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Il sistro

L’armonia sacra tra suono e divinità

 

 

 

 

Il sistro è uno strumento musicale dalle origini antichissime, il cui suono tintinnante ha accompagnato rituali religiosi, celebrazioni sacre e momenti di vita quotidiana nella storia culturale e artistica di molte civiltà. Nato nell’antico Egitto, si è diffuso nel Mediterraneo e oltre, divenendo un simbolo potente di spiritualità e armonia cosmica. Esaminandone le caratteristiche, il significato simbolico e i riferimenti letterari, se ne comprende l’importanza nella storia dell’umanità.
Il sistro è formato da un telaio metallico arcuato o a forma di manico, spesso decorato con immagini e simboli sacri. Attraverso il telaio passano asticelle orizzontali, che reggono dischi metallici o anelli mobili. Il movimento di queste parti, generato agitando lo strumento, produce un suono ritmico e vibrante.
Due tipologie principali se ne distinguono: il sistro arcaico egizio, spesso decorato con immagini della dea Hathor, caratterizzato da una struttura semplice e simbolica, e il sistro romano, più elaborato, introdotto a Roma attraverso il culto di Iside e associato a rituali complessi e misterici. Il bronzo, il rame o l’argento erano usati per la sua realizzazione e la decorazione era parte integrante del valore rituale e artistico dello strumento.
Il sistro era un elemento fondamentale nei rituali religiosi egizi, specialmente in quelli dedicati a divinità femminili come Hathor, Iside e Bastet. Hathor, dea della musica, della fertilità e della gioia, era spesso raffigurata con il sistro, simbolo della sua capacità di armonizzare il mondo. Il tintinnio evocava la vibrazione primordiale che, secondo la cosmogonia egizia, aveva dato origine alla creazione. Al suono del sistro erano anche attribuiti poteri apotropaici: scacciava le forze negative e ristabiliva l’equilibrio universale. Era spesso utilizzato nelle processioni, accompagnando danze e canti, per invocare la protezione divina e celebrare la fecondità della terra e delle acque. Nella tradizione greco-romana, poi, il sistro divenne un elemento centrale nei misteri isiaci, rituali iniziatici che celebravano la rinascita spirituale e il potere rigenerante della dea.

Il fascino esercitato dal sistro attraversa secoli di letteratura, dalle descrizioni degli antichi storici fino alle opere di epoche successive. I testi letterari non solo ne testimoniano l’uso, ma ne rimarcano anche il significato simbolico e rituale. Nella sua opera Storie, Erodoto descrive in dettaglio i rituali in onore di Iside, evidenziando l’uso del sistro come elemento essenziale. La sua cronaca testimonia il legame indissolubile tra musica e religione nell’antico Egitto, rilevando il ruolo del sistro nella celebrazione della fertilità e della vita. Nel romanzo Le Metamorfosi (o L’asino d’oro), Apuleio riporta una delle più suggestive rappresentazioni del culto di Iside. Nella visione mistica del protagonista Lucio, i sacerdoti agitano i sistri durante una solenne processione, evocando il potere della dea e la trasformazione spirituale. Virgilio, nell’Eneide, descrive Cleopatra, regina d’Egitto, che porta il sistro come segno della sua identità e dei suoi legami religiosi con il mondo egizio. Nel Medioevo, il sistro appare in descrizioni di fonti arabe e bizantine come simbolo esotico, legato all’antico Egitto. Durante il Rinascimento, con il rinnovato interesse per l’antichità, lo strumento fu citato da scrittori e artisti, spesso per evocare atmosfere misteriose o per rappresentare la sapienza e la spiritualità orientale.
Oltre che nella letteratura, il sistro appare frequentemente nell’arte. Affreschi, bassorilievi e statuette raffigurano sacerdotesse e musicisti che lo suonano. Notevole è la rappresentazione del sistro nei templi egizi, come a Dendera, dove scene di culto mostrano l’importanza di questo strumento nei rituali sacri. In epoca romana, il sistro è presente su monete e rilievi dedicati a Iside, a sottolineare l’universalità del suo significato.
Sebbene oggi il sistro non sia più utilizzato come in passato, esso sopravvive in strumenti musicali simili, come alcuni tipi di sonagli e tamburelli. Inoltre, il suo significato simbolico continua a essere approfondito in studi accademici, opere letterarie e performance artistiche che celebrano il legame tra musica, religione e cultura.

