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Franco Battiato e il richiamo universale all’equilibrio interiore

Alla ricerca del centro di gravità permanente

 

 

 

 

Cerco un centro di gravità permanente che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose, sulla gente…”.

Queste parole, tratte da uno dei brani più iconici di Franco Battiato, costituiscono non solo il fulcro del pezzo, ma anche una riflessione universale sulla condizione umana e sulla necessità di trovare equilibrio. La profondità e la complessità del testo, tuttavia, vanno ben oltre la semplice musicalità del ritornello. Per comprendere appieno il concetto di “centro di gravità permanente”, è necessario esaminare il contesto filosofico, spirituale e culturale che permea le opere dell’artista.
Battiato non è stato solo un musicista, ma un pensatore, un poeta che ha fatto della musica uno strumento per comunicare concetti profondi e universali. Il suo approccio ai testi era spesso ermetico, caratterizzato da un uso simbolico delle parole, che richiede un’interpretazione approfondita. A una lettura superficiale, le sue canzoni possono sembrare frammenti di pensieri sparsi o giochi di parole senza senso. Tuttavia, un’analisi più attenta rivela un filo conduttore che attraversa temi come la spiritualità, la crescita interiore, il rapporto tra uomo e universo e l’esplorazione della coscienza.
Il riferimento al “centro di gravità permanente” non è casuale, ma parte di un percorso di ricerca spirituale, che Battiato intraprese attraverso lo studio di diverse tradizioni filosofiche e mistiche, tra cui la filosofia orientale, l’esoterismo occidentale e le dottrine di maestri spirituali come Georges Ivanovič Gurdjieff. Quest’ultimo, in particolare, ha influenzato profondamente il pensiero dell’artista, introducendolo ai concetti di auto-osservazione e di risveglio interiore.
Contrariamente a quanto il termine potrebbe suggerire, il centro di gravità permanente non ha nulla a che vedere con un luogo fisico né con la legge gravitazionale. Si tratta, invece, di uno stato interiore, una centratura dell’essere che permette di osservare la realtà con chiarezza e distacco. È uno stato di consapevolezza che consente di superare i condizionamenti esterni e le reazioni automatiche, permettendo all’individuo di vivere in armonia con sé stesso e con il mondo.

Questo stato può essere descritto come un “Io osservatore”, una parte di noi che si limita a osservare senza giudizio sia ciò che accade nel mondo esterno, sia le dinamiche del nostro mondo interiore. Quando siamo centrati, diventiamo spettatori consapevoli delle nostre emozioni, dei nostri pensieri e delle nostre azioni. Questo ci permette di liberarci dalle identificazioni con i nostri molteplici “io” – quegli aspetti frammentati della nostra personalità che spesso agiscono in modo contraddittorio.
L’idea che l’essere umano non sia un’entità unica ma un insieme di personalità multiple è un tema trattato anche nella letteratura, in particolare da Luigi Pirandello. In Uno, Nessuno e Centomila, il drammaturgo descrive la molteplicità dell’io, mostrando come ognuno di noi cambi a seconda del contesto e delle relazioni. La frase: “Ciascuno di noi si crede ‘uno’, ma non è vero: è ‘tanti’” riflette perfettamente questa realtà.
Battiato, con il concetto di centro di gravità permanente, propone una via d’uscita da questa frammentazione: la costruzione di un unico centro stabile che unifichi le nostre molteplici personalità. Questo centro, però, non si costruisce spontaneamente; richiede consapevolezza, presenza e un profondo lavoro su di sé.
Il raggiungimento del centro di gravità permanente è un processo trasformativo che si basa sull’auto-osservazione e sulla presenza mentale. Gurdjieff descrive questa pratica come la “Quarta Via”, un percorso che combina elementi della mente, del corpo e dello spirito per ottenere il risveglio interiore.
L’auto-osservazione è il primo passo: significa prendere coscienza di sé stessi in ogni momento, osservando i propri pensieri, emozioni e comportamenti senza identificarvisi. Questo processo richiede disciplina e volontà, poiché implica il superamento delle abitudini meccaniche che governano la nostra vita quotidiana.
La presenza, invece, è la capacità di vivere nel “qui e ora”, senza essere distratti dal passato o proiettati nel futuro. Solo attraverso la presenza possiamo costruire quel centro stabile che ci permette di affrontare la vita con equilibrio e coerenza. Raggiungere il centro di gravità permanente non significa eliminare le difficoltà o i problemi della vita, ma imparare a viverli con distacco e consapevolezza. Questo stato di coscienza permette di vedere oltre le apparenze, di comprendere la vera natura delle cose e di liberarsi dai condizionamenti mentali ed emotivi che spesso ci intrappolano.
In questo senso, il messaggio di Battiato è profondamente rivoluzionario: ci invita a un viaggio interiore che non solo ci libera dalla frammentazione dell’io, ma ci apre a una dimensione più ampia della realtà. È un appello a risvegliarsi, a trovare un equilibrio stabile che ci permetta di vivere in armonia con noi stessi e con il mondo.

