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Borromini a Sant’Ivo alla Sapienza: un capolavoro assoluto

 

da

RestaurArs

 

 

Che Roma sia la città del Barocco è un dato di fatto. Ma la straordinaria abilità di Francesco Borromini – troppo spesso forse – passa in secondo piano rispetto alle opere realizzate in città dall’altro grandissimo artista a lui contemporaneo, Gian Lorenzo Bernini. Ma ad onor del vero l’idea esecutiva a livello architettonico espressa dalle loro opere non potrebbe essere più diversa…

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Francesco Borromini (1599 – 1667)

 

 

La grande “burla” di Michelangelo Buonarroti

 

 

 

Ebbene sì!!! La più grande burla della storia è stata propinata alla Chiesa proprio sotto il naso e, per di più, in un capolavoro collocato, in saecula saeculorum, presso la sede “santa”, in modo che, quotidianamente, possano ammirarlo e continuare a credere di non vedervi nulla. Eh sì, perché ad osservare bene il drappo con angeli nel quale è Dio, si vede chiaramente come esso altro non rappresenti che il cervello umano, nella forma che tutti noi, oggi, conosciamo, grazie a quella libera scienza che molti “santi” hanno avversato con condanne a morte e roghi. Questo perché, anche il sommo Michelangelo, nonostante fosse vissuto cinque secoli fa, ne aveva contezza, in quanto dissezionava cadaveri, per studiarne l’anatomia e le parti interne. L’eccelso artista, quindi, ha voluto significare ai suoi “santi” committenti e al mondo: Dio è stato creato dal cervello umano che, di conseguenza, crea anche il mondo dei fenomeni. Il resto sono favole!!! Sono più chiaro: Dio non esiste perché è una creazione della mente dell’uomo e se Dio non esiste, non dovreste esistere neppure voi intesi come associazione che lo rappresenta, a vario titolo, in Terra!
Strano, però, che quegli unici e “santi” detentori della verità non si siano ancora accorti di questa impercettibile sottigliezza. Evidentemente, oggi come nel Cinquecento, sono troppo impegnati a contare danari e non hanno il tempo di alzare il naso al cielo, neppure per contemplare un capolavoro dell’arte universale!

 

Michelangelo Buonarroti, “La creazione di Adamo” (1511)
Cappella Sistina, Roma

 

 

Leonardo da Vinci, l’Ultima Cena e la scelta della damnatio

 

 

 

Esiste un aneddoto nella storia dell’arte italiana secondo il quale a Leonardo da Vinci mancasse soltanto un ultimo personaggio da dipingere alla sacra mensa dell’Ultima Cena: Giuda. Ebbene, il sommo artista si recò in una taverna malfamata, l’unico luogo confacente, insieme con una galera, dove poter rintracciare il modello cui ispirarsi per ritrarre uno degli uomini più vituperati dell’umanità. Vi trovò un baro ubriaco, col viso e l’anima segnati dagli eccessi. Lo ritenne perfetto. Terminato il suo celeberrimo capolavoro parietale, scoprì che quello stesso uomo, ormai ridotto ad una carogna, gli aveva fatto da modello, precedente-mente, per dipingere, al medesimo desco benedetto, le fattezze di Gesù Cristo
Che sia vero o meno, questo racconto può divenire metafora dell’esistenza di alcuni uomini. Quegli uomini, i quali, seppure destinati all’elezione, hanno scelto di vivere la damnatio, la dannazione!

 

cenacolo100Leonardo Da Vinci, l’Ultima Cena, 1495-1498
Milano, Refettorio del Convento di Santa Maria delle Grazie

 

ultima_cena_da_vinci_partParticolare dall’Ultima Cena
In primo piano, Giuda Iscariota con la mano al collo dell’apostolo Giovanni

 

 

Venere, la Dea Madre e la Donna Madre

 

 

Quanto è poco materna la donna, oggi! È nella maternità che essa sublima la sua natura superiore, non negli smalti o nei belletti, nei tacchi e nelle silhouette filiformi. Bisognerebbe tornare ai tempi in cui Tiziano dipingeva le sue Veneri o, molto più indietro, al matriarcato delle società delle origini, quando gli uomini veneravano, nella Dea Madre, il grembo della Donna Madre.

