will to omnipotence, reversing the relationship between necessity and will and thus contradicting the initial premises. As if, once completed, that subjectivity could divest itself of what it was to freely decide what will be. As if its path had not the simple objective of being completed, but of freeing itself from the necessity that brought it to be what it is. Thus, as if it were an unfortunate fate, as soon as self-consciousness is achieved, given the sense of power it confers, one is instantly driven to surpass the boundaries of one’s being. A sin of pride detectable whenever a community confuses cause and effect in observing itself and the world. When it places its creations (moral laws, ideologies) as primary causes, engines of historical becoming, and not mere effects deriving from much more substantial (and necessary) elements. A flaw to which man is unable to escape, leading to interpretations such as those according to which the ideological and institutional framework of a country is what determines its international posture, and not merely a costume that a community wears as a tool to justify and pursue its ambitions, which precede and determine the attire to be worn. On this, geopolitics has made progress, adjusting the aim of philosophy and reminding ourselves that, however intoxicated one may be in handling the tools of reason, omnipotence remains a limit beyond which one cannot escape.
In conclusion, having observed the interconnection of the two disciplines and how much one can offer the other, we hope that philosophy, discovering how useful it is (despite itself) in understanding the present, will finally overcome the taboos of the past and return to dealing with what is proper to it.

 

 

 

Gottfried Wilhelm Leibniz nell’anniversario della nascita

(1 luglio 1646)

 

 

 

In un angolo dorato del secolo d’oro della filosofia risplende la figura di Gottfried Wilhelm Leibniz, un faro di mente e di spirito, che si erge come un’alba eterna sulle rive del pensiero umano. Uomo di radiosa intelligenza, danzava tra i campi del sapere come le dita di un virtuoso su un clavicembalo celestiale, intonando melodie matematiche, logiche e metafisiche, tessendo un arazzo che univa l’infinito con il finito, il divino con il terreno.
La sua filosofia, come una marea infinita, abbracciava ogni particella dell’universo, ogni monade vibrante di vita e di possibilità. Le monadi, i suoi atomi spirituali, specchiavano l’intero cosmo in un gioco di riflessi perenni, ciascuna un microcosmo, un universo in miniatura, dotate di percezioni e volontà proprie. In questo gioco di specchi, Leibniz vedeva l’armonia prestabilita, una sinfonia divina orchestrata da un compositore trascendentale, in cui ogni nota, ogni evento, trovava il suo posto in un disegno perfetto e preordinato.


Il suo ottimismo metafisico, il celebre “migliore dei mondi possibili”, era un inno alla speranza, una fede incrollabile nella bontà e nella sapienza dell’Architetto Supremo. In un universo popolato da monadi, ogni sofferenza, ogni gioia, trovava la sua ragione d’essere in un equilibrio cosmico, in un ordine che la mente umana poteva solo intuire, come un sussurro tra le pieghe del silenzio.
Il suo spirito enciclopedico era un ponte tra passato e futuro, tra scienza e filosofia, unendo Aristotele e Newton, Platone e Cartesio in un dialogo senza tempo. La sua visione era come un raggio di luce capace di penetrare le ombre dell’ignoranza, illuminando sentieri nuovi e inesplorati. Egli vedeva l’universo come un vasto libro, scritto nel linguaggio matematico, dove ogni formula, ogni equazione, era una poesia in cifre, una testimonianza del divino ordine nascosto sotto la superficie caotica del mondo.
Nel giardino del pensiero umano Leibniz era giardiniere saggio, coltivando idee con delicatezza e cura, nutrendo la conoscenza come pianta rara e preziosa. Le sue lettere, i suoi manoscritti, erano semi sparsi nel vento del tempo, germogliando in nuove menti, in nuovi cuori, portando avanti il suo lascito di saggezza e meraviglia.
E, così, Gottfried Wilhelm Leibniz continua a vivere, una stella nella costellazione del pensiero, un canto perpetuo che risuona nell’eternità, un’eco di verità e bellezza che mai svanirà.