 

 

 

 

L’evoluzione di Orlando

Dall’epica medievale alla complessità rinascimentale

 

 

 

 

La figura di Orlando costituisce una delle icone più celebri della letteratura cavalleresca europea, il cui significato si è arricchito e trasformato nel corso dei secoli. Dalla Chanson de Roland, monumento dell’epica medievale, passando per l’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo, fino all’Orlando furioso di Ludovico Ariosto, il personaggio si evolve da simbolo eroico e cristiano a figura umana complessa, portatrice di dubbi, passioni e debolezze. Ciascuna di queste opere riflette un diverso momento storico, con il suo specifico contesto culturale, e offre un’immagine di Orlando che si adatta ai valori e alle tensioni ideali dell’epoca.

Orlando nella Chanson de Roland

La Chanson de Roland, composta intorno alla metà dell’XI secolo, è un poema epico di straordinaria importanza nella tradizione letteraria medievale. In questo testo, Orlando (o Roland) incarna il perfetto cavaliere cristiano, leale alla fede e al sovrano Carlo Magno. L’opera si colloca in un contesto in cui l’epica celebrava i valori feudali e religiosi, enfatizzando il legame tra il guerriero e la difesa della cristianità contro il nemico musulmano, percepito come il grande “altro” da combattere. Orlando si distingue per il suo eroismo tragico e la sua assoluta dedizione al dovere. Il momento culminante del poema è nel racconto della battaglia di Roncisvalle, in cui il paladino, alla guida della retroguardia dell’esercito di Carlo Magno, si sacrifica per difendere l’onore del proprio re e della propria religione. Durante l’imboscata, Orlando, pur vedendosi sopraffatto dai nemici, si rifiuta di suonare l’olifante per richiedere rinforzi, temendo che ciò possa macchiare il suo onore. Quando infine decide di farlo, è troppo tardi. Giunto allo stremo delle forze, tenta di spezzare la sua spada Durlindana. Non riuscendoci, si accascia sul terreno con le braccia incrociate in attesa della morte. Questa scena simbolizza il sacrificio e la gloria eterna, elementi cardine della concezione eroica medievale. Orlando muore da martire. La sua figura rappresenta, quindi, l’ideale trascendente del cavaliere che sacrifica tutto, anche la propria vita, per ideali superiori: la fede e la patria. Non vi è spazio per le passioni personali o i dilemmi interiori; Orlando è un eroe lineare, mosso da princìpi assoluti.

Orlando nell’Orlando innamorato di Boiardo

Nel passaggio al Rinascimento, l’immagine di Orlando subisce una profonda trasformazione. Matteo Maria Boiardo, con l’Orlando innamorato (1483), rivisita il paladino adattandolo ai gusti e alle aspettative della cultura umanistica e cortigiana. In questa nuova veste, Orlando non è più soltanto un guerriero al servizio della fede e del sovrano, ma diventa un uomo che vive intensamente i propri conflitti interiori, soprattutto quelli legati all’amore. La trama si sviluppa attorno alla passione di Orlando per Angelica, una principessa del lontano Oriente. Questo amore rappresenta una forza destabilizzante per il paladino, che si trova diviso tra il dovere cavalleresco e il desiderio personale. Se nella Chanson de Roland l’eroe era simbolo di disciplina e sacrificio, in Boiardo diventa un uomo fragile, vulnerabile alle emozioni e alle tentazioni. Questa caratterizzazione riflette l’interesse rinascimentale per l’individuo e per la complessità delle sue motivazioni. Il poema è anche fortemente segnato dall’elemento meraviglioso: Orlando e gli altri personaggi si muovono in un mondo popolato da incantesimi, creature magiche e castelli incantati. Questo scenario amplifica il senso di avventura e rende il paladino non solo un guerriero, ma anche un esploratore di mondi sconosciuti. Tuttavia, il poema si interrompe bruscamente, lasciando incompiuta la storia di Orlando e il suo amore tormentato per Angelica.