 

downloadTiziano Vecellio, “Venere d’Urbino”, 1538
Firenze, Galleria degli Uffizi

 

tumblr_muob3ekL681qc7fmjo3_1280“Venere di Willendorf” (Dea Madre)
Austria, XXII millennio a.C.

 

 

John William Waterhouse, Giacomo Leopardi e la Primavera

 

 

Perchè i celesti danni
ristori il sole, e perchè l’aure inferme
Zefiro avvivi, onde fugata e sparta
delle nubi la grave ombra s’avvalla;
credano il petto inerme
gli augelli al vento, e la diurna luce
novo d’amor desio, nova speranza
ne’ penetrati boschi e fra le sciolte
Ppuine induca alle commosse belve;
forse alle stanche e nel dolor sepolte
umane menti riede
la bella età, cui la sciagura e l’atra
face del ver consunse
innanzi tempo? Ottenebrati e spenti
di febo i raggi al misero non sono
in sempiterno? Ed anco,
Primavera odorata, inspiri e tenti
questo gelido cor, questo ch’amara
nel fior degli anni suoi vecchiezza impara?

vivi tu, vivi, o santa
Natura? vivi e il dissueto orecchio
della materna voce il suono accoglie?
Già di candide ninfe i rivi albergo,
placido albergo e specchio
furo i liquidi fonti. Arcane danze
d’immortal piede i ruinosi gioghi
scossero e l’ardue selve (oggi romito
nido de’ venti): e il pastorel ch’all’ombre
meridiane incerte ed al fiorito
margo adducea de’ fiumi
le sitibonde agnelle, arguto carme
sonar d’agresti Pani
udì lungo le ripe; e tremar l’onda
vide, e stupì, che non palese al guardo
la faretrata Diva
scendea ne’ caldi flutti, e dall’immonda
polve tergea della sanguigna caccia
il niveo lato e le verginee braccia.

Vissero i fiori e l’erbe,
vissero i boschi un dì. Conscie le molli
aure, le nubi e la titania lampa
fur dell’umana gente, allor che ignuda
te per le piagge e i colli,
ciprigna luce, alla deserta notte
con gli occhi intenti il viator seguendo,
te compagna alla via, te de’ mortali
pensosa immaginò. Che se gl’impuri
cittadini consorzi e le fatali
ire fuggendo e l’onte,
gl’ispidi tronchi al petto altri nell’ime
selve remoto accolse,
viva fiamma agitar l’esangui vene,
spirar le foglie, e palpitar segreta
nel doloroso amplesso
dafne o la mesta Filli, o di Climene
pianger credè la sconsolata prole
quel che sommerse in Eridano il sole.

Né dell’umano affanno,
igide balze, i luttuosi accenti
voi negletti ferìr mentre le vostre
paurose latebre Eco solinga,
non vano error de’ venti,
ma di ninfa abitò misero spirto,
cui grave amor, cui duro fato escluse
delle tenere membra. Ella per grotte,
per nudi scogli e desolati alberghi,
le non ignote ambasce e l’alte e rotte
nostre querele al curvo
etra insegnava. E te d’umani eventi
disse la fama esperto,
musico augel che tra chiomato bosco
or vieni il rinascente anno cantando,
e lamentar nell’alto
ozio de’ campi, all’aer muto e fosco,
antichi danni e scellerato scorno,
e d’ira e di pietà pallido il giorno.

Ma non cognato al nostro
il gener tuo; quelle tue varie note
dolor non forma, e te di colpa ignudo,
men caro assai la bruna valle asconde.
Ahi ahi, poscia che vote
son le stanze d’Olimpo, e cieco il tuono
per l’atre nubi e le montagne errando,
gl’iniqui petti e gl’innocenti a paro
in freddo orror dissolve; e poi ch’estrano
il suol nativo, e di sua prole ignaro
le meste anime educa;
tu le cure infelici e i fati indegni
tu de’ mortali ascolta,
vaga natura, e la favilla antica
rendi allo spirto mio; se tu pur vivi,
e se de’ nostri affanni
cosa veruna in ciel, se nell’aprica
terra s’alberga o nell’equoreo seno,
pietosa no, ma spettatrice almeno. 

