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Dio, il re e il cavaliere

L’epica medievale e le chansons de geste

 

di

Riccardo Piroddi

 

 

Mentre la Letteratura Italiana sonnecchiava ancora a letto, raggomitolata tra le coperte, quelle nelle altre due lingue più simili all’italiano, la francese e la spagnola, si erano già alzate, lavate, vestite e stavano facendo colazione con pane, burro, marmellata e un cappuccino bollente. I francesi e gli spagnoli, a partire dall’XI secolo, cominciarono a produrre opere letterarie di altissimo livello: in Spagna e Francia settentrionale, le cosiddette Chansons de geste (canzoni di gesta) e i romanzi cortesi; in Francia meridionale, invece, la splendida poesia, soprattutto amorosa, dei trovatori. Non che gli spagnoli e i francesi del nord fossero meno galanti con le donne, che gli piacesse di più fare la guerra o che portassero i pantaloni più lunghi dei provenzali, ma, condizioni storiche e linguistiche diverse tra queste regioni, causarono lo sviluppo di generi letterari diversi. carlomagnoNella Francia settentrionale, fin dal V secolo, c’erano stati i Franchi la cui presenza aveva prodotto effetti anche sul francese antico. A Sud, al contrario, le popolazioni locali avevano interagito poco con gli invasori e con la loro lingua. Accadde, quindi, che, col tempo, si formassero due lingue, sempre francesi, ma un po’ diverse tra loro: la lingua d’oil, o oitano, a nord, e la lingua d’oc, o occitano, a sud. Queste erano chiamate lingue del sì perché, se un cavaliere avesse chiesto a una principessa di Parigi di uscire con lui, lei gli avrebbe risposto oil, cioè sì. Se a chiederlo fosse stato un cavaliere di Montpellier alla dama vicina di castello, questa gli avrebbe risposto oc, cioè, sempre sì. Se glielo avessi chiesto io, tutt’e due mi avrebbero risposto no e basta, e, siccome non so come si dice “no e basta” in oitano e in occitano, lasciamo perdere e andiamo avanti. Per quanto riguarda la penisola Iberica, gli arabi che vi erano giunti agli inizi dell’VIII secolo, non avevano creati troppi stravolgimenti alla lingua degli abitanti di quelle terre, se non l’introduzione di parole nuove e qualche cambio di accento nella pronuncia di quelle in uso. Roba da poco, quindi.Song-of-Roland-778

Le chansons de geste, scritte in lingua d’oil in Francia settentrionale, erano poemi epici in versi, detti canzoni perché i giullari (che non erano soltanto rozzi comici, saltimbanchi o clown, come spesso sono raffigurati, ma dei veri e propri lettori Mp3 umani, istruiti e colti), girovagando per le piazze delle città e per i castelli, narravano, cantando, spesso accompagnati da un’orchestrina, viella, lira, flauto, tamburelli e campane, storie che impressionavano e appassionavano molto nobili e popolani. Dalla viva voce di un giullare si potevano ascoltare le avventure e le gesta di re, paladini, cavalieri e uomini coraggiosissimi; pericoli, disastri, fortune e sfortune; fughe, tradimenti e morti ammazzati; teste che saltavano dai colli e fiotti di sangue che schizzavano da tutte le parti; guerre e battaglie, combattute in casa e in trasferta, contro infedeli, feudatari rivali e nemici di ogni genere. Quando, poi, quegli stessi giullari, o i monaci, oppure altri volenterosi, cominciarono a mettere quei racconti cantati per iscritto, ordinandoli per argomenti (i cosiddetti cicli carolingio e bretone o arturiano) e personaggi, furono così gentili da permetterci, ancora oggi, di poterli leggere.