Orlando nell’Orlando furioso di Ariosto

L’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, pubblicato per la prima volta nel 1516 e successivamente ampliato, porta la figura di Orlando a una nuova maturità letteraria e psicologica. La cultura rinascimentale e il clima umanistico influenzano profondamente il poema, che unisce elementi epici, cavallereschi e lirici a una sottile ironia e a una riflessione sulla condizione umana. Nel Furioso, Orlando è ancora innamorato di Angelica, ma il suo amore si trasforma da passione a ossessione. Quando scopre che Angelica ama un altro uomo, Medoro, il paladino perde completamente il controllo di sé e cade in una follia distruttiva. Questo evento, simbolo della rottura dell’ordine cavalleresco, segna un punto di svolta nella rappresentazione del personaggio: l’eroe invincibile diventa un uomo sconfitto dalle proprie emozioni. Ariosto descrive la follia di Orlando con una mescolanza di tragicità e grottesco. L’episodio in cui il paladino, ormai privo di senno, vaga per il mondo devastando tutto ciò che incontra è emblematico dell’irrazionalità delle passioni umane. Alla fine, la sua ragione viene recuperata grazie all’intervento di Astolfo, che viaggia fino alla Luna per recuperare l’ampolla con il senno di Orlando, simboleggiando la possibilità di recuperare l’equilibrio, ma solo attraverso un atto straordinario e surreale. L’Orlando furioso non si limita a raccontare le vicende del protagonista, ma intreccia una molteplicità di storie e personaggi, consegnando una visione complessa e frammentata del mondo cavalleresco. Ariosto utilizza il registro ironico per mettere in discussione i valori tradizionali della cavalleria, mostrando come il desiderio, l’ambizione e l’irrazionalità siano forze centrali nella vita umana.

Differenze tra le opere e significati culturali

L’evoluzione della figura di Orlando riflette il mutamento dei valori e delle sensibilità attraverso i secoli. Nella Chanson de Roland, Orlando è un eroe epico, simbolo di un ideale assoluto, in cui prevalgono l’onore e il sacrificio. L’umanità del personaggio è subordinata all’ideale religioso e feudale. Nell’Orlando innamorato, diventa un uomo in balia dei propri sentimenti. L’amore e il conflitto interiore lo rendono più vicino al lettore, riflettendo l’interesse rinascimentale per la psicologia e l’individuo. Nell’Orlando furioso, l’eroe si dissolve in una figura tragica e ironica, il cui smarrimento rappresenta la crisi dell’ideale cavalleresco e, più in generale, la fragilità dell’essere umano.
In termini stilistici, si passa dalla solennità epica della Chanson de Roland alla sperimentazione narrativa di Boiardo e Ariosto, che introducono elementi lirici, ironici e fantastici in un tessuto letterario estremamente ricco.
La figura di Orlando, da eroe perfetto e incorruttibile a uomo tormentato e fragile, testimonia l’evoluzione della letteratura e della cultura europea. Ogni autore, reinterpretando il paladino, ha dato vita a un personaggio capace di incarnare i valori, le tensioni e i dubbi della propria epoca, rendendo Orlando un simbolo universale e senza tempo. Questo viaggio letterario, che parte dall’epica medievale per arrivare alla complessità del Rinascimento, non solo arricchisce il personaggio, ma lo trasforma in un emblema dell’essere umano e delle sue contraddizioni.