(Giacomo Leopardi, “Alla Primavera o delle favole antiche“, gennaio 1822)

 

 

John William Waterhouse, “Flora and the Zephyrus” (1898), olio su tela (video da www.restaurars.altervista.org)

 

 

 

 

Edward Hopper, Pier Paolo Pasolini e la Solitudine

 

 

Senza di te tornavo, come ebbro,
non più capace d’esser solo, a sera
quando le stanche nuvole dileguano
nel buio incerto.
Mille volte son stato così solo
dacché son vivo, e mille uguali sere
m’hanno oscurato agli occhi l’erba, i monti
le campagne, le nuvole.
Solo nel giorno, e poi dentro il silenzio
della fatale sera. Ed ora, ebbro,
torno senza di te, e al mio fianco
c’è solo l’ombra.
E mi sarai lontano mille volte, 
e poi, per sempre. Io non so frenare
quest’angoscia che monta dentro al seno;
essere solo.

(Pier Paolo Pasolini, “Senza di te tornavo“, da “Tutte le poesie”, Volume 2, “I Meridiani” Mondadori, 2003)

 

 

 

Edward Hopper (1882-1967), Opere (video da www.restaurars.altervista.org)

 

 

 

 

Sandro Botticelli, Percy Bysshe Shelley e la Bellezza

 

 

I

La terribile ombra d’un invisibile Potere fluttua
in mezzo a noi, benché non vista – e visita
questo svariato mondo con incostante ala,
come le brezze dell’estate che strisciano di fiore in fiore.
Come raggi di luna che dietro una montagna fitta di pini scrosciano,
visita con sguardo incostante
il cuore e il volto di ogni uomo;
come colori e armonie la sera,
come nuvole disperse nel chiarore delle stelle,
come il ricordo d’una musica fuggita,
come qualcosa che per sua grazia possa
essere cara, e tuttavia più cara per il suo mistero.

II

Spirito di bellezza, che consacri
coi tuoi colori ogni pensiero e ogni forma
umana su cui splendi – dove te ne sei andato?
perché trascorri e lasci il nostro stato,
questa oscura e vasta valle di lacrime, deserta e desolata?
Chiedi perché per sempre il sole
non tessa arcobaleni sul torrente,
perché quello che appare, scolori e si dissolva, –
perché paura e sogno e morte e nascita
sulla giornata della terra gettino
un’ombra tale, – e all’uomo venga dato
tanto d’amore e d’odio, e di sconforto e di speranza?

III

Da mondi più sublimi nessuna voce ha mai
dato ai poeti o ai saggi la risposta –
perciò i nomi di Dio, dei demoni e del Cielo,
non sono che tracce del loro vano sforzo, incanti fragili,
che recitati non aiutano a staccare
da tutto quello che sentiamo e vediamo
il dubbio, il caso e la mutevolezza.
Soltanto la tua luce – come una nebbia sopra i monti,
o musica che il vento della notte
manda attraverso uno strumento immoto,
o il chiaro della luna sulle acque,
dà grazia e verità al sogno inquieto della vita.

IV

Speranza, Amore, e Orgoglio, passano come nuvole e ritornano,
per qualche incerto attimo concessi.
L’uomo sarebbe immortale, e onnipotente,
se tu, ignota e terribile, fissassi
col tuo glorioso seguito dimora nel suo cuore.
Tu messaggero degli affetti
che crescono e declinano negli occhi degli amanti –
tu – che alimenti il pensiero umano,
come l’oscurità una fiamma morente!
non ti partire come la tua ombra venne,
non ti partire – o la tomba sarà
come la vita e la paura, un’oscura realtà.

V

Fanciullo ancora, andavo in cerca di spettri e attraversavo
fugace stanze vigili, rovine e anfratti,
e boschi al chiarore delle stelle, con timorosi passi perseguendo
speranze d’alto conversar coi morti.
E invocavo i nomi velenosi che nutrono la nostra giovinezza;
non fui ascoltato – non li vidi – quando,
mentre ero assorto sul destino
del vivere, nel dolce tempo in cui i venti corteggiano
tutte le cose vive che si destano per recare
nuove gemme e fiori, – all’improvviso,
la tua ombra cadde sopra di me;
io detti un grido, e giunsi le mani in rapimento!