La Chanson de Roland 

Il poema epico più famoso di tutti, la cui materia sarebbe stata ripresa anche in Italia da Matteo Maria Boiardo e da Ludovico Ariosto, è la Chanson de Roland. Questa canzone, appartenente al ciclo carolingio, fu composta, intorno al 1100, da un certo Turoldo. Conosciamo il suo nome perché, all’ultima pagina, lui stesso mise la firma, concludendo così: “La gesta scritta qui da Turoldo ha fine”. L’autore prese spunto da un fatto realmente accaduto: la battaglia di Roncisvalle, combattuta il 15 agosto del 778. Mort_de_RolandLa retroguardia dell’esercito di Carlo Magno, comandata dal paladino Rolando, fu attaccata e annientata dai baschi, alleati dei saraceni. Turoldo amplia questo episodio, raccontando una lunghissima storia. Re Carlo combatteva vittoriosamente i mori in Spagna. Soltanto la città di Saragozza gli resisteva e non gli si voleva arrendere in nessun modo. Il re saraceno Marsilio mandò i suoi ambasciatori da Carlo, giurandogli di volersi convertire al Cristianesimo e di diventare suo vassallo. Era solo un inganno. Rolando, più furbo di tutti, capì il trucco e suggerì al suo sovrano di ignorare le proposte del nemico, continuando, piuttosto, a combatterlo, fino alla presa definitiva di Saragozza. L’infame conte Gano, tanto invidioso di Rolando da non vedere l’ora di farlo fuori, si oppose e, con lui, la maggior parte del Consiglio di guerra. Su proposta di Rolando, quindi, proprio Gano fu inviato al campo dei mori per trattare, con il loro re, le pesantissime condizioni di resa imposte da Carlo. Mentre vi si dirigeva, pensò di tradire il suo re e, in un colpo solo, di eliminare anche Rolando. Il perfido conte propose a Marsilio di far finta di accettare quanto ordinato dal re cristiano. Così fu fatto. Carlo Magno e il suo esercito abbandonarono la città, lasciandosi alle spalle la sola retroguardia, capitanata da Rolando, con i Dodici Pari e 20.000 soldati. Quando il grosso delle truppe aveva già oltrepassato la gola di Roncisvalle, Marsilio tese l’agguato al valoroso paladino e ai suoi uomini. Rolando, nonostante la malaparata, si rifiutò di suonare l’olifante, il corno il cui suono avrebbe richiamato Carlo e il resto dell’esercito. Fece, pertanto, la fine del topo in trappola, morendo con le mani giunte sul petto, come un buon cristiano. Il re franco, comunque, tornò indietro in tempo per sbaragliare i mori, disperderli e inseguirli fino a che tutti si gettassero nel fiume Ebro, annegando. Tornato ad Aquisgrana, processò il lurido Gano, ordinando che fosse legato a quattro cavalli, due alle gambe e due alle braccia. Il traditore fu squartato. Rolando era stato vendicato. Molto tempo dopo, quando Carlo aveva più di duecento anni, una notte gli apparve in sogno l’Arcangelo Gabriele. chanson-roland-roncevauxQuesti gli annunziò l’immediata partenza per Infa, dove avrebbe dovuto aiutare il re Viviano a combattere altri mori. Così finì la storia. Turoldo, come è chiaro, aggiunse molti elementi fantasiosi alla realtà dei fatti. Questo perché egli doveva, non soltanto intrattenere chi lo ascoltasse, ma, soprattutto, mostrare loro esempi retti da seguire.  Gli eroi di queste canzoni di gesta erano un po’ come i personaggi della televisione di oggi: tutti volevano e, soprattutto, dovevano essere come loro. Le canzoni di gesta erano caratterizzate dalla presenza e dalla messa in onda di precisi valori: la lealtà verso il sovrano, la fede in Cristo, il senso dell’onore e l’eroismo in battaglia. Tutto racchiuso in un ineluttabile destino, scritto da sempre, che non lasciava ai protagonisti alcuna possibilità di azione personale: o erano e agivano in quel modo, oppure, avrebbero dovuto fare i bagagli e trasferirsi in qualche altro tipo di opera. O mangi ‘sta minestra, o ti butti dalla finestra, in sostanza! In un’epoca dominata esclusivamente dal Cristianesimo e dalla sua morale, questi erano i messaggi pubblicitari che le emittenti cartacee diffondevano via manoscritto: i re dovevano sembrare più o meno come Gesù; i paladini, sempre dodici, gli apostoli; non mancava mai il Giuda di turno; i morti in battaglia erano tutti martiri e quelli più importanti, santi; ogni combattimento diventava una vera e propria guerra santa; pentimenti finali e conversioni al Cristianesimo, l’epilogo necessario. Era come leggere il Vangelo e gli Atti degli Apostoli con i nomi dei protagonisti sostituiti. Altri poemi del ciclo carolingio sono la Chanson de Guillaume, dedicata alla saga di Guglielmo d’Orange e della sua famiglia, a salire e a scendere, cioè, prima e dopo di lui; il Renaut de Montauban; il Girart de Roussillon e il Pelérinage Charlemagne. Un posto particolare occupano le canzoni di Crociata, nelle si esaltavano le gesta dei cavalieri occidentali nelle guerre per liberare il Santo Sepolcro, a Gerusalemme: la Chanson d’Antioche e Le Chevalier au cygne (il Cavaliere del cigno), quel Goffredo di Buglione, comandante dell’esercito cristiano nella Prima Crociata. Di tutte queste, però, non vi racconto le trame altrimenti, se state leggendo di pomeriggio, fate notte, se, invece, è già sera, fate mattina.

Il Cantar de mio Cid

Giusto per rimanere nell’epica, c’è un altro poema, non in Francia, ma in Spagna, di cui vi voglio parlare: il Cantar de mio Cid. Vi sono narrate le imprese eroiche di Roderigo Diaz de Bivar, altrimenti detto El Cid Campeador, vissuto tra il 1043 e il 1099. La storia, o meglio, la canzone, prende avvio quando Roderigo fu accusato di aver sgraffignato una parte dei tributi che il re dei mori di Andalusia doveva ad Alfonso VI di León. Per questo, fu mandato in esilio. Lasciò la moglie Jimena e le figlie nel monastero di Cardeña, per paura che qualcuno potesse insidiarle, e, alla testa di molti altri cavalieri, si mise a far la guerra ai mori. Conquistò Valencia e cacciò il re di Siviglia, ottenendo, alla fine, il perdono del re. Per dimostrargli ulteriore gratitudine, il sovrano benedisse il matrimonio delle sue due figlie, Elvira e Sol, con i conti di Carrión.22 Questi due perdigiorno, però, ogniqualvolta c’era da andare a combattere se la prendevano con le mogli, frustandole e, poi, squagliandosela. Il Cid, stanco delle angherie subite dalle figlie, chiese giustizia a re Alfonso che inviò i suoi soldati ad ammazzare quei due mariti violenti. Le giovani si risposarono, una col figlio del re di Navarra, l’altra con quello del re d’Aragona, Tutti furono invitati ai due matrimoni e il povero Cid Campeador, eroe di tante battaglie, dovette chiedere un prestito in banca per pagare le ingentissime spese, perché, allora, le spese del banchetto nuziale e dei musici erano a carico del padre della sposa. Anche questo poema, tra i primissimi documenti della letteratura spagnola, celebrava quei valori comuni a tutta l’epica: la fede in Dio, la devozione al proprio re, la lotta agli infedeli, l’onore e l’eroismo. Due piccoli tip linguistici sull’appellativo di Roderigo Diaz: Cid deriva dalla parola araba sayyd, che vuol dire signore; Campeador, invece, è di provenienza latina, da campi doctor, maestro, o anche campione, sul campo di battaglia. Esempi di parole arabe e latine entrate in uso, ovviamente adattandosi, nella lingua spagnola, così come, casi lessicologici analoghi, sono presenti in tutte le lingue dei territori dominati, fino a qualche secolo prima, dall’aquila di Roma.

 

 

E le stelle restarono a guardare?

 

 

La letteratura in latino dall’età tardo-antica all’alto Medioevo

 

 