 

 

 

Luce nell’ombra

Il canto malinconico di Manfredi

 

 

Dedicato a Manfredi Brichetto Scotti

 

 

 

Tra i tanti spiriti che Dante incontra lungo il suo viaggio letterario ultraterreno, Manfredi di Svevia si distingue per la dolente dignità e per il tragico intreccio di storia, politica e redenzione. Nel Canto III del Purgatorio, egli appare quale figura luminosa, immersa in una malinconia che non è disperazione, ma consapevolezza del destino umano e della misericordia divina. La sua vicenda, narrata nei versi danteschi, è un richiamo alla fragilità del potere terreno e alla speranza eterna che si accende nel pentimento.
Figlio illegittimo dell’imperatore Federico II e di Bianca Lancia d’Agliano, Manfredi incarnava molte delle virtù e dei difetti della dinastia sveva. Nato nel 1232, fu cresciuto in un ambiente di raffinata cultura, che lo plasmò come poeta e uomo d’ingegno. Al pari del padre Federico, fu un mecenate delle arti e della letteratura e la sua corte fu un centro di straordinario fermento culturale. Tuttavia, la sua vita non fu solo votata alla cultura: fu un abile stratega militare e politico, che lottò per consolidare il Regno di Sicilia contro le minacce dei papi e dei nemici esterni. Dopo la morte di Federico II e del fratellastro Corrado IV, assunse la reggenza del regno, che proclamò suo nel 1258. La sua bellezza fisica e il carisma personale contribuirono a creare il mito di un re amatissimo dal popolo, ma odiato dalla Chiesa, che lo scomunicò ripetutamente per la sua resistenza all’autorità papale. Manfredi trovò la morte nella battaglia di Benevento, nel 1266, sconfitto dall’esercito angioino di Carlo I, inviato da papa Clemente IV per estirpare la dinastia sveva. La sua morte fu l’epilogo di una vita segnata dal contrasto tra ambizione e persecuzione, tra grandezza e condanna.
Nel Purgatorio, Dante lo incontra tra le anime degli scomunicati, che attendono di purificarsi per salire verso il Paradiso. Il re è descritto con delicatezza e rispetto, quasi con affetto, come un’apparizione luminosa ma malinconica. Manfredi è presentato con un gesto umile e regale insieme, svelando la sua identità con un senso di tragica ironia:

Io mi volsi ver’ lui e guarda il fiso:
biondo era e bello e di gentile aspetto,
ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso.

La descrizione fisica è simbolica: la bellezza del principe è spezzata da una ferita, un dettaglio che richiama la sua morte violenta e il destino travagliato. L’elemento lirico del verso si mescola alla concretezza della sua storia, rendendo Manfredi una figura profondamente umana e poetica.

Manfredi narra a Dante il momento della sua fine, quando, ferito a morte, si rivolse a Dio con un pentimento sincero. I versi sottolineano la potenza della misericordia divina, che supera ogni giudizio terreno:

Poscia ch’io ebbi rotta la persona
di due punte mortali, io mi rendei,
piangendo, a quei che volontier perdona.

Questa ammissione di pentimento, accompagnata dal verbo “piangendo,” dona alla figura di Manfredi una dimensione struggente. Egli, sovrano orgoglioso e guerriero indomito, si arrende infine alla grazia divina, trovando la redenzione nel momento della massima vulnerabilità.
Il racconto di Manfredi si concentra poi sulla crudele sorte del suo corpo dopo la morte. L’arcivescovo di Cosenza, su ordine del papa, fece dissacrare la sua sepoltura, un atto che intendeva cancellare ogni traccia della sua esistenza. Le sue ossa furono gettate al di là del fiume Verde, oltre i confini del Regno di Napoli:

l’ossa del corpo mio sarieno ancora
in co del ponte presso a Benevento,
sotto la guardia de la grave mora.
Or le bagna la pioggia e move il vento
di fuor dal regno, quasi lungo ’l Verde,
dov’e’ le trasmutò a lume spento.
Per lor maladizion sì non si perde,
che non possa tornar, l’etterno amore,
mentre che la speranza ha fior del verde.