 

 

 

 

Buon compleanno, Maestro Leone!!!

Caravaggio e Sergio Leone: rivoluzionari delle loro arti

 

 

 

 

La storia dell’arte e del cinema è costellata di figure capaci di ridefinire le regole dei loro linguaggi, inaugurando nuove epoche creative. Michelangelo Merisi da Caravaggio e Sergio Leone appartengono a questa élite di innovatori. Il primo rivoluzionò la pittura tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento; il secondo, quasi quattro secoli dopo, trasformò per sempre il genere western cinematografico. Entrambi ruppero con le convenzioni estetiche del loro tempo, introducendo uno stile inconfondibile, che ha lasciato un segno permanente nella cultura visiva.

La rivoluzione pittorica di Caravaggio

Caravaggio, nato nel 1571, trovò nel chiaroscuro il mezzo per comunicare la profondità delle emozioni umane e la sacralità della realtà quotidiana. La sua arte si distinse per un realismo radicale, che suscitava scandalo e ammirazione. I suoi dipinti non idealizzavano i soggetti: li presentavano con una cruda autenticità, riflettendo la vita così com’era, senza filtri o compromessi.
Opere come La vocazione di san Matteo (1600) rappresentano un momento epocale nella storia della pittura. In questa scena, ambientata in una modesta taverna, Cristo si avvicina al futuro apostolo Matteo con un semplice gesto della mano. La luce divina, che taglia l’oscurità dell’ambiente, non è solo un elemento estetico, ma anche narrativo: guida lo spettatore verso l’istante della chiamata spirituale. Il volto di Matteo esprime incredulità e dubbio, un’emozione umana che trascende il dogma. Un altro esempio emblematico è La Madonna dei pellegrini (1604-1606), dove la Vergine appare scalza, accogliendo due fedeli altrettanto scalzi, segnati dalla fatica del cammino. Questo dettaglio suscitò scandalo tra i contemporanei, ma sottolineava il messaggio inclusivo di una religiosità vicina al popolo. Il martirio di san Matteo (1599-1600) e Giuditta e Oloferne (1603) sono capolavori che illustrano la capacità di Caravaggio di catturare il momento decisivo. Nel primo, l’azione si svolge come in un’istantanea cinematografica: l’assassino si appresta a colpire san Matteo, mentre la folla reagisce con terrore. Nel secondo, il contrasto tra la determinazione di Giuditta e il terrore di Oloferne è amplificato dalla luce che illumina i volti, lasciando il resto in penombra. Con Caravaggio, ogni dipinto diventa un microcosmo di emozioni umane, capace di trascendere il tempo e lo spazio.

Sergio Leone e la reinvenzione del western

Quasi quattro secoli dopo Caravaggio, Sergio Leone (1929-1989) applicò un approccio altrettanto rivoluzionario al western, un genere che negli anni Cinquanta sembrava aver esaurito la propria capacità di innovazione. Con il suo stile personale, il regista non solo reinventò il genere, ma lo trasformò in una forma d’arte epica e universale, capace di parlare al pubblico di tutto il mondo. Il viaggio rivoluzionario di Leone inizia con Per un pugno di dollari (1964), il primo capitolo della cosiddetta “Trilogia del dollaro”. Questo film, ispirato al giapponese Yojimbo di Akira Kurosawa, introduce un antieroe (interpretato da Clint Eastwood) lontano dagli stereotipi hollywoodiani. Il protagonista, soprannominato “l’uomo senza nome”, è un mercenario silenzioso, mosso più dall’istinto di sopravvivenza che da un codice morale eroico.
Con Il buono, il brutto, il cattivo (1966), Leone raggiunge l’apice della sua innovazione narrativa e stilistica. La sequenza finale, il famoso “triello”, ambientato in un cimitero diroccato, è un esempio magistrale di tensione cinematografica. Leone dilata il tempo narrativo con primi piani serrati sugli occhi dei personaggi, intercalati da inquadrature ampie dello spazio. La colonna sonora di Ennio Morricone, con il suo tema iconico, amplifica la drammaticità, rendendo il confronto un’esperienza quasi rituale.
In C’era una volta il West (1968), poi, Leone abbandona la narrazione episodica per una struttura epica. Il film è una meditazione sulla fine del West e sull’inevitabile arrivo della modernità, simboleggiata dalla costruzione della ferrovia. Henry Fonda, solitamente associato a ruoli eroici, interpreta Frank, un villain spietato, incarnando la complessità morale che Leone attribuisce ai suoi personaggi. Come Caravaggio, Leone utilizza la luce e l’ombra per costruire un’atmosfera carica di tensione. L’uso del paesaggio, combinato con il ritmo lento delle scene e i lunghi silenzi, crea un senso di grandiosità quasi sacrale, simile a quello delle tele del maestro lombardo.