Mi è capitato, non ricordo dove e nemmeno chi sia stato l’ideatore di questa bellissima metafora, di aver letto che il Medioevo è stato sì una notte, ma piena di stelle. In effetti, dalla caduta dell’Impero Romano fino almeno agli inizi dell’XI secolo, l’Europa non conobbe un periodo felice. Sembrava come se gli abitanti del mondo allora conosciuto, con le loro paure, i loro affanni quotidiani, la loro fame e sete, le loro malattie e i loro pochissimi momenti di gioia, fossero quasi scomparsi, per riapparire dopo circa quattrocento anni. Ma, allora, cosa accadde, almeno in campo culturale, tra il VI ed il X secolo dell’era Cristiana? E chi furono le stelle che, seppure debolmente, illuminarono quella notte? 330px-GiorcesBardo42Modifichiamo giusto un pochino la metafora, rimanendo, però, sempre nell’ambito della luce, e diciamo che il mondo romano portò in dote al Medioevo degli ottimi oli per caricare lampade e rischiarare la notte. Al primo posto di questa particolare classifica si piazzò Publio Virgilio Marone (immagine a sinistra). L’autore dell’Eneide, delle Bucoliche e delle  Georgiche fu considerato grandissimo poeta, immagine di civiltà, maestro di stile e, soprattutto, profeta del Cristianesimo perché, nell’Ecloga IV, predisse la nascita di un puer, un fanciullo che avrebbe annunciato una nuova Età dell’Oro, nascita che fu scambiata per quella di Cristo (la fortuna dei malintesi!). o-OVIDIO-facebookAl secondo posto, Publio Ovidio Nasone, poeta e scrittore, le cui opere  furono  messe  al  bando  dall’imperatore  Augusto  in persona perché giudicate troppo spinte (vorrei fargli leggere i libri di Melissa P. e vedere come reagirebbe questo Augusto!). Ovidio (immagine a destra) scrisse un’Ars Amatoria, nella quale raccontò le raffinate passioni sessuali dei cortigiani di Augusto (non sapeva proprio dove andare a ficcarlo il suo nasone!); le Heroides, ventuno lettere infuocate spedite da eroine della mitologia ai loro amanti, e Le Metamorfosi, opera che trasferì al Medioevo una grande quantità di notizie su dèi, dee, mezzi dèi, mezze dee e poveri cristi. Al terzo posto, a pari merito, Quinto Orazio Flacco, autore di Satire sui più comuni vizi umani: l’ambizione, l’avidità di ricchezza e il desiderio di fare presto carriera, e Marco Anneo Lucano, il narratore della Farsaglia, con cui rese conto della guerra civile tra Cesare e Pompeo, schiettamente, in modo fedele alla storia, senza favolette e trucchetti degli dèi, da qualche altro autore fatti scendere dall’Olimpo, sulla Terra, per farsi gli affari degli uomini. Al quarto posto, Publio Papinio Stazio, che in 12 anni di lavoro scrisse i 12 libri della Tebaide, uno all’anno, illustrando la guerra tra Eteocle e Polinice, mitici figli di Edipo e Gioacasta, e re di Tebe ad intervalli di un anno ciascuno. ciceroneE infine, last but not least, come dicono gli inglesi, Publio Terenzio Afro, autore di commedie, tanto per ridere un po’. Piazzamenti d’onore spettarono, poi, a Marco Tullio Cicerone (immagine a sinistra), maestro insuperabile di retorica, di stile e di cazziatoni etici e morali a destra e a sinistra, e a Lucio Anneo  Seneca,  precettore  e  consigliere  di  Nerone  (con scarsissimi risultati, se si tengono a mente i macelli che combinò, poi, l’imperatore), autore di opere filosofiche, scientifiche e di tragedie teatrali, il cui pensiero fu considerato integralmente cristiano perché qualcuno mise in giro la voce che si scambiasse lettere addirittura con San Paolo. Ammazza! E, a proposito di santi, non si possono non citare Sant’Agostino, vescovo di Ippona, filosofo, martello degli eretici, padre e dottore della Chiesa, e San Girolamo, anch’gli padre (figlio e spirito santo, amen!) e dottore della Chiesa, scrittore e studioso della Bibbia così bravo che, per la prima volta nella storia, la tradusse tutta quanta in latino.

scriptorium

Sant’Agostino

Aurelio Agostino, in quasi quarant’anni di vita, da quando, cioè, smise di godersela come un balordo, fino a poco prima della morte, sopraggiunta nel 430 dopo Cristo, scrisse opere importantissime per l’avvenire del Cristianesimo e della Chiesa: agostinoLa vita felice (questa, forse, non troppo importante), I soliloqui, L’immortalità dell’anima, Il libero arbitrio, Le Confessioni, La dottrina Cristiana, Contro i Manichei, Contro i Donatisti, Contro Pelagio, La Città di  Dio  e le  Ritrattazioni,  giusto  se,  casomai,  avesse  tralasciato qualcosa o scritto qualche stupidaggine. Cercò di avvicinare la filosofia platonica e neoplatonica al Cristianesimo, si impegnò, in prima persona, con prediche, scritti e pure qualche spiata, contro gli eretici e contro le eresie, che stavano lacerando la Chiesa delle origini. Formulò dottrine universali sul peccato originale, sulla grazia divina, sulla predestinazione e sul libero arbitrio. Anche se in gioventù non fu proprio uno stinco di santo, la Chiesa ce lo fece lo stesso e lo festeggia ogni 28 agosto.

San Girolamo

Sofronio Eusebio Girolamo, al contrario di Gesù Cristo che vi nacque, a Betlemme, dove aveva fondato tre o quattro conventi, ci morì, nel 420. Parlava correntemente latino, greco ed ebraico, lingue che gli furono molto utili quando decise di tradurre la Bibbia in latino, intitolandola, poi, Vulgata, dall’espressione vulgata editio, vale a dire, edizione per il popolo. Fu una grande trovata editoriale che vendette tantissime copie, divenendo, in brevissimo tempo, un best seller per soli ricchi, però. biblia-vulgataUna copia manoscritta della Vulgata, infatti, specialmente se miniata e glossata da qualche commentatore alla moda, almeno fino all’invenzione della stampa, nel XV secolo, costava quasi mezzo feudo. Girolamo aveva un caratteraccio e litigava in continuazione con “chicche e sia”, fossero questi sprovveduti, dotti, santi o peccatori, ma, in fondo in fondo, voleva bene a tutti, soprattutto alla gente comune. Per questo, elaborò una versione del massimo Testo Sacro cristiano facile da capire, usando, non la lingua dei letterati, ma quella di chi non aveva mai aperto un libro. Tradusse l’Antico Testamento dall’ebraico e il Nuovo dal greco, anche se, diciamo la verità, fece un po’ il furbo perché, in alcuni punti, rivide e corresse antiche traduzioni. La Chiesa, comunque, glielo perdonò e decretò di festeggiarlo ogni 9 maggio. Con Agostino e Girolamo può dirsi chiusa la cosiddetta età tardo-antica. Il sole che aveva dato luce al mondo classico tramontò e scese la notte, ma, in cielo, cominciarono a sorgere le prime stelle: Boezio e Cassiodoro.

