Archivi autore: Riccardo Piroddi

Voluntas e Noluntas

La tragicità dell’esistenza e la via della liberazione
secondo Schopenhauer

 

 

 

 

Arthur Schopenhauer ha dedicato la sua opera più significativa, Il mondo come volontà e rappresentazione, all’analisi profonda della natura umana e dell’esistenza. Al centro del suo pensiero vi è la convinzione che l’essere umano sia in balia di una forza irrazionale e imperscrutabile, la Volontà (voluntas, in latino). Questa forza è la vera essenza del mondo, una spinta cieca e incessante, che non risponde a scopi finalizzati né al bene individuale o collettivo, ma si manifesta attraverso un perpetuo desiderio di autoconservazione e replicazione.
La Volontà non rappresenta semplicemente il desiderio individuale, ma un principio metafisico universale. Schopenhauer identifica in essa l’essenza stessa della realtà: ogni fenomeno naturale, ogni impulso vitale, ogni manifestazione dell’essere non è altro che un riflesso di questa forza. Essa è cieca e indifferente, non agisce in funzione di un progetto superiore e non conosce fini morali o teleologici. La sua manifestazione nell’uomo è evidente attraverso il ciclo perpetuo del desiderio e dell’insoddisfazione: l’uomo, dominato dalla Volontà, desidera costantemente, ma non raggiunge mai una soddisfazione duratura. Anche una volta ottenuto ciò che desidera, il senso di appagamento svanisce presto, lasciando spazio a nuovi desideri. Questo processo, per Schopenhauer, è la fonte di ogni sofferenza umana.
Il filosofo sottolinea la tragicità dell’esistenza umana proprio per la sua sottomissione alla Volontà. L’uomo non è che una pedina, uno strumento per perpetuare la Volontà stessa, il cui scopo non è altro che quello di generare innumerevoli copie della vita senza uno scopo ultimo. Questa visione conduce Schopenhauer a considerare l’esistenza come intrinsecamente dolorosa e priva di significato. A differenza delle filosofie che attribuiscono alla volontà un valore positivo o costruttivo, come accade in alcune letture idealistiche, Schopenhauer la descrive come un potere oscuro, inesorabile, la cui natura è di condannare l’essere vivente a un perpetuo stato di insoddisfazione.

Di fronte a questa condizione esistenziale, Schopenhauer introduce il concetto di Noluntas, ossia la negazione della Volontà. La Noluntas è la rinuncia volontaria al desiderio e all’impulso incessante che la Volontà rappresenta. Secondo il filosofo, solo attraverso la consapevolezza della natura della Volontà e la scelta deliberata di opporsi a essa è possibile raggiungere uno stato di pace interiore. La Noluntas non è un mero rifiuto del piacere o dell’appagamento, ma una profonda forma di distacco che porta alla liberazione dal ciclo della sofferenza. In termini filosofici, questo processo di negazione corrisponde all’estirpazione del desiderio, il quale è la radice di ogni tormento.
Il concetto di Noluntas, sebbene già presente in San Tommaso d’Aquino, con l’accezione morale di “fuga dal male” e “rifiuto del peccato”, assume con Schopenhauer una dimensione esistenziale più ampia. Per il filosofo tedesco, la Noluntas è la strada che conduce al superamento della sofferenza e all’illuminazione, simile al concetto orientale di Nirvana. Infatti, nel parallelo tra la filosofia schopenhaueriana e il buddhismo, la Noluntas diventa sinonimo di un processo di annullamento dell’ego e di distacco totale dal desiderio, che permette di sfuggire alla catena di causa ed effetto e al dolore perpetuo.
La somiglianza tra la Noluntas e il Nirvana del buddhismo è evidente nella comune aspirazione a liberarsi dal ciclo dell’esistenza. In entrambe le prospettive, il desiderio è visto come la radice della sofferenza. Tuttavia, Schopenhauer, a differenza delle religioni e delle filosofie orientali, non considera questo percorso come un cammino accessibile a tutti. La Noluntas è una condizione straordinaria, raggiungibile solo da coloro che riescono a comprendere la vera natura della Volontà e ad adottare un approccio ascetico alla vita, vòlto a rinunciare ai piaceri mondani e a spegnere il desiderio. Questa condizione rappresenta una forma di estinzione dell’individualità e una fusione con l’ordine universale, libera dalla schiavitù del volere.

 

 

 

 

L’impertinenza del nulla

L’angoscia e la visione esistenziale di Heidegger

 

 

 

L’angoscia, come delineata da Martin Heidegger in Essere e Tempo, costituisce un concetto decisivo per comprendere la condizione umana nella sua forma più autentica e radicale. Il filosofo la descrive come “l’impertinenza del nulla”, un’espressione che, se analizzata a fondo, rivela una prospettiva affascinante e complessa sull’esistenza. L’angoscia non è un semplice sentimento passeggero, ma una modalità fondamentale attraverso cui l’essere umano sperimenta il mondo e il proprio essere nel mondo.
Quando Heidegger si riferisce al nulla come “impertinente”, lo fa per sottolineare la natura invasiva e non richiesta di questo confronto. L’angoscia emerge improvvisamente, senza preavviso, destabilizzando l’illusoria stabilità delle nostre certezze quotidiane. Questo incontro con il nulla è radicalmente diverso dalla paura, che si riferisce sempre a un oggetto definito, a una minaccia tangibile e concreta. L’angoscia, invece, si configura come una condizione senza oggetto: non ha un punto di fuga, non ha un volto contro cui possiamo lottare o da cui possiamo fuggire. È, infatti, una rivelazione del vuoto che permea l’esistenza, un’assenza che infrange la normalità e ci obbliga a confrontarci con la possibilità che tutto ciò che diamo per scontato possa svanire o non avere significato intrinseco.
Heidegger introduce, poi, il concetto di gettatezza (Geworfenheit), per indicare la condizione in cui l’essere umano si trova inevitabilmente immerso: una realtà che non ha scelto, ma in cui è gettato e con cui deve fare i conti. Di fronte all’angoscia, tutte le convenzioni sociali, le abitudini e i ruoli che di solito ci rassicurano e ci danno un senso di orientamento si dissolvono, lasciandoci nudi di fronte al nulla. È in questo momento che la vera natura della libertà umana emerge in tutta la sua ambivalenza. Da un lato, questa libertà è eccitante e piena di potenzialità: siamo liberi di creare il nostro significato, di plasmare il nostro destino. Dall’altro lato, però, essa si accompagna a un senso di precarietà insopportabile, perché non vi è alcun fondamento stabile a cui aggrapparsi.