Due visioni rivoluzionarie

Sebbene separati da secoli e discipline diverse, Caravaggio e Sergio Leone condividono un approccio simile nell’arte narrativa. Entrambi si concentrano sull’essenza dell’azione e delle emozioni umane, ridefinendo la relazione tra i protagonisti e il contesto che li circonda. Le loro opere non sono semplicemente rappresentazioni estetiche, ma esperienze immersive in cui ogni dettaglio è carico di significato.
Caravaggio e Leone sono maestri nel catturare l’essenza di un momento decisivo, amplificandone l’intensità fino a renderlo universale. Caravaggio congela l’azione nel suo climax emotivo, come in Davide con la testa di Golia (1610), dove il giovane eroe tiene il capo mozzato del gigante con un’espressione che mescola vittoria, pietà e riflessione. La scena non celebra soltanto l’atto eroico, ma penetra la complessità psicologica del personaggio, rendendo evidente il peso morale della violenza. La luce drammatica, che illumina il volto di Davide lasciando in penombra il resto, accentua la tensione e invita lo spettatore a riflettere sul significato più profondo dell’evento.
Leone adotta una modalità espressiva simile, ma attraverso il linguaggio del cinema. Il suo montaggio dilatato e l’uso insistito di primi piani, in particolare negli sguardi, trasformano il tempo narrativo in un campo di battaglia psicologico. Nel celebre triello, ogni inquadratura diventa un frammento di tensione, mentre i personaggi si studiano e si preparano allo scontro. Qui, Leone non si limita a rappresentare il duello: lo carica di un simbolismo epico, in cui ogni movimento e ogni silenzio si accumulano in un crescendo emotivo che esplode solo nell’ultimo, fatidico istante.
Entrambi gli artisti mostrano una maestria unica nel focalizzarsi sull’attesa e sull’impatto emotivo, trasportando lo spettatore al centro della scena. Per Caravaggio, è l’istante in cui la luce divina sembra rivelare il dramma umano; per Leone, è il momento in cui il suono – o il suo assordante silenzio – anticipa l’inevitabile.
Caravaggio e Leone utilizzano il contrasto come elemento centrale per costruire tensione e drammaticità nelle loro opere.
Per Caravaggio, il chiaroscuro non è solo un espediente tecnico, ma un linguaggio narrativo. Nei suoi dipinti, come La vocazione di san Matteo (1600), la luce non si limita a illuminare i soggetti, ma guida lo sguardo dello spettatore verso il fulcro dell’azione. Qui, Cristo punta il dito verso Matteo, un esattore delle tasse, in un gesto che sembra divino e umano allo stesso tempo. La luce, proveniente da una fonte invisibile, separa il sacro dal profano, creando una tensione visiva che sottolinea il conflitto interiore del personaggio.
Leone applica una filosofia simile nel cinema, sfruttando i contrasti tra silenzio e suono, immobilità e movimento, per costruire sequenze di tensione estrema. In C’era una volta il West (1968), l’arrivo di Harmonica (Charles Bronson) è introdotto da un lungo silenzio, rotto soltanto dai suoni ambientali: il cigolio di una ventola, il ronzio di una mosca. Leone utilizza questi dettagli per creare un’atmosfera opprimente, che esplode nell’improvviso sparo. Il contrasto non è solo visivo, ma multisensoriale, amplificando il coinvolgimento dello spettatore.
Questa ricerca del contrasto trasforma le loro opere in esperienze drammatiche potenti, in cui ogni elemento – dalla luce alla musica, dai gesti ai silenzi – partecipa alla narrazione.
Caravaggio e Leone si distinguono per la loro capacità di rappresentare l’umanità in tutte le sue sfaccettature, evitando le idealizzazioni e abbracciando la complessità morale dei loro personaggi.
Per Caravaggio, santi e peccatori condividono la stessa condizione umana. In La conversione di san Paolo (1601), il futuro apostolo è rappresentato in un momento di vulnerabilità: caduto da cavallo, giace a terra con le braccia aperte, come se accettasse il peso della sua trasformazione spirituale. Non c’è traccia di idealizzazione: Paolo è un uomo comune, con il corpo robusto di un lavoratore e un’espressione di sgomento. Questo approccio, che sfidava le convenzioni religiose del tempo, evidenzia la tensione tra divino e terreno, tra grazia e fragilità.
Leone, allo stesso modo, rifiuta l’idea dell’eroe monolitico. I suoi protagonisti, come l’uomo senza nome o Frank in C’era una volta il West, non sono eroi o villain nel senso tradizionale, ma individui complessi, guidati da motivazioni ambigue. In Il buono, il brutto, il cattivo, il personaggio di Clint Eastwood incarna questa dualità: un cacciatore di taglie che, pur mostrando tratti di umanità, agisce principalmente per interesse personale. Leone utilizza questa ambiguità per decostruire il mito del West, trasformandolo in uno specchio delle contraddizioni umane.
Entrambi gli artisti comprendono che la vera drammaticità non nasce dalla perfezione, ma dalle imperfezioni: dai dubbi, dalle debolezze e dalle lotte interiori dei loro personaggi. Questa rappresentazione realistica rende le loro opere universali, capaci di parlare a generazioni diverse.
La capacità di Caravaggio e Leone di trasformare ogni elemento estetico e narrativo in un mezzo per raccontare storie profonde li accomuna come innovatori delle rispettive arti. Per entrambi, il realismo e la tensione non sono solo una scelta stilistica, ma un mezzo per sondare le grandi domande della vita: il sacrificio, la redenzione, l’ambizione e l’inesorabile trascorrere del tempo. La loro eredità, radicata nella drammaticità del momento, nei contrasti estetici e nella profondità umana, continua a influenzare artisti e registi di tutto il mondo, ricordandoci che l’arte, in ogni forma, è una ricerca incessante di verità.
Caravaggio e Sergio Leone hanno ridefinito i confini delle rispettive arti, trasformando le convenzioni in nuove forme di espressione. Le opere del pittore lombardo continuano a ispirare artisti e registi per il loro uso magistrale della luce e della composizione narrativa. Allo stesso modo, il cinema moderno deve molto al regista romano, le cui innovazioni stilistiche hanno suggestionato registi come Quentin Tarantino e Christopher Nolan.
Entrambi ci ricordano che l’arte, sia essa visiva o cinematografica, non è solo intrattenimento, ma una lente attraverso cui guardare la complessità dell’esperienza umana. Caravaggio e Leone, pur divisi da secoli, ci insegnano che rivoluzionare significa avere il coraggio di guardare il mondo con occhi nuovi e raccontarlo con una voce che non si piega alle convenzioni.