Boezio

Se c’è stato uno sfigato come pochi, nella storia della cultura occidentale, bene, questi è Boezio. Un uomo che conobbe il successo personale più grande ma anche, e soprattutto, la miseria più nera. Anicio Manlio Severino Boezio nacque a Roma, intorno al 480, da una illustrissima famiglia, la gens Anicia. Sin da subito, la sua vita fu una collezione di guai e disgrazie. Neppure fanciullo, passò il primo guaio: il padre morì e fu affidato a un tutore, Aurelio Simmaco, di cui, poi, sposò la figlia, Rusticana, il secondo guaio, perché era una donna che non stava mai zitta e parlava, parlava, parlava, parlava. Parlava e ancora parlava! Quando il re degli Ostrogoti, Teodorico, conquistò l’Italia e si stabilì, con tutta la corte, a Ravenna, vi chiamò molti nobili di Roma, tra cui Boezio. Lì, fece una carriera brillantissima: fu eletto console e, poi, Magister officiorum, la più alta carica dello Stato. BoethiusCon una buona raccomandazione (le cose, in Italia, funzionavano così già 1500 anni fa!), fece eleggere consoli anche i due figli, Flavio Simmaco e Flavio Boezio. Tutto questo successo, personale e familiare, però, fu anche la sua rovina (il Signore dà e il Signore prende!), perché si tirò addosso l’invidia dei colleghi. In seguito a una soffiata, piena di falsità, infamità e bugie, fu accusato di ordire trame contro Teodorico. Il re ci credette, lo fece rinchiudere in carcere a Pavia e decapitare, dopo che gli furono strappati pure gli occhi. Capito un po’? Nel corso della vita, il nostro sfortunato romano scrisse molte cose. Tuttavia, il progetto a cui si impegnò di più fu la traduzione di tutte le opere di Platone e Aristotele, per dimostrare al mondo che, sotto sotto, i due famosissimi filosofi avevano detto quasi le stesse cose. Purtroppo, però, causa disgrazie, riuscì a tradurre soltanto parte degli scritti di logica di Aristotele e l’Isagoge di Porfirio. E, pure in quest’ultimo caso, la combinò grossa: alcuni passi del trattatello di questo discepolo del filosofo neoplatonico Plotino, infatti, qualche secolo dopo, avrebbero dato origine alla famosissima Disputa sugli universali, nel corso della quale il fior fiore dei filosofi, dei professori e degli uomini di cultura del Basso Medioevo avrebbero litigato a male parole e a librate! L’opera che gli permise di diventare uno degli autori più letti di tutto il Medioevo, e non solo, fu il De consolatione Philosophiae (La consolazione della Filosofia), scritta durante i due anni in galera. Una donna un po’ anziana, la Filosofia, apparve all’autore nella sua fredda cella con le pareti fradice: “Ma, dico io,” rimuginò, “non mi si poteva parare davanti una bella attrice, tipo Sharon Stone?”. L’attempata signora, per consolarlo, perché era proprio giù di morale, gli rammentò che lui non fosse l’unico disgraziato a passare tutti quei guai. Anzi, gli disse: “Uno più è sapiente, più sono sventure e malesorti!”. Il poveretto, allora, le elencò tutti i suoi guai e dolori vari, commuovendola così tanto, da farla scoppiare a piangere. Quando smise, riuscì soltanto a rispondergli: “Mio caro, povero Boezio, la vera felicità non è contenuta nell’avere soldi, potere, dieci cameriere, un garage pieno di macchine fuoriserie e un fusto di birra il cui rubinetto spilla all’infinito! La vera felicità coincide con Dio, verso cui bisogna tendere, se si vuole essere veramente felici!”. “Ma questa ci è venuta o ce l’hanno mandata?”, borbottò, tra i denti, il miserabile. Poi, le chiese: “Scusate, signora. Come mai, allora, le cose buone vanno sempre ai cattivi e agli imbroglioni e le persone perbene come me rimangono con i manici delle scope in mano?”.  “Quelli non sono veri beni”, rispose, “e le disgrazie sono utili per la salvezza della tua anima.” “L’anima tua e della tua consolazione, Filosofì!”, pensò.

Cassiodoro

Una sorte decisamente migliore perché, almeno, morì nel suo letto, toccò a Cassiodoro. Flavio Magno Aurelio Cassiodoro Senatore (finalmente abbiamo finito col nome!) nacque a Squillace, in Calabria, nel 490. Il suo casato, prestigiosissimo e onoratissimo, era imparentato con quello di Boezio. Anche all’epoca, si faceva tutto in famiglia e, alla corte di Teodorico, lo sostituì come Magister officiorum. Cassiodoro fu più furbo del suo parente. Gesta_Theodorici_-_Flavius_Magnus_Aurelius_Cassiodorus_(c_485_-_c_580)Per accattivarsi le simpatie di re Teodorico, gli dedicò l’Historia Gothica (Storia dei Goti), dove ripeté tante volte che il sovrano ostrogoto era il migliore del mondo e che gli Ostrogoti erano i barbari meno barbari di tutti. Ritiratosi dalla vita politica con una buonissima pensione, raccolse tutti i documenti, elaborati durante i suoi uffici a corte, pubblicandoli in un libro, intitolato Variae, a causa dei vari argomenti che conteneva. Scrisse anche le Institutiones divinarum et saecularium litterarum (Istituzioni delle lettere sacre e profane), una dottissima introduzione allo studio delle Sacre Scritture e delle arti liberali, molto letta nei secoli successivi. Fondò pure un monastero, a Vivario, non lontano da casa e, all’età di 92 anni, invece di mettersi definitivamente a riposo, scrisse il trattato De orthographia (L’ortografia) per evitare che i monaci, mentre trascrivevano manoscritti e  codici antichi nello scriptorium del suo convento, copiassero una cosa per un’altra.

Isidoro di Siviglia

Spostiamoci un attimo in Spagna per conoscere un altro grand’uomo di questo periodo: Isidoro di Siviglia. downloadNato verso il 560, proveniva da una famiglia di bravissime persone: i tre fratelli, Leandro, Fulgenzio e Fiorentina, furono tutti beatificati e lui, fu fatto addirittura santo. Si dice anche che egli stesso convertì al Cristianesimo i Visigoti conquistatori della Spagna. Fu vescovo di Siviglia e scrisse opere di storia, di grammatica e anche un’enciclopedia. Nel suo capolavoro, le Etymologiae, in venti libri, riunì tutte le conoscenze del suo tempo, prendendo spunto dall’origine delle parole. A lui, infatti, si deve il motto secondo cui “nomina (e cognomina, aggiungo io) consequentia rerum sunt” (i nomi sono conseguenza delle cose), per cui, chi si chiama Rosa, dev’essere bella come il fiore, chi si chiama Serena, dev’essere calma e tranquilla, chi Orso, un po’ animalesco, chi per cognome ha Bassi, forse non sarà tanto alto, e chi Casini, o è un pasticcione o va con le donne di malaffare.

