Archivi autore: Riccardo Piroddi

Guglielmo il Maresciallo

Il mestiere del cavaliere

 

 

 

 

Guglielmo il Maresciallo, William The Marshal in inglese, nato nel 1147 e morto nel 1219, è senza dubbio una delle figure più illustri e affascinanti del Medioevo. Conosciuto come uno dei più grandi cavalieri della sua epoca, la sua vita e le sue imprese sono state raccontate in varie cronache e poemi che ne celebrano il coraggio, la lealtà e l’abilità militare.
Il XII secolo era un periodo di grandi cambiamenti e conflitti in Europa. L’Inghilterra, da poco uscita dalla conquista normanna, stava consolidando il proprio potere sotto i re Plantageneti. Sul continente, il Sacro Romano Impero, la Francia e altri regni combattevano per l’egemonia. La cavalleria costituiva l’istituzione cardine della società feudale, con i cavalieri che giocavano un ruolo cruciale nei conflitti e nella difesa dei domini feudali.
Guglielmo nacque in una famiglia nobile ma non particolarmente ricca. Suo padre John FitzGilbert the Marshal era un cavaliere di rango medio al servizio del re d’Inghilterra. Da giovane, Guglielmo fu mandato come paggio presso la corte di un signore francese, dove ricevette un’educazione cavalleresca che comprendeva l’arte della guerra, la gestione delle terre e i valori della cavalleria.
La sua carriera come cavaliere iniziò sul campo di battaglia. Partecipò a numerosi tornei, acquisendo fama per la sua abilità con le armi e la sua straordinaria forza fisica. La sua reputazione crebbe quando, durante una giostra, sconfisse uno dei più temibili cavalieri del tempo, diventando famoso in tutta Europa.


Nel corso della sua vita servì quattro re d’Inghilterra: Enrico II, Riccardo I, Giovanni Senza Terra ed Enrico III. La sua lealtà e abilità lo portarono a ricevere il titolo di “maresciallo” d’Inghilterra, una delle più alte cariche militari e giudiziarie del regno. Partecipò a numerose campagne militari, inclusa la famosa Terza crociata, al fianco di re Riccardo Cuor di Leone.
Tra le sue imprese più celebri vi sono la difesa del castello di Dover contro le forze francesi e la vittoria nella battaglia di Lincoln nel 1217, durante la prima guerra dei baroni. Queste azioni contribuirono a consolidare il potere dei Plantageneti in un periodo di grande instabilità politica.
Un altro episodio leggendario fu il suo duello contro Baldovino di Guisnes, in cui dimostrò non solo la sua abilità marziale, ma anche il suo senso dell’onore e della cavalleria, risparmiando la vita del suo avversario sconfitto.
Guglielmo è spesso ricordato come “l’ultimo cavaliere”, per il suo rigoroso rispetto dei codici cavallereschi in un’epoca in cui tali ideali stavano cominciando a declinare. Alla sua morte fu sepolto nell’abbazia di Reading, accanto ai re che aveva servito fedelmente.
L’eredità di Guglielmo il Maresciallo perdura attraverso le cronache medievali e i racconti che ne hanno immortalato le gesta. La sua vita è un esempio di lealtà, coraggio e abilità militare, caratteristiche che lo rendono una figura leggendaria nella storia medievale.
Guglielmo è un simbolo dell’ideale cavalleresco, la cui vita e imprese riflettono le complessità e le virtù della società feudale medievale. La sua dedizione alla giustizia, la sua straordinaria abilità in battaglia e la sua lealtà verso i sovrani che servì ne fanno un eroe senza tempo, la cui leggenda continua ad affascinare gli storici e gli appassionati del Medioevo.

 

 

 

L’ALTRA METÀ DEL CIELO

Storia della donna e della sua condizione
attraverso i secoli

 

 

di Carmela Puntillo

 

 

Questo mio scritto vuole esaminare la condizione della donna attraverso i secoli per vedere quali sono stati i criteri con i quali veniva considerata, quali le difficoltà riguardanti il suo affermarsi nella società, quali conquiste abbia fatto dal suo apparire sulla terra fino ad oggi. Partirò dall’antichità per arrivare, con una panoramica che tocca un po’ tutte le epoche, fino ai giorni nostri ed agli avvenimenti più recenti, scandagliando la situazione delle donne comuni e descrivendo la vita e le opere delle donne particolari e di successo, in un viaggio che mostra la loro tenacia e gli apprezzamenti ricevuti, ma anche il persistere di mentalità negative nei loro confronti. La varietà delle situazioni ci può mostrare come la donna abbia dovuto lottare accanitamente per riuscire ad esprimere una personalità che certamente ha avuto un’importanza fondamentale nella storia…