L’angoscia è, quindi, una rottura della familiarità del mondo, un’esperienza che ci estrania dalle cose di tutti i giorni e ci riporta a una percezione più essenziale del nostro essere. Questo stato di estraneazione ci obbliga a guardare la vita in modo nuovo, privo delle lenti del senso comune e delle convenzioni sociali. È una condizione che ci invita a riflettere sulla natura del nostro esistere, ponendo domande come: “Perché sono qui?”. “Qual è il significato della mia vita?”. Queste domande non trovano risposte facili, ma proprio nella loro apertura risiede la possibilità dell’autenticità.
Un aspetto centrale dell’angoscia, per Heidegger, è il suo potere di svelare l’essere-per-il-nulla dell’essere umano. Non si tratta di una visione nichilista, bensì di una comprensione esistenziale: riconoscere che l’essere umano è costantemente proiettato verso il nulla significa comprendere che la vita non ha un senso precostituito. Questo non implica che la vita sia priva di significato, ma che siamo noi a dover continuamente crearlo. L’angoscia, in questo senso, è una forza creativa, una spinta a riflettere e a reinventare il nostro rapporto con il mondo e con gli altri.
L’esperienza dell’angoscia porta con sé un paradosso: ci mostra una libertà assoluta ma al contempo ci espone alla vertigine di questa stessa libertà. Essere consapevoli del nulla che ci circonda significa riconoscere che non esiste un destino scritto, un copione da seguire. L’uomo è libero di agire, ma questa libertà è intrinsecamente connessa a una responsabilità e a una vulnerabilità che pochi riescono ad affrontare senza timore. La precarietà esistenziale non è un semplice stato di mancanza, ma una condizione intrinseca dell’essere umano che, attraverso l’angoscia, si manifesta con tutta la sua intensità.
L’angoscia, dunque, non è solo un’esperienza negativa, ma una porta d’accesso a una comprensione più profonda di sé. È una sorta di “risveglio” che ci conduce a una vita più autentica, lontana dalle illusioni rassicuranti ma false della quotidianità. Ci ricorda che, nonostante la presenza del nulla e la consapevolezza della nostra gettatezza, abbiamo il potere e la responsabilità di creare il nostro significato. La vera sfida dell’esistenza è accettare questa condizione, trasformando l’angoscia da semplice perturbazione a forza motrice per un’esistenza piena e consapevole.

 

 

 

 

Il Liside di Platone

L’amicizia come ricerca filosofica del bene e della verità

 

 

 

 

Il dialogo Liside di Platone, tra quelli giovanili del filosofo, affronta il tema dell’amicizia (philia) attraverso una conversazione tra Socrate e due giovani, Liside e Ippotale. Questo testo è un’indagine filosofica che non consegna una definizione precisa o definitiva dell’amicizia, ma tratta le varie dimensioni e complessità che essa comporta, lasciando il lettore con interrogativi più che con risposte.
Il dialogo si apre con l’incontro tra Socrate e Ippotale, un giovane innamorato di Liside, ma troppo timido e impacciato per esprimere i suoi sentimenti. Socrate offre allora la propria guida al giovane su come comportarsi e inizia un dibattito filosofico sull’amicizia, coinvolgendo Liside e un altro adolescente, Menesseno. Questo scenario iniziale presenta già un’osservazione sull’amicizia: essa nasce, spesso, dal desiderio di legame con l’altro, che però può manifestarsi in modi diversi e a volte poco consapevoli, come nel caso di Ippotale.
L’amicizia, nel dialogo, viene illustrata attraverso una serie di domande e ipotesi. Socrate guida Liside e Menesseno a riflettere su ciò che rende due persone amiche, suggerendo varie possibilità e scartandole, una per una. Le ipotesi che emergono sono varie. Una prima, è che l’amicizia nasca tra simili, ovvero tra persone che condividono interessi, valori o tratti di personalità. Tuttavia, Socrate mette in discussione questa teoria, sostenendo che il “simile” non ha bisogno di nulla, in quanto è già completo, e non cerca quindi un altro simile. In questo modo, l’ipotesi viene criticata e sembra contraddittoria: se siamo uguali, perché avremmo bisogno l’uno dell’altro? Un’altra ipotesi suggerita è che l’amicizia sorga tra opposti, con l’idea che ognuno di noi sia “completato” dalla presenza di qualcuno che possiede ciò che noi non abbiamo. Comunque, questa teoria viene messa in discussione, perché Socrate osserva che anche gli opposti possono essere incompatibili o entrare in conflitto, minacciando l’armonia del legame. Successivamente, Socrate propone che l’amicizia possa essere motivata dalla ricerca del bene. L’uomo desidera il bene e, per questo, cerca amicizia con coloro che considera “buoni”. Tuttavia, anche questa teoria incontra problemi, poiché ci si chiede se sia realmente possibile essere attratti solo dal bene e se questo possa generare un legame reciproco e duraturo. Infine, Socrate esamina l’idea che l’amicizia possa sorgere da un principio di utilità, ovvero dall’essere utili gli uni agli altri. In questo senso, l’amicizia sarebbe fondata sulla necessità di colmare delle mancanze. Una simile concezione, però, risulta riduttiva, poiché sembra escludere il sentimento disinteressato che spesso si associa all’amicizia.