 

 

 

Le Enneadi di Plotino

L’Uno, il divino, l’anima

 

 

 

 

Come una stella vespertina che sorge al crepuscolo, nel cielo dell’antichità si levarono le Enneadi di Plotino, filosofo vissuto nel III secolo d.C., un testamento della ricerca incessante dell’anima per il divino. L’opera è composta da 54 trattati, sistemati da Porfirio, discepolo di Plotino, il quale modificò la suddivisione dei testi originali, combinandoli per formare i gruppi necessari a comporre le Enneadi, strutturate in sei insiemi di nove (“ennea”, in greco) trattati ciascuno. Dispose questi scritti seguendo un ordine che va dalle esistenze più basse dal punto di vista ontologico – le realtà terrene e la vita umana – ascendendo attraverso livelli metafisici come la provvidenza, gli enti demoniaci, l’anima e le capacità psichiche, fino al grado puramente intellettuale, culminando nell’ultimo trattato, con l’approdo alla suprema realtà divina, l’Uno, principio e fine di tutto ciò che è. Questa strutturazione mirava a delineare per il lettore un itinerario vòlto a trascendere il mondo terreno e a ottenere una piena comprensione della filosofia plotiniana.
Le radici delle Enneadi affondano nel fertile terreno del platonismo. Plotino, seguace del pensiero di Platone, eleva la teoria delle Forme archetipiche a nuove vette celestiali. Così come Platone descrive la realtà delle Idee, immutabili e perfette, Plotino introduce l’Uno, la causa primordiale da cui scaturisce ogni esistenza. L’Uno, inaccessibile e trascendente, risuona con l’Iperuranio platonico, ma lo trascende in una forma di unità assoluta che non ammette dualità o alterità.
L’originalità di Plotino brilla nella sua concezione di una gerarchia ontologica che parte dall’Uno, si dispiega nell’Intelletto e si espande poi nell’Anima del mondo. L’Uno, principio supremo e fonte di tutta la realtà, è al di là di ogni essere e pensiero. Da questa ineffabile unità emanano l’Intelletto, che contiene le idee, e l’Anima, che vivifica il mondo. Questa struttura tripartita non solo spiega la natura dell’esistenza ma offre anche un sentiero di ritorno verso l’Uno, attraverso la contemplazione e l’ascesi, invitando l’anima umana a riscoprire la sua origine divina.
Le Enneadi non si limitano a una mera indagine filosofica, ma si ergono anche come guida spirituale per l’anima. Plotino trasforma la filosofia in un percorso religioso, dove il fine ultimo è l’unione mistica con l’Uno. Questa aspirazione all’unione divina riflette un desiderio profondo di purificazione e di ritorno all’origine, che si manifesta in pratiche ascetiche e nella meditazione. La sua visione offre un ponte tra il terreno e l’ultraterreno, tra il finito e l’infinito.
Prima Enneade: etica e pratica
La prima Enneade tratta temi etici e pratici, fondamentali per chi inizia il cammino filosofico. Plotino esamina la condizione umana, discutendo la virtù, il destino e il ruolo della provvidenza e del fato. Approfondisce la questione del male, considerandolo come una mancanza di bene piuttosto che una presenza attiva. Questa Enneade pone le basi per l’ascesa dell’anima, stabilendo che la purificazione etica sia il primo passo necessario.
Seconda Enneade: il mondo naturale
Si focalizza sul mondo naturale e sulla cosmologia. Il filosofo espone la struttura dell’universo, l’eternità del mondo e la questione di come le emanazioni dell’Uno diano vita all’Intelletto e, poi, all’Anima del mondo. Qui, l’attenzione si sposta dalle questioni etiche alla natura dell’esistenza fisica e alla sua origine, tracciando un movimento dall’individuo al cosmico.
Terza Enneade: epistemologia e ontologia
Approfondisce la conoscenza e l’essere. Plotino indaga la natura dell’intelletto umano e la sua relazione con l’Intelletto divino. Tratta le idee di percezione, memoria e tempo e si interroga sulla natura e l’acquisizione della conoscenza vera, che avviene tramite l’unione mistica con l’Intelletto.