Questa immagine del “fior del verde” è profondamente lirica e simbolica: il verde della speranza divina contrasta con la desolazione del luogo dove furono gettate le sue spoglie. Anche qui, Dante ribalta la condanna umana: nonostante l’ingiustizia terrena, l’anima di Manfredi è accolta dalla misericordia divina. Il suo messaggio è un grido contro l’arroganza del potere ecclesiastico, che non può limitare la grazia di Dio.
Manfredi incarna uno dei temi fondamentali della Divina Commedia: la possibilità della redenzione, che è aperta a tutti, anche agli scomunicati e ai peccatori più gravi, purché si pentano sinceramente. La sua figura richiama altre anime del Purgatorio, come Bonconte da Montefeltro, che si salva grazie a un ultimo pensiero rivolto a Dio.
La storia di Manfredi risuona anche come un ammonimento per i lettori: il potere terreno è effimero, ma la salvezza è eterna. Dante utilizza la sua vicenda per criticare l’eccessiva severità della Chiesa medievale e per ribadire il primato della misericordia divina. L’umanità di Manfredi, il suo pentimento e la sua speranza sono un esempio di come la grazia possa illuminare anche le esistenze più tormentate.
La figura di Manfredi nella Divina Commedia è un intreccio di storia, poesia e teologia. Il suo racconto, intriso di malinconia e speranza, supera la dimensione individuale per diventare un simbolo universale. Egli non è solo un re sconfitto, ma un’anima che trova la pace nel riconoscimento della propria fragilità e nella fiducia nella misericordia divina.
Le sue ultime parole a Dante sono un invito a guardare oltre le apparenze, oltre i giudizi umani, e a confidare nella giustizia divina:

Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,
revelando a la mia buona Costanza
come m’ hai visto, e anco esto divieto;
ché qui per quei di là molto s’avanza.

Con queste parole, Manfredi riafferma la sua identità non come re, ma come figlio di Dio, riconquistando quella dignità che gli era stata negata in vita.

 

 

 

 

 

Don Ferrante

La critica di Manzoni all’arroganza intellettuale del Seicento

 

 

 

 

Don Ferrante è uno dei personaggi secondari più incisivi de I Promessi Sposi, un esempio straordinario della maestria di Alessandro Manzoni nel delineare figure che, seppur marginali nell’intreccio narrativo, assumono un valore simbolico di grande portata. Don Ferrante incarna temi universali e profondamente significativi per comprendere la mentalità e la cultura del Seicento, attraverso cui Manzoni critica sottilmente e ironicamente la vacuità di un’erudizione scollegata dalla realtà, l’attaccamento a concezioni superate e l’incapacità di adattarsi al cambiamento.
La descrizione della biblioteca di don Ferrante e delle sue abitudini intellettuali diventa lo strumento manzoniano per tracciare il ritratto del personaggio, presentandolo come un intellettuale raffinato e amante dello studio, ma il cui sapere si fonda su paradigmi antiquati, ereditati dalla scolastica medievale e dalla cultura aristotelico-tolemaica, ormai sorpassati. Don Ferrante investe il suo tempo nello studio di discipline quali l’astrologia e la magia naturale, che considera scienze esatte, ignorando, invece, le scoperte moderne e le applicazioni pratiche del sapere. La sua biblioteca, ricca di volumi impolverati e inutilizzati, diventa il simbolo di una cultura sterile, un luogo che raccoglie conoscenze obsolete, incapaci di illuminare o guidare l’azione pratica. Manzoni sottolinea ironicamente come don Ferrante si consideri padrone di un sapere immenso, ma sia in realtà schiavo delle sue stesse illusioni.