VI

Allora feci il voto di consacrare le mie forze
a te e a ciò che t’appartiene – non l’ho mantenuto?
Con cuore palpitante e occhi in lacrime, adesso
dai loro taciti sepolcri invoco
i fantasmi di mille ore, che in pergolati chiari di visioni,
d’ardente studio o dilettoso amore,
hanno vegliato con me l’invida notte –
e sanno che mai gioia illuminò questa mia fronte
non giunta alla speranza che tu avresti liberato il mondo
dalla sua oscura schiavitù
che tu – terribile splendore,
avresti dato ciò che la parola non può esprimere.

VII

Il giorno diventa più solenne e più sereno,
trascorso il meriggio – c’è un’armonia
in autunno, e una luce nel suo cielo,
che nell’estate non si sente e non si vede,
come se non potesse esserci, come se non ci fosse stata!
Così il tuo potere, che come la verità
della natura sulla mia inerte giovinezza
discese, alla mia vita d’ora innanzi doni
la sua calma – a uno che ti adora,
e venera le forme in cui sei infuso,
e che i tuoi incanti, spirito bello, spinsero
a temere se stesso, e amare tutti gli uomini.

(Percy Bysshe Shelley, Inno alla bellezza intellettuale, 1816)

 

 

Sandro Botticelli, “La nascita di Venere” (1482-1485) tempera su tela di lino (172×278 cm), Firenze, Galleria degli Uffizi (video da www.restaurars.altervista.org)

 

 

 

Il Futurismo e Filippo Tommaso Marinetti

 

 

Una decina di anni fa, mi trovavo a casa di alcuni amici dei miei genitori per festeggiare il Capodanno. Dopo aver generosamente dato fondo, insieme con uno dei loro figli, ad una bottiglia di Martini Bianco, mi aggiravo, brillo, nel salotto, aspettando che il padrone di casa ci invitasse a tavola, per dare inizio al banchetto, quando notai una stampa multicolore, sistemata sul muro, dietro un tavolo finemente intarsiato. “Quelli sono i futuristi a Parigi!”, esclamai, ricordandomi di una loro fotografia, vista qualche tempo prima in un libro sul Fascismo Futuristi-a-Parigi-nel-1912e che, molto probabilmente, l’autore della stampa aveva copiata. Chi erano, dunque, questi futuristi fotografati a Parigi, nel 1912? Da sinistra: Luigi Russolo, Carlo Carrà, Filippo Tommaso Marinetti, Umberto Boccioni e Gino Severini. Cosa fu il Futurismo? Il caposcuola fu, senza dubbio, Marinetti, il quale riuscì a contagiare altri artisti, non solo poeti o scrittori, ma anche pittori, architetti e musicisti e artisti. Il Futurismo quindi, non fu soltanto un movimento letterario, bensì interessò tutti i campi dell’arte e della cultura. Marinetti stesso, in un articolo apparso sul quotidiano francese Le Figaro, il 20 Febbraio 1909, intitolato Manifesto del Futurismo, ne aveva dato le linee generali: in primo luogo, affermò il ribrezzo per le idee del passato, spostando l’indagine artistica agli elementi della recente modernità, dalla tecnologia alla velocità, fino alla guerra, perché tutti questi elementi, a suo parere, costituivano la prova della definitiva vittoria dell’uomo sulla natura. Inoltre, quello per la modernità e la distruzione di tutto ciò che il passato rappresentava, fu un vero e proprio culto, tributato dai futuristi attraverso le loro opere. È interessante leggere alcuni punti del Manifesto di Marinetti, perché sono illuminanti per capire aspetti importanti di questo movimento:

Noi vogliamo cantare l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità.
Il coraggio, l’audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia.
La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità penosa, l’estasi ed il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno.
Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova; la bellezza della velocità. […]
Non v’è più bellezza se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro.
La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo. […]
Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei liberatori, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna.
Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica e utilitaria.
E’ dall’Italia che noi lanciamo pel mondo questo nostro manifesto di violenza travolgente e incendiaria col quale fondiamo oggi il Futurismo perché vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, d’archeologi, di ciceroni e d’antiquari. Già per troppo tempo l’Italia è stata un mercato di rigattieri. Noi vogliamo liberarla dagli innumerevoli musei che la coprono tutta di cimiteri.