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Maria de’ Medici

Una donna italiana sul trono di Francia

 

 

 

Maria de’ Medici, sesta figlia di Francesco I de’ Medici (1541-1587), granduca di Toscana, e di Giovanna (1548-1578), arciduchessa d’Austria, figlia di Ferdinando I d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero, è stata una regina la cui grazia e saggezza splenderono come una luce dorata sui giorni tumultuosi del regno di Francia. Maria incantava chiunque posasse lo sguardo su di lei, i suoi occhi, come due laghi profondi, riflettevano le storie della Firenze rinascimentale, culla della cultura e dell’arte. Il suo spirito indomito era pari alla delicatezza delle rose che adornavano i giardini della sua infanzia. Cresciuta tra le meraviglie del Palazzo Pitti, Maria portava con sé l’eleganza delle corti italiane. Sposa del re Enrico IV, divenne la madre amorevole di un intero popolo, la sua voce un balsamo che leniva le inquietudini del regno.


Regina consorte e poi reggente di Luigi XIII, si distinse per la sua forza e determinazione, eredità di una famiglia che aveva modellato la storia italiana ed europea. Le sue mani, pur delicate, tenevano saldamente le redini del potere, guidando la Francia attraverso mari tempestosi con una sapienza che pareva provenire direttamente dagli antichi filosofi.
Nel suo cuore, un amore profondo per l’arte e la bellezza; fu mecenate di pittori, scultori e musicisti, contribuendo a rendere Parigi un faro culturale del suo tempo. Il suo nome risuona ancora nei corridoi del Louvre, dove le opere da lei commissionate raccontano di un’epoca in cui la grandezza si misurava in meraviglia e splendore.
E così, Maria de’ Medici rimane una figura incantatrice nella storia, una regina la cui luce non si è mai spenta ma continua a brillare attraverso i secoli, riflessa nei capolavori e nelle leggende che la celebrano. Una donna la cui vita è stata un arazzo ricamato con fili d’oro e di seta, ogni nodo e intreccio narrante la storia di un’anima nobile e indomita, regina non solo di Francia, ma anche di coloro i quali ancora oggi ne raccontano le gesta.

 

 

Diogene il Cinico

Uomo, filosofo, provocatore

 

 

 

Diogene di Sinope, meglio conosciuto come il Cinico, è certamente una delle figure più eccentriche e iconoclastiche della filosofia antica. Nato intorno al 412 a.C. a Sinope, città greca sul Mar Nero, fu discepolo di Antistene, il fondatore della scuola cinica. La filosofia cinica, che Diogene incarnò con estrema dedizione, si fonda su una critica radicale della società e dei suoi valori, favorendo, invece, la semplicità, l’autosufficienza e la virtù come unica vera ricchezza.
Diogene è famoso per la sua vita austera e per i molti aneddoti che lo vedono protagonista, spesso con intenti provocatori. Si dice che vivesse in una botte, rifiutando qualsiasi tipo di comodità materiale. Una delle storie più celebri narra dell’incontro con Alessandro Magno. Quando il re macedone, incuriosito dalla fama del filosofo, gli chiese se potesse fare qualcosa per lui, Diogene rispose semplicemente: “Sì, scansati, perché mi stai togliendo il sole”. Questa risposta incarna perfettamente l’atteggiamento cinico di Diogene verso il potere e la ricchezza, considerati irrilevanti rispetto alla libertà e alla felicità derivanti dall’autosufficienza.