Emblematico del suo approccio dogmatico è il celebre discorso sulla peste, in cui nega l’esistenza del morbo perché non conforme ai criteri della filosofia aristotelica. Secondo la sua logica (aristotelica), la peste non può essere né una “sostanza” né un “accidente” e, quindi, non esiste. Questa rigida adesione al pensiero teorico, incapace di confrontarsi con l’evidenza empirica, si traduce in un rifiuto della realtà. Qui l’ironia di Manzoni emerge con forza: don Ferrante, convinto della superiorità del proprio sistema di pensiero, diventa vittima della stessa peste che si ostina a negare. La sua morte, tragica e grottesca, rappresenta una punizione simbolica per la sua arroganza intellettuale e per l’incapacità di adeguare le proprie convinzioni all’esperienza.
Attraverso don Ferrante, Manzoni esprime una critica più ampia alla cultura dominante del Seicento, spesso caratterizzata da una miscela di pedanteria, superstizione e astrattezza. Tale cultura, priva di concretezza e di sensibilità verso i bisogni della società, si rifugiava in dispute teoriche e accademiche, lontane dalla vita reale. Don Ferrante rappresenta perfettamente questo tipo di intellettuale autoreferenziale, chiuso nella propria torre d’avorio, che usa il sapere come strumento di autocelebrazione piuttosto che come mezzo per il progresso e il benessere collettivo.
Manzoni accentua il messaggio della parabola di don Ferrante, ponendolo in contrapposizione con altre figure del romanzo. Fra Cristoforo, ad esempio, incarna una conoscenza pratica e umile, fondata sull’esperienza diretta e sulla fede. Il cardinale Borromeo, invece, rappresenta l’ideale dell’intellettuale illuminato, che mette il proprio sapere al servizio degli altri, guidato dalla carità e dalla capacità di comprendere le necessità concrete degli uomini. In questo confronto, don Ferrante si staglia come simbolo dell’arroganza intellettuale e del fallimento di un sapere che rifiuta il dialogo con l’esperienza.
La parabola di don Ferrante si conclude con una lezione amara e universale: la conoscenza, per essere autentica e valida, deve essere accompagnata dall’apertura mentale e dalla capacità di adattarsi al reale. La figura di don Ferrante, quindi, tratteggiata con un’ironia pungente e al tempo stesso malinconica, costituisce un monito contro i pericoli di un sapere autoreferenziale, incapace di trasformarsi in strumento di progresso e di servizio alla società. La sua morte per peste, l’epilogo inevitabile della sua incapacità di confrontarsi con la realtà, suggella il fallimento di un modello culturale sterile e superato, offrendo al lettore una riflessione sempre attuale sulla necessità di una conoscenza fondata sulla concretezza e sul senso del bene comune.

 

 

 

 

Il contrappasso nell’Inferno della Divina Commedia

Giustizia divina e simbolismo poetico-narrativo

 

 

 

 

Il contrappasso costituisce uno dei concetti centrali nella Divina Commedia di Dante Alighieri – in particolare, nella prima Cantica, l’Inferno – simbolizzando l’idea di una giustizia divina perfetta e implacabile. Ogni punizione subìta dai peccatori riflette, in modo figurativo o speculare, la natura del peccato da loro commesso in vita. Questo principio è sì un elemento narrativo, ma anche una chiave di lettura teologica, morale e filosofica, che permette di comprendere l’ordine universale immaginato da Dante. Attraverso il contrappasso, infatti, il sommo poeta costruisce un sistema che intreccia tradizione religiosa, riferimenti letterari e una profonda riflessione sul peccato umano.
Sebbene Dante lo codifichi in modo innovativo, il contrappasso si radica in una lunga tradizione culturale e filosofica. La corrispondenza tra peccato e punizione si ritrova già nell’antichità e nel pensiero religioso precedente al poeta, suggerendo un’idea di giustizia divina che premia o punisce in base alle azioni compiute.
Nel mondo classico, il modello di una giustizia proporzionale si manifestava nei racconti mitologici e nelle opere di filosofi come Platone. La mitologia greca fornisce esempi paradigmatici: la punizione di Tantalo, che soffre fame e sete eterne circondato da cibo e acqua irraggiungibili, o di Sisifo, condannato a spingere un masso fino alla sommità di un monte, vedendolo rotolare nuovamente alla base ogni volta che raggiungesse la cima, esprimono il principio per cui la pena è correlata al crimine o alle colpe morali. Platone, invece, in dialoghi come Gorgia e Repubblica, formulò un sistema di giudizio delle anime nell’aldilà, con cui queste erano punite o premiate in funzione delle loro azioni terrene, anticipando una corrispondenza diretta con il contrappasso dantesco.
Il contrappasso trovò terreno fertile anche nel contesto biblico e teologico. La Bibbia contiene numerosi esempi di giustizia divina proporzionata. Nel Libro dei Proverbi (26:27) si afferma: “Chi scava una fossa vi cadrà dentro, e chi rotola una pietra gli ricadrà addosso”, un’immagine che sottolinea l’inevitabile ritorno delle conseguenze delle azioni. Analogamente, nel Libro dell’Esodo, nel Libro dei Numeri e nel Nuovo Testamento si trovano moltissimi episodi in cui le azioni peccaminose conducono direttamente alla punizione. In Esodo, 32, quando gli Israeliti si costruirono un idolo e lo adorarono, Mosè, per ordine di Dio, distrusse il vitello d’oro e chiese ai Leviti di punire i colpevoli, portando alla morte di circa tremila uomini, dimostrando come l’idolatria venisse severamente condannata. In Numeri, 16, è narrata la punizione per coloro che sfidarono l’autorità di Mosè e Aronne: la terra si aprì e inghiottì i ribelli, comprovando il giudizio immediato di Dio. In Luca, 16:19-31, la parabola di Lazzaro e il ricco illustrò il destino eterno di chi vive senza considerare i comandamenti di Dio e senza compassione per il prossimo, presentando il tormento dell’inferno come punizione definitiva. In Matteo, 26:14-25, Giuda, dopo aver tradito Gesù, si rese conto della gravità del suo peccato, provando rimorso e, infine, suicidandosi, riflettendo, così, la disperazione che può scaturire da un grave peccato. In Atti, 5:1-11. Anania e Saffira mentirono sulla vendita di un terreno e morirono immediatamente dopo essere stati smascherati da Pietro, mostrando la gravità del mentire a Dio e alla comunità.
I Padri della Chiesa proposero riflessioni sulla giustizia divina che influenzarono profondamente Dante. In particolare, Agostino descrisse il peccato come una disarmonia nell’ordine stabilito da Dio, che richiede una correzione proporzionata per ristabilire l’equilibrio cosmico. Nel Medioevo, il concetto di giustizia divina si mescolò con la filosofia scolastica di Tommaso d’Aquino, che nella Summa Theologiae analizzò il rapporto tra libero arbitrio, peccato e retribuzione. Tommaso rimarcò che le pene nell’aldilà non fossero arbitrarie, ma rispecchiassero l’ordine morale dell’universo. Dante riprese e sviluppò questa tradizione, trasformando il contrappasso in un meccanismo narrativo di straordinaria potenza simbolica.