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Marinetti redasse anche altri manifesti, tutti volti ad affermare, con forza, le nuove linee della poesia e dell’arte, del rapporto dei poeti e degli artisti con la realtà. Tra questi, il più interessante è il Manifesto tecnico della Letteratura Futurista, dell’11 maggio 1912, di cui riporto alcune parti:

Bisogna distruggere la sintassi, disponendo i sostantivi a caso, come nascono.
Si deve usare il verbo all’infinito, perché si adatti elasticamente al sostantivo e non lo sottoponga all’io dello scrittore che osserva o immagina. Il verbo all’infinito può, solo, dare il senso della continuità della vita e l’elasticità dell’intuizione che la percepisce.
Si deve abolire l’aggettivo perché il sostantivo nudo conservi il suo colore essenziale. L’aggettivo avendo in sé un carattere di sfumatura, è incompatibile con la nostra visione dinamica, poiché suppone una sosta, una meditazione.
Si deve abolire l’avverbio, vecchia fibbia che tiene unite l’una all’altra le parole. L’avverbio conserva alla frase una fastidiosa unità di tono.
Ogni sostantivo deve avere il suo doppio, cioè il sostantivo deve essere seguìto, senza congiunzione, dal sostantivo a cui è legato per analogia. Esempio: uomo-torpediniera, donna – golfo, folla – risacca, piazza – imbuto, porta – rubinetto. […]
Abolire anche la punteggiatura. Essendo soppressi gli aggettivi, gli avverbi e le congiunzioni, la punteggiatura è naturalmente annullata, nella continuità varia di uno stile vivo, che si crea da sé, senza le soste assurde delle virgole e dei punti. Per accentuare certi movimenti e indicare le loro direzioni, s’impiegheranno i segni della matematica: + – – x: = > <, e i segni musicali.

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In accordo con i contenuti di quest’ultimo manifesto è la composizione che segue, tratta da Zang Tumb Tuuum, poemetto ispirato all’assedio di Adrianopoli, durante la prima guerra dei Balcani, nel 1913:

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Incredibile a dirsi, questa è una poesia, anche se sembra un quadro. Le parole e i versi, disposti sulla pagina, in libertà, paiono descrivere un’immagine, come se il foglio fosse una tela e le parole i colori. Marinetti tuttavia, insieme con gli altri futuristi, scrisse anche poesie “normali”, secondo lo stile consolidato dall’inizio della storia dell’uomo, ovvero versi lineari di parole, con senso compiuto, senza errori di grammatica e, soprattutto, senza costringere il lettore ad acrobazie fisiche per poter leggere il tutto. Eccone una:

Veemente dio d’una razza d’acciaio,
Automobile ebbra di spazio,
che scalpiti e fremi d’angoscia
rodendo il morso con striduli denti…
Formidabile mostro giapponese,
dagli occhi di fucina,
nutrito di fiamma
e d’olî minerali,
avido d’orizzonti, di prede siderali…

(Filippo Tommaso Marinetti, All’automobile da corsa, 1908, vv. 1-9)

 

Boccioni_LaCittaCheSaleUmberto Boccioni, “La città che sale”, 1910, New York, Museo Guggenheim

 

 

 

Intervento integrale di Riccardo Piroddi alla presentazione del romanzo di Raffaele Lauro, “Dance The Love – Una stella a Vico Equense” (Sant’Agata sui Due Golfi, 28 agosto 2016)

 

Friedrich Nietzsche e Violetta Elvin: la poesia della gaia scienza e l’amore della gaia vita

 

Potrei credere solo a un dio che sapesse danzare. E quando ho visto il mio demonio, l’ho sempre trovato serio, radicale, profondo, solenne: era lo spirito di gravità, grazie a lui tutte le cose cadono. Non con la collera, col riso si uccide. Orsù, uccidiamo lo spirito di gravità. Ho imparato ad andare: da quel momento mi lascio correre. Ho imparato a volare: da quel momento non voglio più essere urtato per smuovermi. Adesso sono lieve, adesso io volo, adesso vedo al di sotto di me, adesso è un dio a danzare, se io danzo”.