 

 

 

 

 

L’inno alla menzogna

L’arte come rivolta e verità suprema in Oscar Wilde

 

 

 

 

La decadenza della menzogna di Oscar Wilde, pubblicato, per la prima volta, nel 1889, è un saggio emblematico del pensiero dell’autore e dell’estetismo di fine Ottocento, un movimento che rivendicava la centralità dell’arte e della bellezza nella vita contro l’imperante utilitarismo e moralismo della società vittoriana. Wilde, figura iconica di questo movimento, utilizza questo saggio per presentare una difesa appassionata della finzione e della menzogna creativa come essenza stessa dell’arte e della cultura.
La forma dialogica, scelta non casualmente da Wilde, richiama l’antica tradizione platonica e ci introduce a una discussione vivace e stimolante tra Vivian e Cyril. Vivian, la voce principale e alter ego intellettuale di Wilde, espone una teoria estetica audace e paradossale, mentre Cyril funge da contrappunto scettico, un elemento essenziale per creare un dibattito in cui le idee si scontrano e si raffinano. La scelta di questa struttura permette a Wilde non solo di presentare i propri argomenti in modo teatrale, ma anche di coinvolgere il lettore in una riflessione attiva.
Wilde sostiene che la menzogna, lungi dall’essere un atto riprovevole, rappresenta l’apice dell’arte. In un mondo in cui la verità è spesso associata al banale e al convenzionale, l’artista, secondo Wilde, ha il dovere di creare mondi nuovi e visioni superiori della realtà attraverso l’invenzione e la finzione.
Questa difesa della menzogna va letta non come un elogio dell’inganno in senso etico, ma come una celebrazione del potere immaginativo dell’arte, capace di rivelare verità più profonde attraverso l’invenzione. L’arte, sostiene Vivian, deve elevarsi al di sopra della realtà e non limitarsi a imitarla in maniera pedissequa. Questa idea sfida direttamente le concezioni naturalistiche dell’epoca, che cercavano nell’arte uno specchio della realtà.