Il contrappasso appare in modo sistematico nell’Inferno, dove i peccatori sono puniti in modo proporzionato ai peccati commessi in vita. Tuttavia, tracce di questo principio si individuano anche nel Purgatorio e, in una forma positiva, come corrispondenza tra merito e beatitudine, nel Paradiso.
Il contrappasso per analogia è il più frequente nell’Inferno. Si basa su una somiglianza tra il peccato e la pena. Nel Canto V, Dante descrive la pena dei lussuriosi, travolti da una bufera incessante (La bufera infernal, che mai non resta, / mena li spirti con la sua rapina;). La loro punizione riflette l’irrequietezza e la mancanza di controllo che caratterizzò le loro vite. Paolo e Francesca, ad esempio, sono trasportati dal vento, incapaci di trovare riposo, proprio come in vita furono trascinati dalla passione incontrollabile. La tempesta è una rappresentazione del loro peccato e un’immagine del tormento interiore a cui furono soggetti. Nel Canto XX, gli indovini, che osarono scrutare il futuro, sono condannati a camminare con il collo torto e rivolto all’indietro (ciascun tra ’l mento e ’l principio del casso, / ché da le reni era tornato ’l volto, / e in dietro venir li convenia, / perché ’l veder dinanzi era lor tolto.). Questa deformità fisica è una rappresentazione vivida della loro colpa: cercarono di vedere ciò che non era loro concesso e ora sono costretti a guardare solo il passato, privati della loro presunta capacità di predizione.
In altri casi, Dante utilizza il contrappasso per contrasto, rendendo la punizione l’opposto della colpa. Nel Canto III, gli ignavi, coloro che in vita non presero mai una posizione tra il bene e il male, sono costretti a correre incessantemente dietro a un’insegna (una ’nsegna / che girando correva tanto ratta, / che d’ogne posa mi parea indegna), punti da vespe e mosconi. La loro punizione rimanda alla loro condizione di inutilità morale: in vita non scelsero mai un obiettivo e ora sono condannati a inseguire eternamente qualcosa di vuoto.
Alcuni contrappassi sono estremamente simbolici e riflettono in modo profondo la natura del peccato. Nel Canto XIII, i suicidi sono trasformati in secchi cespugli, privati del corpo che in vita rifiutarono (Non fronda verde, ma di color fosco; / non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti; / non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco.). La loro punizione esprime la loro negazione della carne e della vita, un dono divino. Solo attraverso la violenza (quando i rami sono spezzati) possono esprimersi, un’immagine dolorosa della loro condizione di alienazione. Nel Canto XXX, i falsari soffrono di malattie orribili e contagiose, come la lebbra, la scabbia e l’idropisia, che rappresentano la corruzione morale delle loro azioni (e va rabbioso altrui così conciando. […] La grave idropesì, che sì dispaia / le membra con l’omor che mal converte, / che ’l viso non risponde a la ventraia, […] Chi son li due tapini / che fumman come man bagnate ’l verno). La loro degradazione fisica è il simbolo della menzogna e della frode che li contraddistinse in vita.
Il contrappasso nella Divina Commedia ha molteplici funzioni. Dal punto di vista teologico e morale, ribadisce la perfezione della giustizia divina. Ogni punizione è appropriata al peccato, sottolineando l’idea che l’aldilà sia governato da un ordine morale inviolabile. Sul piano simbolico e poetico, le pene inflitte ai dannati non sono meri castighi, ma illustrano metaforicamente la loro colpa. Dante utilizza immagini forti e indimenticabili per stimolare la meditazione morale e coinvolgere il lettore. Infine, narrativamente, il contrappasso arricchisce l’opera di un’estrema varietà, rendendo ciascun canto unico. Ogni pena diventa una storia, un’occasione per esaminare le implicazioni del peccato e le dinamiche della giustizia.
Il contrappasso nella Divina Commedia, quindi, costituisce l’essenza della visione dantesca della giustizia divina. Radicato in una ricca tradizione letteraria e religiosa, nelle mani di Dante diventa strumento poetico di straordinaria potenza. Le punizioni non sono solo castighi, ma veri e propri specchi dell’animo umano, che invitano il lettore a confrontarsi con le conseguenze delle proprie azioni. La forza del contrappasso risiede proprio nella sua capacità di unire il rigore teologico alla bellezza simbolica, creando versi universali e sempre attuali.