Buona sera, buona sera a tutti. Le parole che ho appena recitato non sono mie. Lo fossero, ora sarei nell’olimpo dei pensatori di tutti i tempi. Sono di un personaggio della storia del pensiero universale di cui vi parlerò tra poco. Non ho bisogno di presentarmi, mi conoscete tutti. Mi considero ancora un giovane virgulto, figlio di questa terra meravigliosa, la terra massese. Non è un mistero che, da anni, collabori con il professor Lauro, per cui, di quest’opera, che presentiamo stasera, conosco anche l’esatta posizione delle virgole. Lo scorso anno quando, a pochi metri da qui, in piazza, presentammo il romanzo precedente del professor Lauro, “Caruso The Song – Lucio Dalla e Sorrento”, dedicai il mio intervento a donna Violetta. Stasera ella è qui, davanti a me e tra voi, e con il cuore tra le mani, voglio dire a lei che sto per offrirle, non soltanto questa mia relazione, ma la mia anima. Avrei voluto tenere, in questa occasione, un discorso nel quale raccontarvi l’incredibile storia che mi ha visto protagonista, in tutte le fasi che hanno portato alla pubblicazione di questo romanzo, dalle interviste a donna Violetta, alle quali ho avuto la gratificante possibilità di partecipare, in qualità di novizio di frate Guglielmo da Baskerville – Lauro, per citare il mio amato Umberto Eco, alla nostra amicizia, la quale è una medaglia d’onore che avrò appuntata sul petto fino alla fine dei miei giorni, alle nostre telefonate notturne, sovente in inglese, durante le quali parliamo di William Turner, di Dante Alighieri, di letteratura e delle ultime vicende politiche internazionali. Vorrei, ma come mi ha insegnato il filosofo ginevrino Jean Jacques Rousseau, a parlare di sé non si guadagna mai nulla! Ed ecco, allora, che per onorare secondo il massimo delle mie poche possibilità, questa donna straordinaria, ho deciso di indossare i miei abiti migliori, quelli dell’educazione sentimentale e culturale, e di riferirvi talune impressioni suscitatemi da questo bel romanzo, facendomi condurre per mano da uno dei più elevati spiriti dell’umanità, che io sommamente amo e al quale sono enormemente debitore, l’autore delle parole che ho pocanzi recitato: Friedrich Wilhelm Nietzsche.
Perché mai, proprio Nietzsche? Perché, credetemi, Violetta Elvin e Friedrich Wilhelm Nietzsche hanno molte caratteristiche in comune, non soltanto il medesimo amore per la danza. In Nietzsche, la danza è attività libera e liberatrice. E’ espressione, insieme con la musica, di quell’elemento dionisiaco oscuro, contrapposto all’apollineo luminoso. Per mostrarvi, dunque, queste caratteristiche comuni vorrei partire dall’occasione che, nel romanzo, mi ha suggerito questo percorso. Monte Comune, Vico Equense: in un afflato di incanto naturalistico, la giovane Violetta, immersa nell’estasi visiva del golfo di Napoli, ripercorre, in pochi attimi, cito: “Il grande cratere di fuoco, il prevalere delle acque, il consolidarsi di quell’armonia, un’opera d’arte, che anche il più convinto agnostico avrebbe faticato a non definire divina. Da quel punto di osservazione del mondo l’epopea della vita, la nascita di Venere pagana, che emerge dalla spuma delle onde, e il destino dell’umanità, tutto diventava più chiaro, intuitivamente, senza avere più bisogno di spiegazioni”.
La giovane Violetta, in quel momento, decide di riprendere in mano la propria vita, di darle una nuova forma e una nuova direzione. Un nuovo inizio, quindi, Una palingenesi.
Sils Maria, Engadina svizzera: in una notte estiva di luna, Nietzsche, mentre passeggia tra i laghetti che bagnano la località alpestre, ha l’intuizione di una teoria destinata a diventare uno dei capisaldi della sua dottrina filosofica: l’eterno ritorno all’uguale.
Non essendoci un Dio creatore che ha dato inizio a un mondo composto di esseri finiti, allora il mondo non ha né inizio né fine, è eterno ed è composto di esseri infiniti”. “L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere! Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina”.