Wilde critica la tradizione platonica che vede l’arte come imitazione della natura, sottolineando come questa visione sia responsabile di una decadenza culturale. Al contrario, l’arte dovrebbe prendere le distanze dalla natura e proporre qualcosa di completamente nuovo e diverso, una creazione originale che trascende la banalità del mondo tangibile. Per Wilde, la realtà è limitata, imperfetta e grezza; l’arte, invece, è raffinata, ideale e trasformativa.
Questa critica alla mimesi anticipa in parte idee moderne sulla funzione dell’arte, che si distacca dall’essere solo un riflesso della realtà per diventare un’interpretazione o una costruzione indipendente. La modernità ha accolto molte di queste idee, influenzando movimenti artistici e letterari successivi, come il surrealismo e il modernismo, che esplorarono la dimensione del sogno, della finzione e del non convenzionale.
Uno degli aforismi più celebri di Wilde, “La vita imita l’arte molto più di quanto l’arte imiti la vita”, riassume una delle idee chiave del saggio. Secondo questa prospettiva, la realtà prende forma dai modelli artistici e non viceversa. Le mode, i comportamenti e persino le emozioni sono influenzati dall’arte, che agisce come un filtro attraverso il quale la società percepisce e costruisce la propria esperienza. Wilde anticipa così la concezione secondo cui i fenomeni culturali plasmano le nostre percezioni della realtà, un’idea che diventerà centrale nella filosofia e nella critica culturale del Novecento.
La decadenza della menzogna, quindi, non costituisce solo una difesa teorica dell’arte, ma anche una critica sottile e ironica alla società del tempo. Wilde mette in discussione il culto della scienza, del progresso e della verità empirica, sostenendo che una società ossessionata da questi valori rischia di diventare priva di fantasia e di bellezza. La provocazione non è fine a se stessa; piuttosto, serve a scardinare il conformismo intellettuale e a incoraggiare un ritorno all’apprezzamento dell’arte per il suo valore intrinseco.
Le riflessioni di Wilde sulla menzogna e sull’arte sono ancora oggi fonte di ispirazione per il dibattito sull’autonomia dell’arte. La sua difesa dell’immaginazione come strumento di verità superiore ha influenzato non solo la letteratura e l’arte visiva, ma anche la critica filosofica e la teoria della percezione. In un’epoca in cui le rappresentazioni digitali e i mondi virtuali stanno ridefinendo la nostra esperienza del reale, le idee di Wilde sulla finzione e sull’illusione appaiono particolarmente pertinenti.
La sua opera sfida le nozioni tradizionali di verità e realtà, e ci invita a considerare l’importanza di preservare lo spazio dell’immaginazione come un regno di libertà creativa e introspezione. La decadenza della menzogna ci ricorda che, nella sua forma più alta, l’arte è un mezzo attraverso il quale possiamo sfuggire alla tirannia della realtà per scoprire nuove prospettive e significati.

 

 

 

 

Le labbra di Giuditta

Il confine invisibile tra vita e morte

 

 

 

 