La filosofia di Diogene si basa su pochi principi cardine, che mettono in discussione i valori convenzionali della società.
Credeva che la vera felicità fosse raggiungibile solo attraverso l’autosufficienza. Rifiutava il superfluo e viveva con il minimo indispensabile, dimostrando che la felicità non dipende dalle ricchezze materiali. Sfidava apertamente le norme e le convenzioni sociali. Per lui, le leggi e i costumi erano spesso artifici inutili che distoglievano gli individui dalla ricerca della vera virtù.
Seguendo la lezione di Socrate, considerava la virtù come l’unica vera ricchezza. Per lui, vivere secondo natura e in armonia con essa era l’obiettivo principale dell’esistenza.
Diogene praticava e promuoveva la parresia, la franchezza radicale nel dire la verità. Questo atteggiamento lo portava spesso a scontrarsi con le autorità e con i benpensanti del suo tempo.
Diogene è ricordato non solo per la sua vita ascetica e i suoi comportamenti provocatori, ma anche per l’impatto duraturo delle sue idee. La sua critica della società e delle sue ipocrisie ha influenzato molte correnti filosofiche successive, tra cui lo stoicismo. Inoltre, la sua figura continua a essere un simbolo di ribellione contro l’ingiustizia e l’irrazionalità, ispirando artisti, pensatori e ribelli di ogni epoca.
Diogene, quindi, non è solo un personaggio storico, ma un emblema della ricerca della verità e della virtù contro le convenzioni e le illusioni del mondo. La sua vita e la sua filosofia invitano a riflettere su ciò che veramente conta e su come si possa vivere in maniera più autentica e significativa.

 

 

 

Gottfried Wilhelm Leibniz nell’anniversario della nascita

(1 luglio 1646)

 

 

 

In un angolo dorato del secolo d’oro della filosofia risplende la figura di Gottfried Wilhelm Leibniz, un faro di mente e di spirito, che si erge come un’alba eterna sulle rive del pensiero umano. Uomo di radiosa intelligenza, danzava tra i campi del sapere come le dita di un virtuoso su un clavicembalo celestiale, intonando melodie matematiche, logiche e metafisiche, tessendo un arazzo che univa l’infinito con il finito, il divino con il terreno.
La sua filosofia, come una marea infinita, abbracciava ogni particella dell’universo, ogni monade vibrante di vita e di possibilità. Le monadi, i suoi atomi spirituali, specchiavano l’intero cosmo in un gioco di riflessi perenni, ciascuna un microcosmo, un universo in miniatura, dotate di percezioni e volontà proprie. In questo gioco di specchi, Leibniz vedeva l’armonia prestabilita, una sinfonia divina orchestrata da un compositore trascendentale, in cui ogni nota, ogni evento, trovava il suo posto in un disegno perfetto e preordinato.


Il suo ottimismo metafisico, il celebre “migliore dei mondi possibili”, era un inno alla speranza, una fede incrollabile nella bontà e nella sapienza dell’Architetto Supremo. In un universo popolato da monadi, ogni sofferenza, ogni gioia, trovava la sua ragione d’essere in un equilibrio cosmico, in un ordine che la mente umana poteva solo intuire, come un sussurro tra le pieghe del silenzio.
Il suo spirito enciclopedico era un ponte tra passato e futuro, tra scienza e filosofia, unendo Aristotele e Newton, Platone e Cartesio in un dialogo senza tempo. La sua visione era come un raggio di luce capace di penetrare le ombre dell’ignoranza, illuminando sentieri nuovi e inesplorati. Egli vedeva l’universo come un vasto libro, scritto nel linguaggio matematico, dove ogni formula, ogni equazione, era una poesia in cifre, una testimonianza del divino ordine nascosto sotto la superficie caotica del mondo.
Nel giardino del pensiero umano Leibniz era giardiniere saggio, coltivando idee con delicatezza e cura, nutrendo la conoscenza come pianta rara e preziosa. Le sue lettere, i suoi manoscritti, erano semi sparsi nel vento del tempo, germogliando in nuove menti, in nuovi cuori, portando avanti il suo lascito di saggezza e meraviglia.
E, così, Gottfried Wilhelm Leibniz continua a vivere, una stella nella costellazione del pensiero, un canto perpetuo che risuona nell’eternità, un’eco di verità e bellezza che mai svanirà.

 

 

 

Le Enneadi di Plotino

L’Uno, il divino, l’anima

 

 

 

 