Quarta Enneade: l’anima
Plotino vi analizza la natura dell’anima, le sue divisioni e le sue funzioni, oltre alla sua relazione con l’ordine inferiore (il mondo materiale) e con quello superiore (l’Intelletto). Esamina il concetto di anima individuale e universale, sottolineando le possibilità e i mezzi attraverso cui questa possa elevarsi al di sopra del mondo fenomenico.
Quinta Enneade: l’Intelletto
Qui il filosofo raggiunge l’apice della sua speculazione, con un’indagine approfondita sull’Intelletto e sulle idee. Questa parte è cruciale per comprendere la sua teoria delle Forme e la struttura dell’Intelletto, che contiene le idee perfette e immutabili, eterna manifestazione dell’Uno.
Sesta Enneade: l’Uno
La sesta e ultima Enneade rappresenta il culmine del sistema plotiniano ed è dedicata all’Uno, principio supremo e fonte di tutta la realtà. Plotino spiega la natura dell’Uno, che supera l’essere e la conoscenza. Scevera il processo di emanazione dall’Uno all’Intelletto all’Anima e offre una visione profondamente mistica di come l’anima possa unirsi all’Uno, superando ogni dualità e distinzione.
Le Enneadi, con la loro profondità filosofica e l’ardore religioso, si configurano come una danza celestiale di luci che invita ogni anima a sollevarsi oltre il mondo sensibile. Plotino, in questo magistrale incontro tra mente e spirito, tende la mano alla saggezza di Platone, trasfigurandola in una visione che abbraccia l’intero cosmo. Le Enneadi non sono solo un’opera di grande valore filosofico, ma costituiscono un inno alla possibilità di unione dell’anima con il divino, attraverso una comprensione profonda del mondo, dell’anima, e dell’Intelletto, riecheggiando e, allo stesso tempo, amplificando i temi cari a Platone, in una sinfonia di pensiero che trascende i secoli. Nel loro tessuto si intrecciano il rigore intellettuale e la fervida aspirazione religiosa, che non solo fondano il neoplatonismo ma influenzano profondamente la filosofia e la teologia soprattutto cristiana, ponendosi quale faro per quanti cercano la verità oltre le ombre del mondo fenomenico.

 

 

 

Giacomo delle stelle

1798 – 29 giugno – 2024

 

 

 

Giacomo Leopardi, il melanconico cantore delle stelle, nacque sotto un cielo che pareva già tingersi di tristitia infinita. Figlio di nobiltà decadente, trovò rifugio non nelle pur fastose sale del palazzo di famiglia, ma nelle scure biblioteche, dove i libri divennero i suoi veri compagni. Con il suo volto pallido e gli occhi colmi di antica sapienza, si aggirava tra le ombre del pensiero, cercando di svelare i segreti della vita e dell’universo.
La sua filosofia si è levata come un grido soffocato contro l’indifferenza dell’esistenza. Vedeva la natura non come una madre benevola, ma come una matrigna crudele, sorda ai dolori e alle gioie degli uomini. In questa sua visione disillusa, l’uomo era solo, abbandonato a sé stesso, destinato a scontrarsi con l’inevitabile sofferenza.


Eppure, in mezzo a questo buio sconforto, trovava una sorta di sublime bellezza. Nella consapevolezza della propria fragilità, Leopardi vedeva l’essenza stessa dell’essere umano: un eroe solitario, capace di affrontare l’infinito nulla con dignità stoica. La sua poesia è divenuta un inno alla caducità della vita, un lamento dolce e struggente per tutto ciò che è destinato a svanire.
Leopardi, con la sua penna intrisa di malinconia, tracciava versi che erano come stelle cadenti, brevi e brillanti, destinate a spegnersi nel vasto firmamento dell’eternità. Ma la sua voce risuona ancora oggi, un’eco lontana che ci ricorda la nostra vulnerabilità e, al contempo, la nostra straordinaria capacità di trovare bellezza nel dolore.
Così, Giacomo Leopardi rimane per sempre il poeta delle illusioni perdute, un filosofo dell’esistenza che ci invita a guardare dentro noi stessi, a riconoscere la nostra solitudine, ma anche a celebrare la nostra irriducibile umanità.

 

 

 

Matelda

Donna soletta che si gia/ e cantando e scegliendo
fior da fiore/ ond’era pinta tutta la sua via

 

 

 

Matelda, figura misteriosa e affascinante del Purgatorio dantesco, affiora dai versi della Divina Commedia immersa in un’aura di sacra purezza e di bellezza incontaminata. La sua presenza è annunciata da un’aura luminosa, un riflesso dorato che si diffonde nella foresta del Paradiso Terrestre, dove il Dante e Virgilio la incontrano.
E proprio nella cornice lussureggiante del Paradiso Terrestre, Matelda appare come una creatura celestiale, una ninfa dai tratti divini, che incarna la perfezione e l’armonia della natura. I suoi capelli, lunghi e fluenti, sembrano intrecciarsi con i raggi del sole, creando un manto luminoso che avvolge il suo corpo esile e aggraziato. Ogni suo gesto è un inno alla grazia e alla serenità e il suo sguardo, dolce e penetrante, riflette una saggezza antica e profonda.