Queste ultime sono parole di Nietzsche da “La gaia scienza”, opera del 1882, che scrisse quando aveva circa la mia età e nella quale annunziò proprio questa teoria. Ecco, soffermiamoci un attimo su questa parola: gaia. E’ la chiave che mi ha consentito di rintracciare parallelismi tra le esistenze e la poietica di Violetta Elvin e Friedrich Wilhelm Nietzsche. Mi figuro la vita di donna Violetta come una vita gaia, proprio in senso nietzschiano. Nietzsche scrive “La gaia scienza”, opera che rappresenta il passaggio dalla fase cosiddetta dello spirito libero, verso le sommità mature del suo pensiero, influenzato da un luogo fisico, dall’ebbrezza della contemplazione di un paesaggio naturale. Allo stesso modo, Violetta opera, in un medesimo contesto spirituale, quella scelta di vita che le permetterà di chiudere un periodo, quello della danza, e di aprirne un altro, quello dell’amore: Dance The Love, appunto.
C’è dell’altro, però, su cui ho costruito la comparazione tra donna Violetta e Nietzsche e riguarda il mio approccio intimo e personale alle vicende dei due: il mio debito di gratitudine nei confronti di entrambi. Nietzsche è stato uno dei massimi formatori del mio pensiero. Io amo Nietzsche perché la sua filosofia è una filosofia gioiosa, una filosofia dello spiritus construens, una filosofia del futuro. Sono solito rispondere in questo modo alla domanda, che mi viene spesso posta, riguardo cosa ami parlare quando sono con una donna (i dialoghi con una donna sono, per un uomo, il più meraviglioso esercizio di dialettica della passione!). Io amo parlare del futuro. Con le donne io amo parlare del futuro! Questo me lo ha insegnato Nietzsche. Nietzsche ha liberato l’umanità dalle incrostazioni esiziali che la metafisica, da Platone a Hegel, aveva sedimentato nella storia del pensiero occidentale. Il suo celebre adagio, “Dio è morto”, riferibile non soltanto all’ambito religioso, ma, appunto, più in generale, a quello metafisico, è divenuto il suono delle campane che ha destato l’umanità, aprendole gli occhi ad una nuova era. Ne “Il crepuscolo degli idoli”, del 1888, il filosofo spiega, in sei punti, come “il mondo vero finì per diventare una favola”, posando, sulla metafisica occidentale, la più ironica, distruttiva e definitiva pietra tombale. Vi consiglio di leggerla, se siete preparati alla deflagrazione di tutte le vostre credenze. C’è un termine, ricorrente in molti punti dell’opera nietzschiana: antivitale. Egli lo riferisce, particolarmente, alle religioni e ai vecchi sistemi di credenze. Il mio amore per Nietzsche è germogliato grazie a questa parola perché lui, poi, ha saputo palesare cosa fosse e cosa significasse il contrario. Vitale, ciò che abbandona il vecchio e si proietta verso il futuro. L’uomo, infatti, ripudiati i sistemi mentali pregressi, che lo hanno costretto alla schiavitù morale, all’antivitale, adoperata e accettata la trasvalutazione dei valori, per usare la sua terminologia, diviene un essere vitale, proiettato verso il futuro, verso la libertà. Nietzsche ha mostrato a cosa dovesse tendere l’uomo e l’umanità. Nietzsche è stato certamente un uomo pieno d’amore. Un sistema filosofico come il suo ha necessariamente alla base una massiccia quantità di amore. Nella vita, però, da quel punto di vista, fu sfortunato. Amò una sua discepola, Lou Salomé, la quale rifiutò di sposarlo, precipitandolo in una crisi depressiva che, tuttavia, gli fu provvidenziale, in quanto gli ispirò la prima parte di “Così parlò Zarathustra”. E, ancora, nonostante non vi siano prove certe, l’innamoramento, sempre infelice, per Cosima Wagner, seconda moglie del famoso compositore Richard, con i quali, tra l’altro, fu qui, a visitare il monastero del Deserto, negli anni ’80 dell’Ottocento. Un grande uomo, un grande spirito, un’anima libera, un benefattore dell’umanità! Un pensatore cui oggi le giovani generazioni, come la mia, dovrebbero guardare. In un’epoca in cui quanti ci hanno preceduto non hanno lasciato a noi neppure le macerie con le quali poter costruire il nostro futuro, un filosofo il quale, dal punto di vista dottrinario, ha tracciato la via maestra per l’avvenire, deve essere venerato come una divinità! Altro che i falsi miti propinati oggi dai media!