Nel chiaroscuro di questa tela di Caravaggio (Giuditta e Oloferne, 1603 – Gallerie Nazionali d’Arte Antica, Palazzo Barberini, Roma), in quel mondo d’ombre e di luce che sembra respirare vita propria, un dettaglio spicca con la grazia silenziosa e l’intensità del non detto: le labbra di Giuditta. Un piccolo, ma potentissimo punto focale, capace di catalizzare l’attenzione dello spettatore, quasi a volerlo condurre dentro la sua mente, nei recessi più profondi della sua volontà. Non è solo la mano che tiene la spada a raccontare la storia, non è il braccio teso che definisce il coraggio: sono le sue labbra, ferme, scolpite nella tensione del momento, a portare il peso dell’azione imminente.
Rosse, sì, ma non semplicemente rosse, come un dettaglio decorativo o il simbolo di una sensualità femminile. Sono scarlatte, pulsano di vita propria, come se il sangue che ancora non è stato versato le attraversasse, anticipando il momento della decapitazione di Oloferne. In quell’istante eterno, le labbra di Giuditta sono cariche di un’energia contenuta, pronte a esplodere in un urlo che però non giunge. Il loro silenzio è un grido trattenuto, un’emozione congelata nel gelo del dovere.
Nella loro forma c’è un messaggio più sottile. Le labbra di Giuditta non sono morbide, né socchiuse in un accenno di esitazione o di timore. Sono risolute, come una linea che traccia il confine tra la tenerezza di una donna e l’implacabile necessità di giustizia. Sono labbra che non concedono spazio alla compassione, ma che al contempo non riescono a nascondere del tutto il peso del sacrificio che stanno per compiere. È un sacrificio morale, oltre che fisico: la scelta di Giuditta non è solo una questione di forza, ma di coscienza.


Caravaggio ci invita a guardarle da vicino, a perdere lo sguardo tra quei contorni perfetti e allo stesso tempo umani, vulnerabili. Non ci sono tracce di sensualità nel modo in cui l’artista dipinge Giuditta, eppure quelle labbra richiamano una sorta di fascino irresistibile. Non è la bellezza carnale a catturare, ma la complessità dell’emozione che le attraversa. Sembrano sul punto di tremare, di rivelare un’umanità profonda, ma restano salde, come se trattenessero l’intero dramma della scena. Lì, in quel piccolo spazio tra il respiro e il pensiero, tra il coraggio e la paura, si gioca tutto il significato dell’atto.
Ma c’è di più: il loro silenzio parla. Le labbra di Giuditta non si muovono, ma ci parlano di un mondo interiore tormentato. Sono labbra che hanno conosciuto forse il piacere della vita, ma ora si trovano ad affrontare il sacrificio estremo, quello che richiede di spogliarsi di ogni sentimento personale per abbracciare un destino più grande. In quell’istante, Giuditta non è più solo una donna, ma diventa il simbolo di una forza antica, primordiale: la giustizia che non guarda in faccia nessuno, nemmeno a sé stessa.
Eppure, anche nel loro rigore, c’è un lieve accenno di umanità nascosta. Caravaggio, con il suo realismo crudo, non permette che Giuditta sia una figura mitica senza difetti. Quelle labbra trattengono un dubbio, forse un residuo di pietà che la donna cerca di soffocare. Sono il riflesso di una decisione definitiva, ma anche di una consapevolezza che porterà con sé il peso di ciò che ha fatto. Sono il margine sottile tra il trionfo e la perdita. La loro bellezza diventa quasi dolorosa, poiché ci ricorda che la giustizia ha un prezzo e che dietro ogni atto di forza si cela una rinuncia, una parte di sé che non tornerà mai più.
In questo modo, Caravaggio eleva un piccolo dettaglio, un tratto apparentemente insignificante come quello delle labbra, a simbolo di tutta la drammaticità dell’evento. Non è solo la testa mozzata di Oloferne a raccontare la storia, ma il volto impassibile di Giuditta e, soprattutto, le sue labbra, ferme, risolute, sospese tra il gesto e il rimorso. In quelle labbra vediamo il conflitto eterno dell’essere umano: il confronto tra la giustizia e la misericordia, tra il dovere e la compassione, tra la forza e la fragilità.
E così, nella sua crudele bellezza, le labbra di Giuditta si trasformano in un ponte tra due mondi, quello della carne e quello dello spirito, tra la vita e la morte. Restano lì, al centro della scena, a ricordarci che la verità della vita spesso si nasconde nei dettagli più piccoli, nei gesti impercettibili, in quelle labbra che, pur socchiuse, raccontano tutto ciò che non può essere detto.