 

 

 

Icone della Via Christi nella chiesa
di Santa Maria Maggiore in Bussolengo

 

 

di Carmela Puntillo

 

 

Dal 2017, nell’ala nuova della chiesa di Santa Maria Maggiore in Bussolengo è stata allestita una “Via Christi”, una serie di icone che ricordano momenti salienti della vita di Gesù, anche oltre gli episodi della sua passione e morte. Con l’idea di realizzare una moderna “Via Crucis” si è voluto portare un certo numero di “rappresentazioni della fede” e di “colori dello Spirito” nella navata moderna, in un percorso che ora si snoda più armoniosamente nelle due costruzioni, cercando di creare un legame…

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Il Canto XXVIII del Paradiso

 

di Carmela Puntillo

 

 

LEZIONE DEL CENTRO SCALIGERO DEGLI STUDI DANTESCHI

CANTO XXVIII DEL PARADISO: SPIEGAZIONE E COMMENTO

15/11/2021

 

 

Il canto è di quelli proverbialmente teologici piuttosto sopportati che ammirati dagli specialisti. È generalmente suddiviso in quattro parti: la prima comprende i versi 1-39 con la visione del pellegrino Dante nel Primo Mobile, in particolare dei nove cerchi concentrici di fuoco, dove sono raffigurate le nove schiere angeliche, ruotanti intorno al minuscolo ma luminosissimo punto che rappresenta la Divinità…

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Il legato di Innocenzo III e la soluzione ai problemi di oggi

 

 

 

Agli inizi del ‘200, in quella regione della Francia meridionale chiamata, all’epoca, Linguadoca, poiché vi si parlava la lingua d’oc, la lingua delle poesie dei trovatori e dell’amor cortese, imperversava, dal punto di vista della Chiesa Cattolica Romana, la tremenda eresia catara. Questa postulava il dualismo teologico, ovvero l’esistenza di due divinità, un Dio malvagio e un Dio buono. I catari ritenevano che il mondo materiale fosse l’inferno, che il corpo degli uomini fosse stato creato dal Dio malvagio e l’anima, invece, dal Dio buono. La salvezza, credevano, avvenisse attraverso Gesù Cristo: egli avrebbe rivelato la verità, liberato gli spiriti imprigionati nei corpi e indicato la via per giungere al Dio Buono. Codeste dottrine, unite al rifiuto in toto dei beni materiali e di tutte le espressioni della carne, risultarono terribilmente pericolose agli occhi di Sua Santità Innocenzo III (immagine a destra) e dell’establishment cattolico. Il papa, quindi, si prodigò alacremente per sterminare i catari ed estirpare, così, il loro credo velenoso. Dopo aver tentato invano di coinvolgere il re di Francia Filippo Augusto, riuscì ad armare un esercito, capeggiato da alcuni feudatari del sovrano, al comando di Simon de Montfort. Il 22 luglio del 1209, i mercenari del papa penetrarono dentro le mura  della città di Béziers, abbandonandosi agli assassinii più laidi e alle devastazioni più truci. Colà, però, non vi erano rifugiati solo i catari, ma anche cattolici fedeli al papa e alla santa dottrina della Chiesa. qIl legato pontificio Arnaud Amaury, interrogato da un soldato sul modo con cui distinguere gli eretici dagli altri, rispose: “Uccideteli tutti! Dio riconoscerà i suoi!”. Questa terribile storia fornisce il pretesto per una riflessione più che attuale: in quelle zone della Terra attanagliate da gravi problemi come la malavita organizzata, il terrorismo, le guerre civili, le prepotenze, i soprusi, quelle zone in cui, insomma, i problemi sono cagionati dagli uomini, se si potesse adottare il metro di Arnaud Amaury, probabilmente, si risolverebbe tutto, tanto, poi, Dio riconoscerà i suoi!

 

Pubblicato il 23 agosto 2011 su www.caravella.eu

 

 

L’etica protestante e lo spirito del capitalismo
di Max Weber

Il benessere materiale voluto da Dio

 

 

 

 

L’etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber, pubblicata nel 1905, è un’opera fondamentale che sonda l’influenza della religione sullo sviluppo economico e culturale dell’Occidente. Attraverso un’analisi meticolosa e interdisciplinare, l’Autore intreccia filosofia, storia, letteratura e religione, per rivelare come l’etica protestante abbia contribuito a modellare il moderno capitalismo.
Il filosofo-sociologo principia con un’indagine filosofica sul senso del lavoro nella società capitalista, postulando che la “professione” o “vocazione” (Beruf, che nel suo significato di “compito assegnato da Dio” trae origine della traduzione luterana della Bibbia) sia diventata un elemento cardinale per comprendere l’individualismo occidentale. Esamina il concetto di predestinazione calvinista e la sua influenza sullo sviluppo di un’etica del lavoro, argomentando come il successo materiale venisse spesso visto quale segno dell’elezione divina. Questa fusione tra il dovere religioso e l’attività economica offre una lente filosofica unica per vagliare la natura del capitalismo, dove il lavoro non è solo una necessità economica ma anche un imperativo morale.
Storicamente, Weber collega lo sviluppo del capitalismo moderno a specifici periodi e regioni, in cui il protestantesimo era prevalente, in particolare il nord Europa e le parti degli Stati Uniti colonizzate dai puritani, mostrando come queste aree abbiano adottato il capitalismo come sistema economico ed ethos culturale, influenzandone profondamente le strutture politiche e sociali. Weber utilizza una vasta gamma di dati storici per tracciare le correlazioni tra pratiche religiose e sviluppi economici, provando che il protestantesimo abbia fornito lo “spirito” necessario per la nascita del capitalismo.
Dal punto di vista letterario, l’opera è un capolavoro di narrazione analitica. Con un linguaggio chiaro e accurato, Weber trasforma argomenti complessi in un racconto affascinante, che si legge quasi come un romanzo storico. L’uso di fonti primarie, sermoni e diari arricchisce il testo, presentando uno sguardo autentico sulle convinzioni e sulle pratiche dei protestanti dell’epoca. La sua capacità di tessere insieme aneddoti e analisi è un esempio eccellente di come la scrittura accademica possa essere rigorosa ma anche coinvolgente.
L’aspetto religioso è il più centrale nel lavoro di Weber. Egli dettaglia minuziosamente le dottrine del calvinismo, del luteranesimo e di altre sètte protestanti, sottolineando come queste abbiano prediletto la disciplina, l’ascetismo e l’etica del lavoro. Non solo descrive le pratiche, ma le interpreta in relazione allo sviluppo economico, proponendo una tesi provocatoria: la religione ha plasmato le sfere personali della vita, avendo anche avuto un impatto profondo e diretto sul corso economico e sociale del mondo occidentale.
L’analisi si concentra significativamente sulle divergenze tra le visioni luterano-calviniste e quelle cattoliche, in particolare riguardo al lavoro e al profitto. Queste differenze teologiche ed etiche non solo hanno influenzato la vita dei fedeli ma hanno anche avuto un impatto profondo sullo sviluppo economico nei vari contesti geografici e storici.