Donna Violetta, adesso questo mio discorso entra nella parte più sentimentale, quella più difficile, per me, da enunciare, perché temo che lacrime di gioia possano rigare il mio viso e occludermi la gola, impedendomi finanche di parlare. Mi rivolgo direttamente a voi, per cercare di chiarire i motivi di questo accostamento della vostra persona e della vostra storia a Nietzsche: Nietzsche filosofo vitale, danzatore dello spirito, uomo d’amore, profeta della libertà, oracolo dell’avvenire. Voi, donna Violetta, artista vitale, danzatrice dello spirito, donna d’amore, profetessa della libertà, oracolo dell’avvenire. Io ho avuto il privilegio di poter ascoltare, dalla vostra viva voce, i racconti della vostra incredibile vita di bambina, di artista, di donna, di moglie e di madre. I lettori di questo bellissimo romanzo lo faranno attraverso le meravigliose pagine che il professor Lauro ha così bellamente costruito. Per cui, non vi indugio affatto. Donna Violetta, questo intervento è affiorato nella mia mente già mentre, un anno e mezzo fa, vi ascoltavo parlare di voi e della vostra storia. Immediatamente, vi ho legata al filosofo di cui ho esposto. Davanti ai miei occhi incantati di giovane avete portato in scena, come facevate al Teatro Bol’šoj  di Mosca o alla Royal Opera House di Covent Garden, nella nostra amatissima Londra, la filosofia di Nietzsche. “Potrei credere solo a un dio che sapesse danzare!” Donna Violetta, voi sapete danzare, eccome, e io credo in voi. Queste mie riflessioni siano un altare che io innalzo al vostro simulacro, al vostro esempio, alla vostra bellezza mai sfiorita. La vostra storia è la dimostrazione reale di quel vitalismo di cui parlava il Nietzsche, sostenuto dall’amore per la vita, per la danza, per l’arte, per un uomo, il vostro Fernando, per un figlio, il vostro Antonio, e per una terra, questa nostra Penisola Sorrentina e Vico Equense, in particolare, nella quale siete sbocciata come il fiore più prezioso, l’orchidea “Scarpetta di Venere”, la stessa scarpetta che indossavate in teatro, e come la Venere cantata da Foscolo nel sonetto “A Zacinto”, avete fatto feconda, o nella quale, come la Beatrice di Dante, siete venuta a miracol mostrare. Il miracolo della vostra stessa vita, che avete donato a questa terra e a noi, suoi abitanti. Donna Violetta, filosoficamente parlando, avete operato quella rivoluzione, non copernicana, come direbbe Immanuel Kant, ma nietzschiana. Avete superato l’oppressione di un regime dittatoriale, che per Nietzsche era la metafisica, aprendo le vostre ali verso la libertà, verso la vita. Avete fatto diventare quel mondo vero, che Lenin, Stalin e il comunismo avevano costruito, una favola. Anche voi avete operato e accettato la trasvalutazione dei valori, avendo la forza di rinunciare, non come Nietzsche, a qualcosa che vi rendeva schiava, ma ancor più difficilmente, a qualcosa che amavate, la danza, per abbracciare qualcuno che avreste amato ancora di più. Avete conquistato la vera libertà: quella di amare! Siete voi stessa diventata il simbolo della libertà. Donna Violetta, ai miei occhi incantati di giovane, spesso velati dalla malinconia dei poeti, voi siete sole splendente, trasfigurata, nietzschianamente trasvalorata, nel sole. “Vergine bella che di sol vestita”, cantava Francesco Petrarca. Come nelle muse dei poeti, io vedo in voi tutte le donne del mondo, tutte le madri del mondo. Nel vostro cuore c’è la storia del mondo. “Potrei credere solo a un dio che sapesse danzare!”. Donna Violetta, guardano a voi, così regale, così bella, così meravigliosa, io penso alla donna che, spero, un giorno possa accompagnarmi nella vita e allora, quando l’avrò davanti, regale, bella e meravigliosa come voi, con il cuore e le gambe tremanti, come in questo momento, le dirò, pensando a voi, pensando al vostro esempio, pensando alla delicatezza e all’affetto che avete sempre mostrato nei miei confronti, che nel teatro del tempo io danzerò la mia vita: tu, sole, come luce di scena e l’eternità come sfondo! Grazie donna Violetta! Grazie a tutti!

 

Violetta Elvin

 

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