Alla fine del dialogo, Platone non dà una soluzione univoca a queste ipotesi. Socrate conclude lasciando i suoi interlocutori in una situazione di aporia, ossia di sospensione del giudizio. Non si arriva a una definizione chiara di cosa sia l’amicizia e questo è emblematico del metodo socratico, che mira più a suscitare dubbi e a stimolare il pensiero critico nei discepoli che a fornire risposte definitive. In questo modo, il dialogo Liside non fornisce una verità assoluta sull’amicizia ma invita il lettore a riflettere sulla sua natura complessa e sulle molteplici forme che essa può assumere.
Da questa analisi emerge come Platone interpreti l’amicizia non solo come un legame affettivo, ma come una ricerca costante del bene e della verità. Il desiderio di conoscere e migliorarsi reciprocamente diventa una delle possibili basi del legame amichevole. In un certo senso, l’amicizia diventa un mezzo per la conoscenza di sé e degli altri, una pratica filosofica di introspezione e di ricerca del bene comune.
Questa concezione dell’amicizia ha una forte valenza etica, in quanto si collega all’idea di una tensione costante verso la virtù. In altre parole, Platone mostra che l’amicizia, se autentica, è orientata al miglioramento e alla crescita, superando le semplici dinamiche di utilità o di somiglianza. Essa è una pratica relazionale che consente ai soggetti coinvolti di riconoscere le proprie mancanze e di aspirare insieme alla conoscenza e alla bontà, nella convinzione che l’altro ci aiuti a colmare un vuoto interiore.
Il dialogo Liside tratta l’amicizia come un concetto dinamico e complesso, che non si lascia ridurre a semplici definizioni. Platone, con il suo metodo dialettico, vaglia le varie dimensioni di questo legame umano fondamentale, evidenziando come esso sia strettamente connesso alla ricerca del bene e della verità. Attraverso il dialogo, viene operata una riflessione filosofica che va oltre le semplici spiegazioni e invita a considerare l’amicizia come un percorso di crescita e di arricchimento personale, un legame che spinge a migliorare se stessi e a cercare costantemente il bene in sé e negli altri.

 

 

 

Lo “scacco” esistenziale

Limite e consapevolezza nella filosofia
di Jaspers, Kierkegaard e Sartre

 

 

 

 

Karl Jaspers, uno dei principali rappresentanti della filosofia esistenzialista, sviluppa un’analisi profonda sulla condizione dell’uomo di fronte alla realtà, sostenendo che ogni tentativo di comprensione del mondo si scontra inevitabilmente con un “scacco”, una sorta di limite insuperabile. Secondo il filosofo, lo scacco o il naufragio non rappresenta un semplice fallimento, ma assume il ruolo di strumento di chiarificazione dell’esistenza stessa. Per Jaspers, lo scacco è infatti il senso ultimo della vita, una chiave interpretativa del divenire. Questo fallimento diventa così il mezzo per giungere a una consapevolezza più profonda dell’essere e per riconoscere la finitezza dell’uomo e i limiti della ragione.
La frase ricorrente di Jaspers, “filosofare è imparare a morire”, esprime un concetto chiave del suo pensiero: il confronto con lo scacco e l’accettazione dei limiti umani sono processi essenziali per cogliere l’essenza della propria esistenza. Per lui, filosofare non è semplicemente cercare risposte o verità assolute, ma è piuttosto un’esperienza che implica l’accettazione del “naufragio” dell’intelletto e della volontà di dominio sulla realtà. Imparare a morire significa, in questo contesto, imparare a sperimentare lo scacco, vivere consapevolmente i limiti e la vulnerabilità dell’essere umano.
Questa visione è stata condivisa, pur con prospettive differenti, da altri filosofi esistenzialisti. Søren Kierkegaard, ad esempio, ha percorso la dimensione esistenziale dell’individuo in termini di angoscia e disperazione, sentimenti che scaturiscono dalla consapevolezza del proprio limite e dalla percezione di uno “scacco” esistenziale. La disperazione, secondo Kierkegaard, è la condizione in cui l’uomo si trova di fronte all’incertezza del proprio essere, la sua incapacità di dominare il senso della propria esistenza. Lo “scacco” qui non è solo un ostacolo ma è la condizione ontologica dell’essere umano, che si confronta con il paradosso di essere libero, ma, al contempo, limitato. La sua angoscia, quindi, è il risultato della tensione tra ciò che l’uomo vorrebbe essere e ciò che realmente è, in una continua oscillazione tra possibilità e limite.

Jean-Paul Sartre, da parte sua, porta avanti l’idea di “scacco” sotto un’altra luce, riconducendolo a quello che lui chiama il “fine assoluto”. Nella sua prospettiva, la condizione esistenziale non riguarda soltanto l’angoscia o la disperazione ma è segnata dalla scoperta del fallimento della conoscenza oggettiva di arrivare a comprendere il senso ultimo della vita. Per Sartre, l’uomo è “condannato alla libertà”, poiché senza riferimenti assoluti è costretto a scegliere e a dare un senso alla propria esistenza in un mondo privo di significati preconfezionati. In questo processo, lo scacco è la consapevolezza della mancanza di un fondamento ultimo della realtà che, paradossalmente, libera l’individuo di creare significato in totale autonomia, anche a rischio dell’assurdo.
Il concetto di “scacco” o “naufragio” diventa, quindi, centrale nella filosofia esistenzialista, perché permette di passare dalla conoscenza oggettiva a una forma di conoscenza più intima e personale, la conoscenza esistentiva. Non si tratta di un sapere che si può acquisire attraverso la logica o la razionalità, ma di un sapere vissuto, esperienziale, che nasce dal confronto diretto con il limite, l’incertezza e il fallimento. Questa conoscenza esistentiva, frutto di una profonda presa di coscienza del limite umano, conduce l’individuo a un’autenticità che trascende la pura razionalità, spingendolo a esplorare il significato della propria esistenza nella sua pienezza e complessità.
Per i filosofi esistenzialisti, pertanto, il concetto di “scacco” non rappresenta semplicemente una sconfitta, ma è piuttosto un passaggio essenziale verso una comprensione più profonda e autentica dell’essere umano. Il “naufragio” della conoscenza razionale e oggettiva apre infatti la strada a una consapevolezza più completa, che si rivela solo attraverso l’accettazione del limite e la riflessione esistenziale. In questo modo, lo scacco diventa non solo una condizione inevitabile della vita, ma anche una via per la verità esistenziale e l’autenticità individuale.