Il cuore dello studio di Weber è nel modo in cui il calvinismo ha interpretato la predestinazione e il lavoro. Secondo la dottrina calvinista, il destino eterno dell’uomo è predestinato da Dio e non può essere cambiato; tuttavia, segni di una vita favorita da Dio possono manifestarsi attraverso il successo e la prosperità nel mondo terreno. Il lavoro, quindi, assume una dimensione quasi sacra – non solo è un dovere verso Dio ma diventa anche un segno del favore divino. Questa interpretazione è meno accentuata nel luteranesimo, per cui comunque il lavoro è ritenuto una vocazione divina, un mezzo attraverso cui il fedele serve Dio nella vita quotidiana. La prosperità risultante dal lavoro diligente ed etico non è però considerata come un fine in sé ma come una conferma che si sta vivendo una vita in linea con i comandamenti divini. In questo modo, il profitto e il successo economico sono accettabili e addirittura potenzialmente indicativi di salvezza.
Al contrario, la dottrina cattolica tradizionale non pone un’enfasi simile sulla predestinazione o sul successo economico come segno di salvezza. Il cattolicesimo, con la sua struttura ecclesiastica più centralizzata e la dottrina della libera volontà, permette ai fedeli di influenzare il proprio destino spirituale attraverso le opere, inclusi i sacramenti e la carità. Il lavoro ha sì un valore etico e spirituale, ma è disgiunto dalla nozione di predestinazione. Di conseguenza, il profitto e il successo materiale sono visti in una luce più neutra o persino problematica, se perseguiti a scapito di valori più elevati.
Weber ritiene che la visione calvinista del profitto come segno di grazia divina abbia giocato un ruolo chiave nella formazione dell’etica del capitalismo. L’accumulo di ricchezza, purché ottenuto attraverso il duro lavoro e l’adempimento etico, era percepito come moralmente accettabile e anche desiderabile, un’indicazione della propria elezione. Ciò contrasta nettamente con la visione più scettica o critica del profitto che si può trovare in molte interpretazioni cattoliche, dove l’accumulo eccessivo di ricchezza è considerato un ostacolo alla vera pietà e un rischio di corruzione spirituale.
La visione protestante, pertanto, con la sua interpretazione del lavoro e del profitto, ha favorito un ambiente in cui il capitalismo non solo è nato ma è anche fiorito, mentre la tradizione cattolica ha promosso un approccio più cauto ed equilibrato verso il successo materiale.
L’etica protestante e lo spirito del capitalismo è un’opera straordinariamente ricca e complessa, che spinge i lettori a considerare il ruolo della religione e dell’etica nell’economia moderna. Weber fornisce la base per ulteriori studi interdisciplinari e invita altresì a una riflessione critica su come i valori culturali e religiosi continuino a influenzare le pratiche economiche contemporanee.

 

 

 

 

Adolfo Celi

L’essenza del dramma, l’eco dell’arte

 

 

 

Adolfo Celi incarna l’essenza dell’arte drammatica con una presenza che risuona tanto nella memoria collettiva quanto nelle anime individuali. Nato il 27 luglio 1922, a Messina, si è distinto come attore, regista e sceneggiatore, navigando con maestria tra le acque delle arti performative.
Sin dalla giovinezza fu attratto dal palcoscenico, un luogo dove le sue emozioni trovavano espressione e la sua creatività poteva fiorire senza restrizioni. Studiò all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica di Roma, un tempio di apprendimento, che affinò il suo talento innato e gli fornì gli strumenti per dominare l’arte della recitazione.
La carriera cinematografica di Celi è segnata da interpretazioni memorabili, che lo hanno reso una figura di spicco nel panorama internazionale. Il suo ruolo nel film “Agente 007 – Thunderball” (Operazione tuono), come Emilio Largo, rimane iconico, un perfetto antagonista dal carisma oscuro e magnetico. La sua abilità di interpretare personaggi complessi con una profondità psicologica rara lo ha reso un attore ricercato in tutto il mondo.
Ma è nel cinema italiano che ha dato il meglio di sé, lasciando un’impronta indelebile con interpretazioni che hanno attraversato generi e stili. Collaborò con alcuni dei più grandi registi del tempo, tra cui Federico Fellini, Francesco Rosi e Luigi Comencini. In film come “Amici miei” e “Sotto il segno dello scorpione”, dimostrò una versatilità straordinaria, capace di passare dal dramma alla commedia con una naturalezza disarmante.


La tecnica attoriale di Celi si distingueva per la sua intensità e precisione. Era un maestro nell’uso della voce, modulandone i toni per trasmettere una gamma di emozioni che andavano dal sussurro più delicato al grido più potente. La sua presenza scenica era imponente, capace di catturare l’attenzione del pubblico con un solo sguardo. Lavorava sul personaggio con una dedizione quasi maniacale, contemplando ogni sfumatura del ruolo, per portare alla luce verità nascoste e contrasti interiori. Era noto per la sua capacità di entrare completamente nel personaggio, abbandonando se stesso e diventando una tela bianca su cui dipingere nuove vite.
Adolfo Celi ci ha lasciati il 19 febbraio 1986. Le sue interpretazioni rimangono a testimoniare la sua grandezza e il suo impegno verso l’arte della recitazione. I suoi film e spettacoli teatrali sono studiati e ammirati, fonte di ispirazione per le nuove generazioni di attori e registi. In ogni scena, in ogni parola pronunciata, Adolfo Celi ha infuso un pezzo della sua anima, rendendo ogni sua performance un’opera d’arte. Il suo nome rimarrà per sempre scolpito nella storia del cinema e del teatro, un esempio di eccellenza e dedizione per chiunque scelga di seguire le sue orme.