Come una stella vespertina che sorge al crepuscolo, nel cielo dell’antichità si levarono le Enneadi di Plotino, filosofo vissuto nel III secolo d.C., un testamento della ricerca incessante dell’anima per il divino. L’opera è composta da 54 trattati, sistemati da Porfirio, discepolo di Plotino, il quale modificò la suddivisione dei testi originali, combinandoli per formare i gruppi necessari a comporre le Enneadi, strutturate in sei insiemi di nove (“ennea”, in greco) trattati ciascuno. Dispose questi scritti seguendo un ordine che va dalle esistenze più basse dal punto di vista ontologico – le realtà terrene e la vita umana – ascendendo attraverso livelli metafisici come la provvidenza, gli enti demoniaci, l’anima e le capacità psichiche, fino al grado puramente intellettuale, culminando nell’ultimo trattato, con l’approdo alla suprema realtà divina, l’Uno, principio e fine di tutto ciò che è. Questa strutturazione mirava a delineare per il lettore un itinerario vòlto a trascendere il mondo terreno e a ottenere una piena comprensione della filosofia plotiniana.
Le radici delle Enneadi affondano nel fertile terreno del platonismo. Plotino, seguace del pensiero di Platone, eleva la teoria delle Forme archetipiche a nuove vette celestiali. Così come Platone descrive la realtà delle Idee, immutabili e perfette, Plotino introduce l’Uno, la causa primordiale da cui scaturisce ogni esistenza. L’Uno, inaccessibile e trascendente, risuona con l’Iperuranio platonico, ma lo trascende in una forma di unità assoluta che non ammette dualità o alterità.
L’originalità di Plotino brilla nella sua concezione di una gerarchia ontologica che parte dall’Uno, si dispiega nell’Intelletto e si espande poi nell’Anima del mondo. L’Uno, principio supremo e fonte di tutta la realtà, è al di là di ogni essere e pensiero. Da questa ineffabile unità emanano l’Intelletto, che contiene le idee, e l’Anima, che vivifica il mondo. Questa struttura tripartita non solo spiega la natura dell’esistenza ma offre anche un sentiero di ritorno verso l’Uno, attraverso la contemplazione e l’ascesi, invitando l’anima umana a riscoprire la sua origine divina.
Le Enneadi non si limitano a una mera indagine filosofica, ma si ergono anche come guida spirituale per l’anima. Plotino trasforma la filosofia in un percorso religioso, dove il fine ultimo è l’unione mistica con l’Uno. Questa aspirazione all’unione divina riflette un desiderio profondo di purificazione e di ritorno all’origine, che si manifesta in pratiche ascetiche e nella meditazione. La sua visione offre un ponte tra il terreno e l’ultraterreno, tra il finito e l’infinito.
Prima Enneade: etica e pratica
La prima Enneade tratta temi etici e pratici, fondamentali per chi inizia il cammino filosofico. Plotino esamina la condizione umana, discutendo la virtù, il destino e il ruolo della provvidenza e del fato. Approfondisce la questione del male, considerandolo come una mancanza di bene piuttosto che una presenza attiva. Questa Enneade pone le basi per l’ascesa dell’anima, stabilendo che la purificazione etica sia il primo passo necessario.
Seconda Enneade: il mondo naturale
Si focalizza sul mondo naturale e sulla cosmologia. Il filosofo espone la struttura dell’universo, l’eternità del mondo e la questione di come le emanazioni dell’Uno diano vita all’Intelletto e, poi, all’Anima del mondo. Qui, l’attenzione si sposta dalle questioni etiche alla natura dell’esistenza fisica e alla sua origine, tracciando un movimento dall’individuo al cosmico.
Terza Enneade: epistemologia e ontologia
Approfondisce la conoscenza e l’essere. Plotino indaga la natura dell’intelletto umano e la sua relazione con l’Intelletto divino. Tratta le idee di percezione, memoria e tempo e si interroga sulla natura e l’acquisizione della conoscenza vera, che avviene tramite l’unione mistica con l’Intelletto.