Matelda è la custode di questo Eden ritrovato, un simbolo di purezza e redenzione. La sua voce, quando intona il canto che celebra le meraviglie della creazione, risuona come una melodia capace di toccare le corde più intime dell’anima. Ella rappresenta l’innocenza originaria dell’uomo, la beatitudine perduta e poi riconquistata attraverso il pentimento e la purificazione.
La sua figura è immersa in una dimensione di eternità, dove il tempo sembra sospeso e ogni attimo diventa un’eco dell’armonia universale. I fiori e gli alberi attorno a lei sembrano danzare al ritmo della sua presenza, come se riconoscessero in lei la sovrana naturale di quel regno incontaminato.
Matelda, con la sua dolcezza e la sua purezza, diventa per Dante il simbolo della bellezza spirituale, della speranza e della redenzione. La sua apparizione è un momento di pace e di illuminazione, un preludio alla visione finale del Paradiso. Attraverso di lei, il poeta riscopre la meraviglia della creazione divina e la possibilità di una rinascita spirituale.
Matelda, quindi, non è solo una figura della letteratura, ma un archetipo di perfezione e armonia, un riflesso della bellezza eterna che abita nelle profondità dell’animo umano. La sua immagine risuona come un canto di speranza e di riscatto, un invito a riscoprire la purezza e la bellezza che giacciono nascoste in ogni cuore.

 

 

 

Eleonora d’Aquitania

Madre, musa e regina

 

 

 

Figura luminosa, donna di rara bellezza e di ancor più rara intelligenza, nata sotto i cieli azzurri della Francia meridionale, ha incarnato l’eleganza e la forza, una rosa in un mondo di spade e intrighi.
Eleonora, fiore d’Aquitania, la cui giovinezza fu nutrita dai versi dei trovatori, sorse e crebbe come un’aurora, illuminando le corti con il suo spirito ribelle e la sua mente acuta. Non solo una regina, ma una musa, ispiratrice di poeti e di guerrieri, il cui cuore batteva al ritmo delle antiche leggende e dei nuovi sogni di libertà.
Sposa di re e madre di sovrani, il suo destino la condusse dalle colline di Aquitania ai troni di Francia e d’Inghilterra. Moglie di Luigi VII, divenne regina di Francia, e, come una cometa, attraversò i cieli d’Europa, portando con sé una visione di cultura e raffinatezza. Ma il suo spirito indomito non poteva essere contenuto in un solo regno. Con il divorzio, trovò nuova luce nelle terre d’Inghilterra, accanto a Enrico II, divenendo regina e madre di uomini epici, Riccardo Cuor di Leone e Giovanni Senza Terra.


Eleonora, promotrice dell’amore cortese, protettrice dei trovatori e delle arti, riuniva attorno a sé corti brillanti, dove l’intelletto e il coraggio erano riveriti, dove le donne trovavano una voce e gli uomini un ideale.
Ma non fu solo nella lì che ella brillò. Anche nelle ombre della prigionia, trovò la forza della resistenza e, nei momenti più oscuri, la sua determinazione non vacillò mai. Quando le catene avrebbero potuto spezzare il suo spirito, rimase un faro di speranza e di tenacia.
Eleonora d’Aquitania, la cui vita fu un arazzo di passione, potere e poesia, insegna a noi cittadini del XXI secolo che la vera regalità risiede nel cuore e nella mente e che una donna può essere tanto guerriera quanto saggia, madre e musa, regina e anima libera.
In un mondo dominato dagli uomini, Eleonora divenne leggenda, il suo nome sussurrato nei corridoi del tempo, un’eco di ciò che una donna può essere quando si lascia guidare dal fuoco interiore e dall’inesauribile sete di libertà e giustizia.

 

 

 

Il Canto V del Paradiso

 

di Carmela Puntillo

 

 

LEZIONE DEL CENTRO SCALIGERO DEGLI STUDI DANTESCHI

CANTO V DEL PARADISO: SPIEGAZIONE E COMMENTO

15/02/2021

 

 

Il canto V inizia riprendendo il discorso di Beatrice sulla teoria del voto che era stato impostata nel canto precedente: peraltro, anche a questo canto non può negarsi una sua architettura, una sua propria autonomia, che già si rileva nella stessa coloritura espressiva e nei procedimenti retorici. Prima di definire la quaestio del voto Beatrice si preoccupa di descrivere la sua condizione interiore in questo particolare momento dell’ascensione paradisiaca, mettendola in relazione con lo stato d’animo in cui si trova il suo fedele (vv. 1-12)…

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Geopolitics: a Philosophical Approach

 

 

 

These my brand-new reflections on geopolitics present it as a philosophical field, emphasizing the influence of geography on political strategies and the impact of geopolitical actions on collective identities and human conditions. It integrates classical philosophical thoughts on power and State acts, aiming to deepen the understanding of nations’ strategic behaviours and ethical considerations. This reflective approach seeks to enhance insights into global interactions and the shaping of geopolitical landscapes.