 

 

 

 

Il Canto XXII del Paradiso

 

di Carmela Puntillo

 

 

LEZIONE DEL CENTRO SCALIGERO DEGLI STUDI DANTESCHI

CANTO XXII DEL PARADISO: SPIEGAZIONE E COMMENTO

27/09/2021

 

 

Il canto si divide in tre parti: nella prima Beatrice rassicura Dante, rimasto stordito dal grido dei Beati, sulla protezione di cui gode in Paradiso, dove regna l’ardore di carità; nella seconda il poeta vede l’anima di San Benedetto che gli parla della sua azione di propugnatore del cristianesimo, gli presenta altre anime del cielo di Saturno e condanna la corruzione del suo ordine; nella terza Dante ascende al Cielo delle Stelle fisse, invoca la costellazione dei Gemelli perché lo ispiri nella descrizione dell’ultima parte del suo viaggio e, vedendo dall’alto la terra ed i sette cieli percorsi, fa delle considerazioni sulla fragilità umana e l’inutilità della ferocia e della violenza che regnano nel mondo…

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L’Oratio de hominis dignitate
di Giovanni Pico della Mirandola

L’uomo nuovo, centro dell’Universo

 

 

 

Nel cuore del Rinascimento italiano pulsano le parole di Giovanni Pico della Mirandola, incarnando l’essenza dell’Umanesimo nella Oratio de hominis dignitate. L’orazione fu concepita da Pico come preparazione a una disputa internazionale, ove riunire i più eminenti intellettuali del tempo, a Roma, nel 1487, per discutere di “pax philosophica”. Per l’appuntamento, Pico compilò 900 tesi, pubblicate per la prima volta nel dicembre del 1486. Tuttavia, l’evento fu immediatamente annullato per decisione di papa Innocenzo VIII, che volle formare un comitato di esperti incaricati di valutare l’ortodossia delle tesi. Tre di queste furono dichiarate eretiche dalla commissione, mettendo in cattiva luce l’intera iniziativa e causando la sospensione del progetto. Pico fu addirittura costretto a rifugiarsi in Francia, dove fu comunque arrestato e detenuto nella fortezza di Vincennes, a Parigi, su richiesta del pontefice.
L’orazione, che non fu mai pronunciata ma che trovò vita nelle menti e nei cuori di molti, è un canto all’infinito potenziale umano, un inno alla libertà dell’essere di ascendere alla divinità o di cadere nella bestialità, a seconda della propria scelta.
Alla fine del Quattrocento, l’Europa si trovava in un crocevia di cambiamenti. L’invenzione della stampa, la caduta di Costantinopoli, le scoperte geografiche di nuovi mondi e le riforme in ambito religioso e artistico ponevano le basi per una riflessione profonda sulla posizione dell’uomo nell’Universo. È in questo contesto che Pico, giovane e ardito letterato, propose una visione dell’uomo come creatore del proprio destino, dotato di una libertà quasi divina.
Centrale, nell’orazione, è l’idea del libero arbitrio. L’uomo, secondo Pico, è un essere unico, privo di una forma fissa e predefinita, capace di modellarsi a immagine delle realtà celesti o terrene, secondo la propria volontà. Questa concezione lo pone al di sopra di tutte le altre creature, dotato com’è della capacità di auto-trascendenza. L’opera di Pico si colloca, così, come un ponte tra la teologia cristiana e il pensiero classico, un dialogo tra filosofi di diverse epoche, che culmina nella possibilità di una sintesi universale del sapere umano, offrendo, altresì, una riflessione profonda e innovativa sull’origine e la posizione dell’uomo nella gerarchia dell’Essere, distaccandosi dai canoni tradizionali medievali e abbracciando la visione rinascimentale carica di possibilità umane. Tradizionalmente, la gerarchia dell’Essere era vista come una scala rigidamente strutturata, un ordine cosmico stabilito da Dio, in cui ogni creatura aveva un posto definito e immutabile. Angeli, demoni, uomini, animali, piante e minerali erano disposti in un ordine decrescente di santità e perfezione, ciascuno con un ruolo preciso e senza possibilità di cambiamento. Pico rompe questo schema, introducendo una concezione rivoluzionaria dell’uomo come “miracolo” dell’Universo. Secondo la sua visione, l’uomo è stato creato da Dio senza una forma specifica e definita, il che lo pone al centro della creazione come un essere unico, collocato, nella visione pichiana, in una posizione ontologicamente centrale. Non essendo vincolato a una natura specifica, l’uomo ha la libertà e la capacità di modellare se stesso rispecchiando la divinità oppure di degradarsi al livello delle bestie o, perfino, inferiormente. Tale posizione dell’uomo implica una grande responsabilità: quella di scegliere attivamente il proprio cammino. Egli, così, diventa l’artefice del proprio destino. Questa capacità di auto-determinazione lo distingue radicalmente da tutte le altre creature confinate nei limiti delle proprie nature predefinite.


Anche l’idea di auto-trascendenza è fondamentale nella filosofia di Pico. L’uomo può elevarsi al di sopra della sua condizione mortale attraverso l’educazione, la riflessione filosofica e l’adesione ai principi etici e spirituali. Questo processo di elevazione non è soltanto un miglioramento personale, ma una vera e propria imitazione delle caratteristiche divine, come la conoscenza e la bontà. Attraverso la pratica delle virtù e lo studio delle arti e delle scienze, l’uomo può ascendere nella gerarchia dell’Essere, avvicinandosi all’angelico e al divino. In questo senso, Pico vede la filosofia e la teologia non solo come discipline accademiche, ma come vie di perfezionamento dell’anima e di realizzazione del proprio potenziale.
Il filosofo, pertanto, ridefinisce la posizione dell’uomo nella cosmologia ed eleva l’umanità a protagonista della propria storia spirituale e intellettuale. La sua visione anticipa i concetti moderni di auto-determinazione e di potenziale umano, auspicando una nuova era di pensiero, in cui l’essere umano sia visto come co-creatore del proprio mondo e del proprio destino. Questa visione ottimistica dell’umanità è una delle eredità più durature di Pico e del Rinascimento e continua a influenzare il pensiero filosofico e culturale contemporaneo.
L’Oratio de hominis dignitate, in definitiva, risuona come un poema epico sulla natura umana. Le parole di Pico, cariche di elevata retorica e di sublime ottimismo, riflettono la quintessenza dell’ideale umanistico: l’uomo come misura di tutte le cose, capace di elevare sé stesso attraverso il culto della bellezza, della verità e della bontà. La sua visione celebra l’armonia possibile tra ragione e fede, tra cielo e terra. L’orazione non rappresenta soltanto un documento storico, ma un manifesto eterno della potenzialità umana. Pico della Mirandola invita i lettori di ogni epoca a vedere in se stessi non una creazione finita, ma un’opera aperta, un progetto in continuo divenire, sfidandoli a raggiungere la grandezza che è in loro potere conseguire. Così, attraverso i secoli, le sue parole continuano ad accompagnare tutti coloro i quali cercano di comprendere la vastità e la profondità della “dignità” umana.