 

 

 

 

Bernardino Telesio

Il precursore della scienza moderna tra empirismo e fede

 

 

 

 

Bernardino Telesio (1509-1588), filosofo rinascimentale italiano, è considerato tra i precursori della scienza moderna grazie al suo approccio empirico e alla critica del sapere dogmatico di stampo aristotelico e scolastico. Un punto centrale della sua filosofia è il legame tra naturalismo e religione, che egli interpreta come una sintesi unica tra osservazione empirica della natura e fede religiosa.
Telesio è stato uno dei primi filosofi a promuovere un metodo conoscitivo basato sull’osservazione diretta della natura, opponendosi alla speculazione metafisica. A suo avviso, per comprendere la realtà occorreva abbandonare i dogmi della filosofia Scolastica, specialmente quelli di matrice aristotelica, per affidarsi all’esperienza sensibile. Questo approccio lo portò a concepire la natura come un’entità dotata di princìpi interni e capaci di autoregolarsi, senza bisogno di interventi divini.
Nella sua opera principale, De rerum natura iuxta propria principia (La natura delle cose secondo i propri princìpi), Telesio sostiene che la natura operi seguendo leggi intrinseche e indipendenti, come il caldo e il freddo, senza richiedere interferenze soprannaturali. Questa interpretazione della natura come forza autonoma anticipa il naturalismo moderno, che si sarebbe sviluppato successivamente con Galileo e Newton.
Nonostante il suo orientamento empirico, Telesio non rifiutava la religione. Uomo di fede, egli ne riconosceva l’importanza per la vita dell’uomo e per la comprensione dell’universo. La sua conciliazione tra fede e visione naturalistica è, però, complessa e ambigua: pur non negando l’esistenza di Dio e dei princìpi religiosi, sosteneva che questi avesse creato un mondo capace di autogestirsi. Ciò permetteva di concepire la natura come un sistema libero e indipendente, pur sempre frutto della volontà divina.

Tale concezione, tuttavia, si avvicina a un’idea di deismo: Dio avrebbe creato il mondo e le sue leggi, ma non interverrebbe continuamente nel suo funzionamento. Telesio, così, garantiva l’autonomia della natura senza negare la presenza divina, che per lui restava essenziale. La religione, quindi, non si opponeva alla conoscenza empirica, ma rispondeva a domande di ordine spirituale: la filosofia naturale esplorava i princìpi fisici del mondo, mentre la religione si occupava dell’origine e del senso ultimo dell’esistenza.
La conciliazione tra naturalismo e religione in Telesio costituisce uno dei tratti più originali della sua filosofia. A differenza di molti pensatori medievali e rinascimentali, che vedevano nella natura un riflesso diretto della volontà divina, Telesio riteneva che essa possedesse una propria autonomia, senza che ciò implicasse la negazione di Dio, ma piuttosto una reinterpretazione del suo ruolo. Dio era l’origine della natura, ma questa, una volta creata, operava seguendo le proprie leggi.
Questo pensiero risultò innovativo, poiché si distaccava dal teocentrismo medievale e anticipava il razionalismo e l’empirismo, consegnando una visione del mondo comprensibile attraverso leggi naturali autonome, ma dove la religione forniva un contesto morale e spirituale. Telesio pose, quindi, le basi per una filosofia in cui la religione poteva coesistere con la ricerca empirica della realtà.
Il pensiero di Telesio non fu privo di critiche, specie da parte dei circoli religiosi e accademici conservatori, che lo consideravano una minaccia alla visione tradizionale del mondo. Tuttavia, la sua filosofia influenzò pensatori come Tommaso Campanella e Giordano Bruno, che proseguirono nello sviluppo di un’indagine empirica della natura e di una religiosità meno vincolata dai dogmi ecclesiastici.
Telesio gettò inoltre le basi per una forma di pensiero scientifico che sarebbe diventata fondamentale per lo sviluppo della scienza moderna. La sua idea di una natura dotata di proprie leggi preannunciò il metodo scientifico di Galileo e la concezione di un mondo comprensibile attraverso l’osservazione e la ragione, un mondo che, pur riflettendo l’opera di Dio, non necessitava di costante intervento divino per funzionare.
Bernardino Telesio, dunque, è una figura chiave nel passaggio dalla visione medievale a quella moderna della natura e del sapere. La sua ricerca di una sintesi tra naturalismo e religione rappresenta un momento cruciale nella storia della filosofia, proponendo una natura dotata di leggi autonome senza escludere una dimensione religiosa. Telesio, così facendo, ha gettato le basi per una visione del mondo che avrebbe consentito lo sviluppo della scienza moderna, lasciando aperta la possibilità di una dimensione spirituale in cui l’uomo potesse continuare a cercare risposte sul senso ultimo della vita.
In questo modo, la filosofia di Telesio dimostra che è possibile perseguire la conoscenza attraverso l’osservazione della natura, trovando al contempo nella fede una cornice etica e spirituale in armonia con l’indagine empirica.

 

 

 

 

L’euristica filosofica

Strategie mentali per comprendere la realtà
da Aristotele a Kahneman e Tversky

 

 

 

 

L’euristica, in ambito filosofico, è un concetto utilizzato per descrivere metodi intuitivi o strategie mentali che gli esseri umani impiegano per risolvere problemi e prendere decisioni in modo rapido ed efficiente. Il termine deriva dal greco “heurískein”, che significa “scoprire” o “trovare”. Sebbene l’euristica sia spesso associata alla psicologia cognitiva, in filosofia costituisce una riflessione profonda sui limiti della razionalità e sull’affidabilità delle intuizioni umane. Nel corso della storia della filosofia, vari pensatori hanno proposto teorie sul ruolo dell’euristica, ciascuno con una prospettiva unica che si interseca con la logica, l’etica e la metafisica.
Aristotele, considerato il padre della logica, sviluppò il concetto di sillogismo come strumento euristico per comprendere il mondo attraverso il ragionamento deduttivo. I suoi sillogismi, basati su premesse maggiori e minori, rappresentano una forma primitiva di euristica poiché aiutano a derivare conclusioni senza esaminare ogni singolo caso. Aristotele proponeva che il ragionamento euristico, pur non essendo sempre infallibile, fosse utile per raggiungere conoscenze generali su princìpi naturali e morali. In questo modo, l’euristica era vista come un compromesso tra la ricerca della verità e l’efficacia pratica. Un sillogismo classico potrebbe essere: “Tutti gli uomini sono mortali; Socrate è un uomo; dunque, Socrate è mortale”. Questo tipo di ragionamento non esamina la mortalità in senso assoluto ma fornisce una verità pratica utile, che si basa sull’assunzione condivisa.
Immanuel Kant osservò che l’intelletto umano non è in grado di comprendere completamente la realtà in sé stessa (il noumeno) ma può solo accedere ai fenomeni attraverso una struttura euristica. Nella Critica della ragion pura, Kant introduce concetti quali le categorie dell’intelletto, che funzionano come euristiche per interpretare l’esperienza. Queste categorie –causalità, quantità e qualità, tra le altre – sono strumenti innati della mente umana che aiutano a organizzare l’esperienza empirica, rendendo possibile la conoscenza. Secondo Kant, l’idea di causalità è una sorta di euristica innata: noi percepiamo il mondo in termini di cause ed effetti, perché ciò ci permette di dare un senso alla realtà. Questa non è una rappresentazione oggettiva della natura, ma una “scorciatoia” necessaria per orientarsi nel mondo fenomenico.