Quarta Enneade: l’anima
Plotino vi analizza la natura dell’anima, le sue divisioni e le sue funzioni, oltre alla sua relazione con l’ordine inferiore (il mondo materiale) e con quello superiore (l’Intelletto). Esamina il concetto di anima individuale e universale, sottolineando le possibilità e i mezzi attraverso cui questa possa elevarsi al di sopra del mondo fenomenico.
Quinta Enneade: l’Intelletto
Qui il filosofo raggiunge l’apice della sua speculazione, con un’indagine approfondita sull’Intelletto e sulle idee. Questa parte è cruciale per comprendere la sua teoria delle Forme e la struttura dell’Intelletto, che contiene le idee perfette e immutabili, eterna manifestazione dell’Uno.
Sesta Enneade: l’Uno
La sesta e ultima Enneade rappresenta il culmine del sistema plotiniano ed è dedicata all’Uno, principio supremo e fonte di tutta la realtà. Plotino spiega la natura dell’Uno, che supera l’essere e la conoscenza. Scevera il processo di emanazione dall’Uno all’Intelletto all’Anima e offre una visione profondamente mistica di come l’anima possa unirsi all’Uno, superando ogni dualità e distinzione.
Le Enneadi, con la loro profondità filosofica e l’ardore religioso, si configurano come una danza celestiale di luci che invita ogni anima a sollevarsi oltre il mondo sensibile. Plotino, in questo magistrale incontro tra mente e spirito, tende la mano alla saggezza di Platone, trasfigurandola in una visione che abbraccia l’intero cosmo. Le Enneadi non sono solo un’opera di grande valore filosofico, ma costituiscono un inno alla possibilità di unione dell’anima con il divino, attraverso una comprensione profonda del mondo, dell’anima, e dell’Intelletto, riecheggiando e, allo stesso tempo, amplificando i temi cari a Platone, in una sinfonia di pensiero che trascende i secoli. Nel loro tessuto si intrecciano il rigore intellettuale e la fervida aspirazione religiosa, che non solo fondano il neoplatonismo ma influenzano profondamente la filosofia e la teologia soprattutto cristiana, ponendosi quale faro per quanti cercano la verità oltre le ombre del mondo fenomenico.

 

 

 

Giacomo delle stelle

1798 – 29 giugno – 2024

 

 

 

Giacomo Leopardi, il melanconico cantore delle stelle, nacque sotto un cielo che pareva già tingersi di tristitia infinita. Figlio di nobiltà decadente, trovò rifugio non nelle pur fastose sale del palazzo di famiglia, ma nelle scure biblioteche, dove i libri divennero i suoi veri compagni. Con il suo volto pallido e gli occhi colmi di antica sapienza, si aggirava tra le ombre del pensiero, cercando di svelare i segreti della vita e dell’universo.
La sua filosofia si è levata come un grido soffocato contro l’indifferenza dell’esistenza. Vedeva la natura non come una madre benevola, ma come una matrigna crudele, sorda ai dolori e alle gioie degli uomini. In questa sua visione disillusa, l’uomo era solo, abbandonato a sé stesso, destinato a scontrarsi con l’inevitabile sofferenza.


Eppure, in mezzo a questo buio sconforto, trovava una sorta di sublime bellezza. Nella consapevolezza della propria fragilità, Leopardi vedeva l’essenza stessa dell’essere umano: un eroe solitario, capace di affrontare l’infinito nulla con dignità stoica. La sua poesia è divenuta un inno alla caducità della vita, un lamento dolce e struggente per tutto ciò che è destinato a svanire.
Leopardi, con la sua penna intrisa di malinconia, tracciava versi che erano come stelle cadenti, brevi e brillanti, destinate a spegnersi nel vasto firmamento dell’eternità. Ma la sua voce risuona ancora oggi, un’eco lontana che ci ricorda la nostra vulnerabilità e, al contempo, la nostra straordinaria capacità di trovare bellezza nel dolore.
Così, Giacomo Leopardi rimane per sempre il poeta delle illusioni perdute, un filosofo dell’esistenza che ci invita a guardare dentro noi stessi, a riconoscere la nostra solitudine, ma anche a celebrare la nostra irriducibile umanità.

 

 

 

Matelda

Donna soletta che si gia/ e cantando e scegliendo
fior da fiore/ ond’era pinta tutta la sua via

 

 

 

Matelda, figura misteriosa e affascinante del Purgatorio dantesco, affiora dai versi della Divina Commedia immersa in un’aura di sacra purezza e di bellezza incontaminata. La sua presenza è annunciata da un’aura luminosa, un riflesso dorato che si diffonde nella foresta del Paradiso Terrestre, dove il Dante e Virgilio la incontrano.
E proprio nella cornice lussureggiante del Paradiso Terrestre, Matelda appare come una creatura celestiale, una ninfa dai tratti divini, che incarna la perfezione e l’armonia della natura. I suoi capelli, lunghi e fluenti, sembrano intrecciarsi con i raggi del sole, creando un manto luminoso che avvolge il suo corpo esile e aggraziato. Ogni suo gesto è un inno alla grazia e alla serenità e il suo sguardo, dolce e penetrante, riflette una saggezza antica e profonda.