 

 

 

 

Guido Cavalcanti

 

di

Riccardo Piroddi

 

 

 

Guido Guinizzelli è stato il teorico del Dolce Stil Novo, l’altro Guido, come lo chiamò Dante (Purg. XI, v. 97) ne ha rappresentato il maggiore esponente. Fiorentino, nacque più o meno nel 1260, dalla nobile famiglia Cavalcanti, mercanti molto ricchi. Notissime erano, a Firenze, quasi fossero un punto cardinale, le terre e le case dei Cavalcanti, situate non lontane dalla Chiesa di Santa Maria in Campidoglio, nei pressi del Mercato Vecchio. Da giovane, era stato mandato dal padre a studiare la filosofia da Brunetto Latini e proprio lì aveva conosciuto il futuro sommo poeta, divenendone amico fraterno. imageGuelfo bianco convinto, per dare il buon esempio, cercando, in tal modo, di calmare un po’ le tormentatissime acque in città, aveva sposato Bice degli Uberti, figlia del famoso Farinata, il segretario comunale del PGF, Partito Ghibellino Fiorentino. Tutto questo, comunque, era servito a poco o niente. La tensione, a Firenze, era sempre altissima, tanto che quando non si riuscivano ad eliminare gli avversati in casa, si mandavano i sicari a raggiungerli in trasferta. Durante un pellegrinaggio al santuario di Santiago di Compostela, infatti, nei pressi di Tolosa, Guido prese una coltellata alla schiena, inflittagli da un assassino mandato da Corso Donati, il capo dei guelfi neri. Si salvò per miracolo! Incurante dei numerosi pericoli e della sua incolumità fisica, si fece eleggere al Consiglio Generale. Solo pochi anni dopo, però, ne fu escluso, quando Giano della Bella, un aristocratico passato a sinistra, fece approvare la riforma degli “Ordinamenti di Giustizia”, vietando, ai nobili non iscritti ai sindacati, l’accesso alle cariche pubbliche. Il 24 giugno del 1300, dopo aver preso parte ad una mega rissa in cui guelfi bianchi e neri se le erano suonate di santissima ragione, fino a quando non erano rimaste in piedi che due-tre persone, essendo lui un capo fazione, fu punito con l’esilio a Sarzana, oggi ridente centro in provincia di La Spezia, ma, nel XIII secolo, zona paludosa e insalubre. Fu proprio l’amico Dante, divenuto, nel frattempo, Priore, a firmare, con le lacrime agli occhi, la sua condanna. In poche settimane, a causa dei miasmi mortiferi esalati dagli acquitrini sarzanesi, Guido contrasse la malaria. Tornò a Firenze giusto in tempo per morire, nelle case dei Cavalcanti, il 29 agosto. Fiero nel carattere e altero nell’aspetto, è il più “tragico” dei poeti stilnovisti. L’amore, spesso, gli provocava sbigottimento, lasciandolo dubbioso, destrutto e desfatto:

L’anima mia vilment’è sbigotita
de la battaglia ch’ell’ave dal core
che s’ella sente pur un poco Amore:
più presso a lui che non sòle, ella more.

(L’anima mia vilment’è sbigotita, vv. 1-4)

Forte e nova mia disaventura
m’ha desfatto nel core
ogni dolce penser, ch’i’ avea, d’amore.

(Forte e nova mia disavventura, vv. 1-3)

Allo steso modo, la sua donna pare non essere così celeste e luminosa come quelle esaltate dagli altri poeti, tanto che il suo valore è difficilmente conoscibile dall’uomo. Se Guido fosse stato un trovatore avrebbe accompagnato le sue canzoni con una musica malinconica e angosciosa:

Se Mercé fosse amica a’ miei desiri,
e l’movimento suo fosse dal core
di questa bella donna e’l su’ valore
mostrasse la vertute a’ mie’ martiri.

(Se Mercé fosse amica a’ miei disiri, vv. 1-4)

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La canzone Donna me prega, per ch’eo voglio dire, i cui versi sono di difficile comprensione perché volutamente astrusi, è lo specimen della sua poesia. In essa, filosofia, metafisica, psicologia, tristezza, guai, lamenti e spiriti,  introdotti nella sua lirica per spiegare il funzionamento dei sensi e dei sentimenti dell’uomo, mostrano la donna non come una guida che renda l’anima perfetta, quanto come creatura la cui bellezza costringa a meditare, ad almanaccare, a scervellarsi, ad elucubrare e a rimuginarvi. Però, rimuginandovi troppo a lungo, il povero Guido correva il rischio di andare fuori di testa.

Donna me prega, – per ch’eo voglio dire
d’un accidente – che sovente – è fero
ed è sì altero – ch’è chiamato amore:
sì chi lo nega – possa ’l ver sentire!
Ed a presente – conoscente – chero,
perch’io no spero – ch’om di basso core
a tal ragione porti canoscenza:
ché senza – natural dimostramento
non ho talento – di voler provare
là dove posa, e chi lo fa creare,
e qual sia sua vertute e sua potenza,
l’essenza – poi e ciascun suo movimento,
e ’l piacimento – che ’l fa dire amare,
e s’omo per veder lo pò mostrare.

(Donna me prega, – per ch’eo voglio dire, vv. 1-14)

Tra le sue composizioni più famose, infine, è la ballata Perch’i’non spero di tornar giammai. Il poeta, fuori dalla Toscana, chiese a questa sua ballatetta di raggiungere l’amata per dirle, tra pianti, sospiri e accidenti:

Questa vostra servente
viene per star con vui,
partita da colui
che fu servo d’Amore.

(Perch’i’ non spero di tornar giammai, vv. 33-36)