Charles Sanders Peirce, fondatore del pragmatismo, propose l’abduzione come tipo di ragionamento euristico. L’abduzione è un processo intuitivo attraverso il quale si formulano ipotesi a partire da dati incompleti o incerti. Peirce sottolineò che il pensiero euristico non segue le rigide regole della deduzione o dell’induzione, ma si basa sull’interpretazione creativa di indizi per formulare una teoria plausibile. L’abduzione, per Peirce, è centrale nei processi scientifici, poiché permette di avanzare nuove ipotesi senza dati completi, per poi testarle successivamente. Immaginiamo di trovare tracce di fango all’ingresso di casa. Con l’abduzione, possiamo ipotizzare che qualcuno con scarpe sporche sia entrato. Non è una conclusione certa, ma un’ipotesi plausibile che nasce dall’interpretazione euristica di un segnale.
Hans-Georg Gadamer, nei suoi lavori sull’ermeneutica, sostiene che ogni interpretazione sia influenzata da pregiudizi e da una comprensione preliminare che funge da euristica. Secondo Gadamer, il processo interpretativo non è mai neutrale ma sempre mediato da tradizioni culturali e storiche, che guidano la comprensione. In questo contesto, l’euristica si manifesta come un filtro interpretativo, attraverso il quale l’individuo costruisce il significato dei testi e delle esperienze. Gadamer afferma che quando leggiamo un testo antico, i nostri pregiudizi e la nostra conoscenza pregressa ci guidano nell’interpretazione. Essi fungono da euristica per orientarci in una comprensione che non può essere puramente oggettiva, ma è arricchita dalla nostra prospettiva storica e culturale.
Daniel Kahneman e Amos Tversky, pur essendo psicologi, hanno avuto un impatto rilevante sulla filosofia della mente e dell’etica con la loro teoria delle euristiche. Essi hanno dimostrato che gli esseri umani spesso utilizzano scorciatoie mentali per prendere decisioni, anche se ciò comporta il rischio di errori sistematici. Le euristiche come la “rappresentatività” e la “disponibilità” mostrano come tendiamo a giudicare la probabilità di un evento in base alla sua somiglianza con altri eventi o alla facilità con cui ci viene in mente, anziché basarci su dati oggettivi. Ad esempio, se qualcuno ha recentemente letto di un incidente aereo, potrebbe sopravvalutare la probabilità di un incidente simile a causa dell’euristica della disponibilità. Questo errore di giudizio riflette il modo in cui l’euristica influenza le scelte quotidiane, anche se non sempre conduce alla verità.
L’euristica in filosofia, pertanto, approfondisce come strumenti di pensiero, scorciatoie mentali e pregiudizi strutturino la conoscenza e influenzino la nostra capacità di interpretare il mondo. Da Aristotele a Kant, da Peirce a Gadamer e, infine, a Kahneman e Tversky, l’euristica è stata analizzata come un mezzo essenziale per l’orientamento umano nel mondo, nonostante i suoi limiti e le sue imperfezioni. La filosofia, quindi, non si limita a criticare l’euristica per i suoi potenziali errori, ma la riconosce come una risorsa indispensabile per navigare la complessità della realtà.

 

 

 

Il noema

Dall’intuizione aristotelica alla fenomenologia di Husserl

 

 

 

 

Il termine noema rimanda un concetto filosofico che ha avuto un’evoluzione notevole nel corso della storia del pensiero, passando dall’epistemologia aristotelica alla fenomenologia husserliana.
Nel contesto della filosofia aristotelica, il noema è inteso come una nozione fondamentale dell’intelletto. Secondo Aristotele, la conoscenza si articola in diversi livelli, partendo da una base di percezione sensoriale fino ad arrivare a una comprensione più complessa e astratta.
Aristotele definisce il noema come ogni nozione conosciuta “immediatamente” dall’intelletto, cioè senza passare per un’analisi discorsiva o per una deduzione logica. Il noema rappresenta, quindi, un’intuizione intellettuale immediata, una comprensione unitaria di un oggetto o di un’idea. È un concetto che non richiede ulteriore elaborazione, perché è percepito come un tutto indivisibile. In questo senso, il noema è considerato il punto di partenza della conoscenza discorsiva. La conoscenza discorsiva, ovvero la capacità di ragionare, argomentare e costruire concetti complessi, si basa, infatti, su queste intuizioni iniziali. In Aristotele, dunque, il noema è il materiale “grezzo” su cui l’intelletto lavora per costruire una comprensione più articolata della realtà.
Con Edmund Husserl, fondatore della fenomenologia, il termine noema acquisisce una nuova dimensione e un significato molto più specifico rispetto a quello aristotelico. Per Husserl, il noema è legato alla struttura dell’atto percettivo e alla teoria della coscienza intenzionale. Husserl sostiene che ogni atto di coscienza è intenzionale, cioè è sempre rivolto verso un oggetto. Questo oggetto, che viene colto dall’atto intenzionale della coscienza, è definito, appunto, noema. È il “contenuto” dell’atto di coscienza, ciò che viene percepito, pensato o immaginato. Il noema, quindi, è la realtà che appare alla coscienza nel momento in cui questa compie un atto percettivo o intellettuale. Nella fenomenologia husserliana, la distinzione tra noesi e noema è cruciale. La noesi è l’atto stesso della percezione o dell’intenzionalità della coscienza (ad esempio, il percepire, il pensare, l’immaginare), mentre il noema è il contenuto dell’atto, ciò che viene “pensato” o percepito. In altre parole, mentre la noesi si riferisce al lato soggettivo dell’esperienza, il noema riguarda il lato oggettivo o l’oggetto intenzionale così come si manifesta alla coscienza.