 

 

 

 

La musica di fra Giovanni da Verona:

tra preghiere e canti alla Madonna

 

 

di Carmela Puntillo

 

 

Una cortina scarsamente penetrabile rende purtroppo ardua la ricostruzione della biografia e della formazione di fra Giovanni, nato a Verona intorno al 1457 e qui sicuramente morto nel 1525. I suoi spostamenti fisici, i suoi incarichi come religioso e le sue commissioni come intarsiatore, intagliatore ed architetto si evincono soprattutto dalle Familiarum Tabulae, registri conservati nell’archivio dell’archicenobio di Monte Oliveto Maggiore contenenti i nominativi degli olivetani presenti annualmente nei monasteri della congregazione…

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La fida ninfa: letteratura, musica e scenografia
per un grande capolavoro

 

 

di Carmela Puntillo

 

 

Una cronaca manoscritta delle “Cose e fatti accaduti a Verona fra il 1731 e il 1734” ricorda la creazione sulle scene del “Nuovo teatro Filarmonico” de La fida ninfa di Vivaldi e del Gianguir di Geminiano Giacomelli. La nuova opera vivaldiana rendeva omaggio a un evento maggiore per Verona, inaugurando il suo nuovo teatro d’opera, realizzato sui piani del famoso architetto Bibiena e la cui apertura era attesa. La pazienza dei veronesi era stata messa a dura prova per tutto il tempo trascorso fra la chiusura del Teatro del Capitano nel 1715 e l’inaugurazione del Nuovo teatro Filarmonico con La fida ninfa…

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Antonio Vivaldi (1678-1741)

 

 

 

 

Franca Florio

Splendore della rosa di Sicilia

 

 

 

 

Franca Florio, la regina senza corona di Palermo, una donna il cui splendore sfiorò l’eternità, ma il cui cuore conobbe l’amarezza della caducità. Nata Franca Jacona della Motta dei baroni di San Giuliano, nel 1873, il suo destino sembrava scritto tra le linee di antichi titoli nobiliari e raffinate eleganze. Eppure, la sua vera grandezza sarebbe emersa nell’incontro con Ignazio Florio, l’erede di una delle famiglie più ricche e influenti della Sicilia.
La loro unione fu l’alba di un’epoca: la Palermo della Belle Époque si specchiava in Franca, che divenne simbolo e musa della rinascita culturale e artistica della città. Il suo matrimonio con Ignazio la trasportò in un vortice di lussi, feste sfarzose e corti di artisti e intellettuali. I Florio erano gli imperatori non ufficiali della Sicilia, e Franca ne era la regina luminosa, splendente in ogni evento mondano, tra balli di gala e serate d’opera.


Ma non era soltanto un’icona di bellezza e stile, sebbene gli artisti dell’epoca la celebrassero come tale. Giovanni Boldini, il grande maestro del ritratto, catturò la sua figura in un dipinto che ancora oggi racconta il suo fascino immortale: il corpo snello, il volto nobile, i lunghi capelli corvini avvolti in un’aura di mistero. Quel ritratto, carico di movimento e sfavillio, è uno specchio del suo essere, ma anche un’ombra di ciò che avrebbe perso.
Franca fu al centro della scena, corteggiata dai più grandi del suo tempo: Gabriele D’Annunzio la chiamava “l’Unica”, riconoscendo in lei una bellezza non solo fisica, ma spirituale, una raffinatezza che parlava di antiche radici e di una modernità nascente. Ma al di là dei salotti e delle lodi, il cuore di Franca batteva sempre per il suo Ignazio, in una storia d’amore tanto gloriosa quanto dolorosa. Lontana dal solo ruolo di moglie, Franca fu complice e consigliera di Ignazio, condividendo con lui successi e disfatte, vedendo l’impero della famiglia crescere e, poi, inesorabilmente, sgretolarsi.
L’età dell’oro dei Florio non durò per sempre. Le difficoltà economiche, i rovesci di fortuna e le tragedie personali si abbatterono sulla famiglia. Franca assisté al declino del nome che tanto aveva contribuito a far brillare. Gli ultimi anni della sua vita furono segnati dalla malinconia, dal ricordo di un passato luminoso che sembrava svanire, come il sole al tramonto sul mare di Palermo. Eppure, persino nel crepuscolo della sua esistenza, rimase un simbolo di grazia e dignità, un esempio di resilienza.
Oggi, quando il vento soffia tra i viali di Villa Igiea o le onde accarezzano i moli del porto, sembra di percepire ancora la sua presenza, come un sussurro elegante che attraversa il tempo. Franca Florio è l’eco di un’epoca in cui la bellezza, l’amore e l’arte sembravano intrecciarsi indissolubilmente, per poi svanire come un sogno di cui rimane solo il ricordo, intriso di nostalgia e ammirazione.