Matelda è la custode di questo Eden ritrovato, un simbolo di purezza e redenzione. La sua voce, quando intona il canto che celebra le meraviglie della creazione, risuona come una melodia capace di toccare le corde più intime dell’anima. Ella rappresenta l’innocenza originaria dell’uomo, la beatitudine perduta e poi riconquistata attraverso il pentimento e la purificazione.
La sua figura è immersa in una dimensione di eternità, dove il tempo sembra sospeso e ogni attimo diventa un’eco dell’armonia universale. I fiori e gli alberi attorno a lei sembrano danzare al ritmo della sua presenza, come se riconoscessero in lei la sovrana naturale di quel regno incontaminato.
Matelda, con la sua dolcezza e la sua purezza, diventa per Dante il simbolo della bellezza spirituale, della speranza e della redenzione. La sua apparizione è un momento di pace e di illuminazione, un preludio alla visione finale del Paradiso. Attraverso di lei, il poeta riscopre la meraviglia della creazione divina e la possibilità di una rinascita spirituale.
Matelda, quindi, non è solo una figura della letteratura, ma un archetipo di perfezione e armonia, un riflesso della bellezza eterna che abita nelle profondità dell’animo umano. La sua immagine risuona come un canto di speranza e di riscatto, un invito a riscoprire la purezza e la bellezza che giacciono nascoste in ogni cuore.

 

 

 

Eleonora d’Aquitania

Madre, musa e regina

 

 

 

Figura luminosa, donna di rara bellezza e di ancor più rara intelligenza, nata sotto i cieli azzurri della Francia meridionale, ha incarnato l’eleganza e la forza, una rosa in un mondo di spade e intrighi.
Eleonora, fiore d’Aquitania, la cui giovinezza fu nutrita dai versi dei trovatori, sorse e crebbe come un’aurora, illuminando le corti con il suo spirito ribelle e la sua mente acuta. Non solo una regina, ma una musa, ispiratrice di poeti e di guerrieri, il cui cuore batteva al ritmo delle antiche leggende e dei nuovi sogni di libertà.
Sposa di re e madre di sovrani, il suo destino la condusse dalle colline di Aquitania ai troni di Francia e d’Inghilterra. Moglie di Luigi VII, divenne regina di Francia, e, come una cometa, attraversò i cieli d’Europa, portando con sé una visione di cultura e raffinatezza. Ma il suo spirito indomito non poteva essere contenuto in un solo regno. Con il divorzio, trovò nuova luce nelle terre d’Inghilterra, accanto a Enrico II, divenendo regina e madre di uomini epici, Riccardo Cuor di Leone e Giovanni Senza Terra.


Eleonora, promotrice dell’amore cortese, protettrice dei trovatori e delle arti, riuniva attorno a sé corti brillanti, dove l’intelletto e il coraggio erano riveriti, dove le donne trovavano una voce e gli uomini un ideale.
Ma non fu solo nella lì che ella brillò. Anche nelle ombre della prigionia, trovò la forza della resistenza e, nei momenti più oscuri, la sua determinazione non vacillò mai. Quando le catene avrebbero potuto spezzare il suo spirito, rimase un faro di speranza e di tenacia.
Eleonora d’Aquitania, la cui vita fu un arazzo di passione, potere e poesia, insegna a noi cittadini del XXI secolo che la vera regalità risiede nel cuore e nella mente e che una donna può essere tanto guerriera quanto saggia, madre e musa, regina e anima libera.
In un mondo dominato dagli uomini, Eleonora divenne leggenda, il suo nome sussurrato nei corridoi del tempo, un’eco di ciò che una donna può essere quando si lascia guidare dal fuoco interiore e dall’inesauribile sete di libertà e giustizia.

 

 

 

Il Canto V del Paradiso

 

di Carmela Puntillo

 

 

LEZIONE DEL CENTRO SCALIGERO DEGLI STUDI DANTESCHI

CANTO V DEL PARADISO: SPIEGAZIONE E COMMENTO

15/02/2021

 

 

Il canto V inizia riprendendo il discorso di Beatrice sulla teoria del voto che era stato impostata nel canto precedente: peraltro, anche a questo canto non può negarsi una sua architettura, una sua propria autonomia, che già si rileva nella stessa coloritura espressiva e nei procedimenti retorici. Prima di definire la quaestio del voto Beatrice si preoccupa di descrivere la sua condizione interiore in questo particolare momento dell’ascensione paradisiaca, mettendola in relazione con lo stato d’animo in cui si trova il suo fedele (vv. 1-12)…

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