La differenza principale tra Aristotele e Husserl risiede nell’approccio epistemologico e fenomenologico che entrambi danno al concetto di noema. Per Aristotele, il noema è un’intuizione immediata e indivisibile dell’intelletto; è una comprensione immediata di una nozione, non mediata da ragionamenti discorsivi. Per Husserl, invece, il noema non è tanto un atto intuitivo quanto un oggetto dell’intenzionalità della coscienza. È ciò verso cui la coscienza si dirige, il “pensato” in ogni atto di coscienza intenzionale. In Aristotele, il soggetto è più implicito nel processo di conoscenza; l’attenzione è posta sull’oggetto conosciuto in modo immediato. Husserl, al contrario, mette in primo piano la coscienza e l’atto intenzionale del soggetto, rendendo il noema una costruzione fenomenologica che dipende dal modo in cui la coscienza percepisce e interpreta la realtà.
Un aspetto comune in entrambe le concezioni, che va sottolineato, è la distinzione tra noema e sensazione. In entrambi i filosofi, il noema non è un semplice dato sensoriale, ma un’entità intellettuale o intenzionale. In Aristotele, il noema si distingue dalla sensazione, perché non è una percezione sensoriale diretta, ma un’intuizione dell’intelletto che percepisce l’essenza o la forma di un oggetto. In Husserl, invece, la distinzione è ancora più netta: il noema è l’oggetto intenzionale della coscienza, che si manifesta indipendentemente dalla mera sensazione fisica. La sensazione può essere il punto di partenza dell’esperienza, ma il noema rappresenta la realtà così come è data alla coscienza nella sua complessità fenomenologica.
L’idea di noema costituisce, pertanto, un esempio illuminante di come i concetti filosofici possano evolvere nel tempo, assumendo significati diversi a seconda del contesto teorico. In Aristotele, il noema è il punto di partenza della conoscenza intellettuale, un’intuizione immediata e indivisibile dell’intelletto. In Husserl, diventa l’oggetto intenzionale di un atto di coscienza, il “pensato” che emerge dall’interazione tra il soggetto e il mondo fenomenologico. Questa evoluzione riflette anche il cambiamento nella concezione della conoscenza: da una visione realista e oggettiva (Aristotele) a una visione fenomenologica e soggettiva (Husserl), dove l’oggetto della conoscenza non è qualcosa di indipendente dalla coscienza, ma qualcosa che si manifesta e prende forma attraverso l’esperienza soggettiva.
Il noema, quindi, non è solo un concetto filosofico, ma una lente attraverso cui osservare il modo in cui la mente umana si relaziona con la realtà, trasformando l’esperienza sensoriale in una comprensione intellettuale o fenomenologica più complessa e articolata.

 

 

 

 

Something

Quel qualcosa che sfugge

 

 

 

 

Something, pubblicata in UK il 31 ottobre del 1969, è una confessione intima, una finestra aperta sul cuore di George Harrison, molto più di una semplice canzone d’amore. In quei 3 minuti sospesi, Harrison dipinge il ritratto di un’emozione che non si lascia mai del tutto afferrare. Something cattura la delicatezza di un amore fatto di incertezze, di attese. È un inno a ciò che non può essere espresso con parole, a quel “qualcosa” che sfugge, persino quando sembra di tenerlo stretto tra le dita.
Quando Harrison canta “Something in the way she moves, attracts me like no other lover”, non sta raccontando solo una storia d’amore. Sta parlando del mistero stesso del sentimento, del modo in cui l’amore riesce a evocare il desiderio e la nostalgia, come il riflesso della luna sull’acqua. La musa ispiratrice, Pattie Boyd, sua moglie all’epoca, è una rappresentazione dell’eterno femminino, del fascino inafferrabile che Harrison non tenta nemmeno di definire. La sua bellezza è un’ombra danzante, una presenza che non si lascia rinchiudere nelle parole, eppure domina ogni nota, come un’eco che risuona nel vuoto.
Musicalmente, la composizione di Something è un capolavoro di equilibrio e armonia. Harrison si allontana dalle sperimentazioni ardite dei Beatles per abbracciare una struttura semplice ma perfetta, quasi come una preghiera recitata a bassa voce. Gli accordi di apertura, in tono maggiore, portano una dolcezza che sfiora la perfezione, mentre le variazioni minori suggeriscono un mesto retrogusto che accompagna ogni parola. L’uso sapiente della chitarra, il timbro leggero e vibrante, fa sì che ogni nota risuoni come una goccia d’acqua che cade su una superficie ferma, creando poi cerchi che si allargano verso l’infinito.
La melodia è un continuo avvicinamento e allontanamento, come un respiro trattenuto, una confessione mai completamente svelata. Le orchestrazioni, dolci e discrete, circondano la voce di Harrison senza mai sovrastarla, lasciando che ogni pausa, ogni sospensione, sia carica di significato. La musica stessa diventa una danza fragile, un tentativo di avvicinarsi a quel “qualcosa” senza mai sfiorarlo davvero.

Dietro la composizione, però, si nasconde una storia di vulnerabilità e desiderio irrisolto. Harrison, spesso descritto come il Beatle “silenzioso”, in Something lascia emergere una parte di sé che raramente si è concessa. Pattie Boyd è l’ispirazione, ma anche l’incarnazione di una bellezza sfuggente, quasi sovrumana. Lei, come il loro amore, diventa un simbolo della tensione tra il desiderio e la malinconia, tra il possesso e l’inevitabile perdita. Pattie rappresenta un amore che non può essere completamente vissuto, che sfugge, che svanisce. È il riflesso di un ideale che si dissolve appena ci si avvicina troppo.
È impossibile ascoltare Something senza percepire il conflitto interiore di Harrison, la sua consapevolezza che ciò che ama è destinato a restare un mistero. C’è una tristezza soave nelle sue parole, una rassegnazione davanti all’idea che certe bellezze non possono essere trattenute, solo osservate da lontano. La canzone si trasforma così in un atto di adorazione silenziosa, una resa alla meraviglia di un sentimento che non si può comprendere né possedere.
In Something, la musica diventa un ponte tra il finito e l’infinito, un filo invisibile che unisce ciò che è umano a ciò che è ineffabile. Ogni nota, ogni pausa sembra voler dire: “Non capirò mai del tutto ciò che amo, ma è proprio in questa incomprensibilità che risiede la sua compiutezza”. È una malinconia che non chiede consolazione, una bellezza che accetta il proprio destino di essere incompleta, ma proprio per questo, eterna.
Alla fine, Something è un pezzo d’arte che va oltre la sua stessa musica. È un tributo alla forza delle emozioni, alla vulnerabilità dell’amore, all’incapacità di afferrare il “qualcosa” che si ama di più. E in questo risiede la sua grandezza: nel suo saper rendere universale il personale, nel trasformare l’esperienza intima di un uomo in un’ode all’amore universale, a tutto ciò che non si può spiegare, ma solo sentire.