 

Geopolitics and Philosophy

Part II

 

We already anticipate the criticism—hardly original—that this vision of the Whole represents an oppressive concept that erases differences. A charge often levied against Hegel, likely because one has not even read the preface of the Phenomenology of Spirit, in which Hegel himself levels this accusation against the thought of Schelling, from whom such a consequence could indeed be deduced. The philosopher from Jena dismisses this absurd perspective in a few lines: “Now, to oppose the differentiated and complete knowledge, or the knowledge that seeks and demands completeness, to this single knowledge for which in the Absolute all is equal, or to peddle one’s Absolute as the night in which, as the saying goes, all cows are black: well, all this is nothing but the ingenuity of an empty knowledge.”
The Whole we discuss here, therefore, is not a darkening totality that obliterates every difference, but rather a Whole where the parts acquire their raison d’être; where the relationships that emerge from the differences configure a totality to be grasped. Not unlinked individualities, nor annulled individualities, but individualities that through the travail of relation become themselves within the Whole. This is the principle of human communities, the subject of geopolitics. They do not annul individualities but are an expression of them. Communities are not abstract entities imposed from above but concrete essences that emerge from below.
Geopolitics and philosophy, therefore, have human communities as their subject and aim to understand them in their full expressive totality, that is, in the synthesis of their internal and external relationships. To comprehend their structure, it is essential to grasp what is substantial. Not to be dazzled by chronicles and breaking news, but to seek beneath the veil of appearances what makes a people what it is. Only by looking at the essential can we consider the community in its totality. Only thus is it possible to discern the necessary from the accessory. Based on this distinction, a multiplicity of individuals takes shape as a unit. If the character of the community is the necessary and that of the individual the accessory, these qualities of being extend to their historical becoming. Geopolitics well understands that, just as it is easier to approximate the behavior of a molecule rather than that of an atom, so it is possible to anticipate the development of a community while it will be impossible to do the same for a single individual. The Whole exhibits more regular and predictable behaviors compared to the individual parts. The necessary character does not concern the inevitability of what will be, but rather the anticipation or prediction of it. The necessary is traceable in certain characteristics of the substance and these allow for the tracing of a possible future trajectory. When geopolitical analysts talk about the constraints and imperatives of a community, these are nothing but the declination of the necessity of being in the field of what can be.


Philosophy is what allows us to grasp the “spirit of the people,” its substance, and thus the necessary. Geopolitics uses this human analysis and adds as a corollary, other points of observation: geographical, economic, political, military, technological, and cultural analyses—these revolve around the first and not vice versa, for it is always the subject that determines the object and not the opposite. The endpoint of philosophy is the fundamental starting point of geopolitics.
If the concrete is the whole, philosophy has always attempted to grasp it. It has sought, that is, to conceptualize the concrete, to rationalize the real. This does not mean believing that human reality is inherently rational, but that it, as a product of humanity, is rationalizable, understandable. Irrationality is never banned, at most misunderstood. One can rationalize what seems irrational, understand what logically appears inconvenient and contrary to the interest of those who enact it. This is the main reason why deterministic prediction is impossible.
Philosophy, once it has grasped the contradictory substance of the real, and while postulating its constant becoming, has refrained from going beyond its time. It has instead positioned itself at the window, satisfied with having understood what has now closed and waiting for the owl of Minerva to whisper a new past reality at dusk. If philosophy is thus its own time apprehended through thought, geopolitics is the thought of its own time translated into the concrete. Philosophy looks at what has already been realized; geopolitics takes up the work of philosophy to try to understand what will be realized.
If what has been said so far is clear, it logically follows the centrality of the State and History. The former, not understood exclusively as the National State, but as every statal representation of a community, which includes the Greek poleis, medieval communes and duchies, up to empires and national states. The form changes, not the substance. Regarding History, we might say, with Hegel, that it includes both the historia rerum gestarum and the res gestae, i.e., it encompasses both the objective aspect (what happened) and the subjective aspect (its narration). The need to tell oneself, to describe oneself, arises with the establishment of the State. This takes shape as a system of laws and customs of a certain people in a specific geographic space. In its emergence, it also brings forth the people’s interest in narrating their actions, both to keep track of events useful for organization (documents) and because it is necessary to feed self-consciousness (epics, tragedies, comedies, etc.). On the other hand, in the absence of a State—as in those communities representing the mere extension of a lineage and for nomadic communities—the community does not desire to describe itself but rather feels the need to justify its presence in the world. Justification that cannot be drawn from the presence of a State and the ownership of land. In such contexts, religious narratives and revealed truths take the place of History, for only transcendence can fill the void left by the State. It is the latter, then, that gives rise to History.