 

 

 

 

Maria Callas

Il canto struggente dell’eterno

 

16 settembre 1977

 

 

Maria Callas, la Divina, non è stata soltanto una cantante: era un’anima intrappolata tra il mondo mortale e quello dell’eterno, capace di far vibrare il cuore umano come se fosse parte di un’orchestra d’archi invisibile. La sua voce è stata un paesaggio vasto e sconfinato di emozioni: talvolta ruvido, altre volte dolce, sempre intenso. Ogni sua interpretazione sembrava un rito antico, un sacrificio d’amore che consumava l’artista e l’ascoltatore in un unico abbraccio di dolore e bellezza.
Nata nel 1923, a New York, da genitori greci, era destinata fin dalla nascita a un cammino solitario, fatto di gloria e tormento. Come una fenice, rinacque dall’anonimato per brillare nei più grandi teatri del mondo, ma dietro quel fulgore si nascondeva sempre un’ombra, un’irrequietezza che l’ha accompagnata fino alla fine. La sua carriera è stata una parabola splendente eppure straziata, un continuo oscillare tra il trionfo e la caduta.
Con il suo talento senza pari, Maria Callas ha ridefinito l’opera. La sua capacità di coniugare una tecnica vocale impeccabile con una profondità interpretativa disarmante l’ha rese unica. Quando interpretava ruoli come Norma, Tosca o Violetta, non era più solo una cantante: lei era il personaggio. Ogni gesto, ogni sguardo, ogni nota erano immersi in un’autenticità così dolorosa che gli spettatori si ritrovavano a vivere, a soffrire, a morire insieme a lei.


Non era perfetta, Maria. La sua voce, a tratti aspra, quasi spezzata, era spesso criticata. Ma è proprio questa imperfezione a renderla immortale. Era la sua vulnerabilità a fare della sua arte un’esperienza trascendentale. Come il marmo che porta le cicatrici del tempo, la sua voce, segnata dalle ferite della vita, raccontava storie che nessuna tecnica impeccabile avrebbe potuto narrare. Lei stessa era solita dire: “Il mio segreto? Forse la mia infelicità”.
L’infelicità era l’ombra che non l’abbandonava mai. Nonostante il successo, è stata una donna divisa tra il desiderio d’amore e l’inesorabile solitudine che il destino le aveva riservato. La sua tormentata relazione con Aristotele Onassis, l’uomo che le spezzò il cuore, rappresenta un capitolo doloroso, forse il più doloroso, nella sua biografia. Era come se ogni trionfo sul palco fosse pagato con una perdita nella vita reale. Un sacrificio necessario per donare al mondo quella bellezza struggente, quell’arte sublime che solo il dolore poteva alimentare.
Negli ultimi anni, la sua voce iniziò a spegnersi, come una candela consumata dal vento della sua stessa passione. Si ritirò dal palcoscenico, ma il mondo non la dimenticò. Il suo canto continuava – e continua – a risuonare nell’anima di chiunque l’aveva ascoltata, come un’eco che attraversa i secoli, un grido che non si spegnerà mai.
Maria Callas visse e morì come un’opera lirica: tragica, passionale, ineluttabile. La sua arte, intessuta di sacrifici e gloria, dolore e bellezza, è un dono che seguiterà a vivere, come una fiamma eterna, nelle note che volano leggere e nei cuori che battono al suono del suo nome.

 

 

 

Visita guidata alla collezione di icone russe
delle gallerie di Palazzo Leoni Montanari

 

 

di Carmela Puntillo

 

 

Il Palazzo Leoni Montanari accoglie chi si dispone alla visita con una facciata poco appariscente; solo la teoria scultorea di divinità al sommo dei prospetti anticipa il trionfo olimpico che si dispiega nella decorazione degli ambienti. Il portico, vigilato da creature mostruose, con la sua penombra evoca la dimensione sotterranea degli inferi, tanto da ospitare un gruppo scultoreo di eloquente iconografia, ovvero il Ratto di Proserpina…

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