Ascolta Something

 

 

 

 

Libertà e redenzione nella Storia

Gioacchino da Fiore a confronto con Sant’Agostino

 

 

 

 

Gioacchino da Fiore, monaco cistercense e mistico originario della Calabria, vissuto tra il 1130 e il 1202, propose una visione escatologica che trasformò profondamente la tradizionale interpretazione cristiana della storia. La sua riflessione teologica si basa su un’interpretazione trinitaria della storia, suddivisa in tre età: l’età del Padre, corrispondente all’Antico Testamento, rappresenta un periodo di legge e di giustizia, in cui il rapporto con Dio è mediato da norme e prescrizioni ed è un’epoca che riflette l’autorità, la disciplina e la distanza tra l’uomo e la divinità; l’età del Figlio, coincidente con il Nuovo Testamento e la venuta di Cristo, identificata quale seconda epoca, quella della grazia e della redenzione, in cui il legame con Dio si fa più vicino e personale grazie a Gesù, ed è un’età che celebra l’amore e la misericordia, pur mantenendo una distanza tra l’uomo e la perfezione divina; l’età dello Spirito Santo, l’età futura profetizzata, in cui l’uomo vivrà in un rapporto di intimità spirituale diretta con Dio, senza la necessità di mediatori o istituzioni ecclesiastiche tradizionali e delinea l’avvento di una libertà spirituale piena, in cui la grazia divina sarà accessibile a tutti in modo diretto, portando a una società rigenerata in cui l’uomo è libero di scegliere il bene.


In contrapposizione, Sant’Agostino concepisce la storia come un percorso che non conosce una terza “età” di redenzione collettiva sulla Terra, ma che è piuttosto segnata da una tensione continua tra la Città di Dio e la Città dell’Uomo. Per Agostino, il tempo storico è una lotta ininterrotta tra il bene e il male, fino alla conclusione escatologica nel Giudizio Universale. In questo senso, l’idea agostiniana della storia è lineare e meno ottimistica, poiché la vera salvezza è raggiungibile solo nell’eternità e non all’interno del processo storico.
Gioacchino, poi, elabora una concezione della libertà umana che appare decisamente innovativa per il suo tempo. Vede l’uomo come dotato di un libero arbitrio che può esercitarsi in modo attivo e positivo, contribuendo al progresso spirituale dell’umanità. Questa libertà è il fondamento della “collaborazione” umana con il progetto divino: l’uomo, secondo Gioacchino, non è solo soggetto passivo, ma un co-creatore della storia sacra. Questo approccio riflette una fiducia nell’uomo e nel suo potenziale per raggiungere una vera emancipazione spirituale. Al contrario, Agostino concepisce la libertà dell’uomo come limitata dalla sua natura corrotta a causa del peccato originale. Secondo il vescovo d’Ippona, ogni essere umano è segnato dalla condizione di peccatore e senza la grazia divina non è in grado di scegliere il bene supremo. La sua libertà è dunque circoscritta: senza il dono della grazia, la volontà dell’uomo tende naturalmente verso il peccato. Agostino sostiene che il libero arbitrio non è realmente libero, poiché è incline al male e necessita dell’intervento di Dio per trovare la vera libertà nella salvezza.
Gioacchino, quindi, ha una visione ottimistica della libertà umana, che include la capacità di scegliere attivamente il bene e di contribuire al progresso spirituale della storia. La libertà non è solo individuale ma collettiva e proiettata verso un futuro di rigenerazione spirituale. Agostino, invece, propugna una visione pessimistica della libertà, che si trova solo nell’adesione alla grazia divina e nella lotta contro l’inclinazione naturale al peccato. La libertà agostiniana è essenzialmente una scelta di adesione alla volontà di Dio più che una libertà di autodeterminazione.
Gioacchino immagina una rigenerazione collettiva che coinvolge l’intera umanità in una dimensione comunitaria e universale. La sua visione dell’età dello Spirito Santo comporta un’umanità che sperimenta una libertà nuova e condivisa, senza necessità di mediazioni ecclesiastiche. L’uomo, secondo Gioacchino, raggiunge Dio direttamente, in una sorta di illuminazione interiore e sociale. In quest’ottica, l’idea di libertà è legata a una visione di progresso collettivo, con la Chiesa che si evolve da struttura di controllo a strumento di unione spirituale. Per Sant’Agostino, invece, la Chiesa rappresenta un elemento fondamentale e indispensabile per la salvezza. Egli sostiene la centralità della Chiesa come corpo mistico e veicolo di grazia, attraverso cui l’individuo può entrare in comunione con Dio. La libertà è dunque personale e individuale, vissuta all’interno della comunità ecclesiastica ma con un’enfasi sulla salvezza dell’anima individuale.
Le idee di Gioacchino da Fiore, incentrate sulla libertà umana e sulla possibilità di una trasformazione storica dell’umanità, hanno esercitato un’influenza profonda nel Medioevo e nei secoli successivi. La sua visione di un’età dello Spirito Santo ha ispirato molti movimenti millenaristici e riformatori, che intravedevano in essa la promessa di un’umanità rinnovata e di una Chiesa rigenerata. Alcuni gruppi spirituali e mistici, come i Francescani spirituali, hanno adottato queste idee, vedendo nella loro epoca l’inizio della nuova età profetizzata da Gioacchino.
La teologia agostiniana, al contrario, ha dato una base solida alla dottrina cattolica, mantenendo centrale l’idea di una libertà umana subordinata alla grazia. Il pessimismo antropologico di Agostino è diventato un pilastro della visione cattolica dell’uomo e della sua relazione con Dio. La sua concezione del peccato originale e della dipendenza dell’uomo dalla grazia divina ha influenzato profondamente il pensiero cristiano, anche nella Riforma protestante, dove l’accento sulla corruzione umana e sul bisogno della grazia rimane centrale.

 

 

 

 

Scrittura e sapere

Il conflitto tra memoria, dialogo e verità
in Socrate, Platone e Aristotele

 

 

 

 

L’antico dibattito filosofico sulla scrittura non è solo un’analisi di un mezzo di comunicazione, ma è una riflessione profonda sul valore della conoscenza, della memoria e della natura stessa del sapere umano. Socrate, Platone e Aristotele, ciascuno a suo modo, hanno esplorato le implicazioni filosofiche della scrittura, consegnando una visione articolata e complessa del rapporto tra la parola scritta e l’anima.
Socrate, com’è noto, non ha lasciato nulla di scritto. Questo fatto, apparentemente secondario, ha un significato filosofico profondo. La sua attività era interamente basata sull’oralità, sul dialogo e sull’interazione diretta con l’interlocutore. Per Socrate, il sapere non era un deposito statico di informazioni, ma un processo dinamico, un’esperienza che si svolge nel vivo del dialogo tra esseri umani. Il testo scritto, al contrario, era visto come qualcosa di inerte, incapace di rispondere, di chiarire, di difendersi. Un testo non può correggere le sue ambiguità o spiegare le sue intenzioni se interrogato; rimane lì, chiuso nella sua fissità, come una statua silenziosa. Secondo Socrate, inoltre, la vera conoscenza non poteva essere consegnata alla scrittura perché questa non possiede l’anima, non vive. Essa rappresenta, piuttosto, un residuo del sapere, una traccia muta che non può essere messa in discussione né può crescere. La scrittura, in questa visione, non è altro che un simulacro, un’imitazione morta del vero dialogo filosofico, dove l’apprendimento nasce non dalla lettura passiva, ma dal confronto attivo tra persone.
Platone, pur avendo trascritto i dialoghi di Socrate, è a sua volta critico della scrittura. Nel suo dialogo Fedro, fa raccontare a Socrate il mito egiziano di Theuth, il dio che inventò la scrittura. Quando Theuth presentò la sua invenzione al re Thamus, sostenendo che essa avrebbe aumentato la memoria e la sapienza degli uomini, il re rispose con un giudizio severo: la scrittura, piuttosto che rafforzare la memoria, l’avrebbe indebolita. Gli uomini, infatti, avrebbero smesso di esercitare la memoria, affidandosi a un supporto esterno. La scrittura, inoltre, blocca il gioco dialogico, quello spazio interattivo in cui il sapere prende forma attraverso il confronto e la confutazione. Scrivere significa cristallizzare le idee in una forma che le rende non più malleabili, non più aperte alla discussione. Platone, quindi, suggerisce che le verità più alte non possano essere catturate dalla scrittura, perché essa riduce la profondità del pensiero a formule accessibili a chiunque, anche a coloro che non possiedono la preparazione intellettuale necessaria per comprendere pienamente la complessità delle idee filosofiche. La scrittura, secondo Platone, è un aiuto per la memoria, ma non per l’intelligenza: essa conserva, ma non crea. Ecco perché, nelle sue opere, Platone non si limita a presentare idee, ma costruisce dialoghi che simulano la vivacità e l’immediatezza del discorso orale.


Con Aristotele, la riflessione sulla scrittura assume una forma diversa. Egli riconosce che il pensiero umano, per essere comunicato, necessita di simboli: parole che rappresentano concetti e a loro volta simbolizzate dalla scrittura. La scrittura, in questa prospettiva, non è più vista come un semplice mezzo passivo, ma come un sistema di segni che permette di estendere la portata del pensiero. In tal modo, Aristotele accetta l’inevitabilità della scrittura come mezzo per trasmettere conoscenza, pur riconoscendone i limiti. L’atto dello scrivere, secondo Aristotele, implica l’attribuzione a un oggetto materiale (ad esempio, un libro) del ruolo di “supplemento” dell’anima. Il libro diventa una sorta di specchio dell’anima, un supporto che rende visibili i pensieri invisibili, ma che non li sostituisce. L’anima rimane, quindi, il vero centro del sapere, mentre la scrittura funge solo da ponte, da intermediario tra il mondo dell’interiorità e il mondo esterno. In questo senso, Aristotele si confronta con il problema del dualismo spirito-materia: la scrittura è un tentativo di colmare la distanza tra il mondo sovrasensibile dell’anima e il mondo sensibile delle cose, ma questo tentativo, per sua natura, non potrà mai essere completo. La parola scritta è un simbolo, un riflesso, e come tale porta con sé una distanza irriducibile dall’esperienza diretta del pensiero.
La scrittura, dunque, si colloca in una posizione paradossale all’interno della tradizione filosofica. Da un lato, rappresenta un’opportunità: permette di fissare il sapere, di renderlo accessibile a una platea più ampia, di estendere la memoria oltre i limiti del singolo individuo. Dall’altro lato, è vista come un pericolo, una forma di alienazione del pensiero umano, che rischia di diventare qualcosa di esteriore, di manipolabile e di fraintendibile. La scrittura, in ultima analisi, è sempre un compromesso: è una forma di comunicazione che, pur cercando di rivelare, inevitabilmente nasconde. Le parole scritte, fissate su un supporto materiale, sono destinate a perdurare oltre la vita dell’autore, ma al tempo stesso non possono mai restituire l’interezza e la complessità della viva voce.
Il dibattito antico sulla scrittura ci invita a riflettere sulla natura della conoscenza e sull’equilibrio tra memoria e oblio, tra il detto e il non detto, tra il visibile e l’invisibile. La scrittura è, come avrebbe detto Jacques Derrida secoli dopo, un pharmakon: insieme cura e veleno, medicina che salva dalla dimenticanza ma che, al tempo stesso, annulla la vitalità del sapere. Il rischio, sottolineato dai filosofi antichi, è che il sapere scritto si trasformi in una verità morta, dogmatica, incapace di rispondere alla sfida del pensiero critico.
Alla luce di queste riflessioni, la scrittura si rivela come un tema di inesauribile profondità filosofica. Da Socrate ad Aristotele, la tensione tra parola viva e parola scritta attraversa la storia del pensiero occidentale, mostrando come la filosofia stessa sia, in fondo, un tentativo di colmare il divario tra l’anima e il mondo, tra l’esperienza interiore e la realtà esterna. La scrittura, lungi dall’essere un semplice strumento, diventa così un campo di battaglia filosofico, dove si scontrano la ricerca della verità e la paura della sua distorsione. Essa, in ultima analisi, rappresenta il tentativo umano di dare forma all’informe, di rendere visibile ciò che altrimenti rimarrebbe nascosto nell’intimità della coscienza.