 

 

 

 

 

L’inno alla menzogna

L’arte come rivolta e verità suprema in Oscar Wilde

 

 

 

 

La decadenza della menzogna di Oscar Wilde, pubblicato, per la prima volta, nel 1889, è un saggio emblematico del pensiero dell’autore e dell’estetismo di fine Ottocento, un movimento che rivendicava la centralità dell’arte e della bellezza nella vita contro l’imperante utilitarismo e moralismo della società vittoriana. Wilde, figura iconica di questo movimento, utilizza questo saggio per presentare una difesa appassionata della finzione e della menzogna creativa come essenza stessa dell’arte e della cultura.
La forma dialogica, scelta non casualmente da Wilde, richiama l’antica tradizione platonica e ci introduce a una discussione vivace e stimolante tra Vivian e Cyril. Vivian, la voce principale e alter ego intellettuale di Wilde, espone una teoria estetica audace e paradossale, mentre Cyril funge da contrappunto scettico, un elemento essenziale per creare un dibattito in cui le idee si scontrano e si raffinano. La scelta di questa struttura permette a Wilde non solo di presentare i propri argomenti in modo teatrale, ma anche di coinvolgere il lettore in una riflessione attiva.
Wilde sostiene che la menzogna, lungi dall’essere un atto riprovevole, rappresenta l’apice dell’arte. In un mondo in cui la verità è spesso associata al banale e al convenzionale, l’artista, secondo Wilde, ha il dovere di creare mondi nuovi e visioni superiori della realtà attraverso l’invenzione e la finzione.
Questa difesa della menzogna va letta non come un elogio dell’inganno in senso etico, ma come una celebrazione del potere immaginativo dell’arte, capace di rivelare verità più profonde attraverso l’invenzione. L’arte, sostiene Vivian, deve elevarsi al di sopra della realtà e non limitarsi a imitarla in maniera pedissequa. Questa idea sfida direttamente le concezioni naturalistiche dell’epoca, che cercavano nell’arte uno specchio della realtà.

Wilde critica la tradizione platonica che vede l’arte come imitazione della natura, sottolineando come questa visione sia responsabile di una decadenza culturale. Al contrario, l’arte dovrebbe prendere le distanze dalla natura e proporre qualcosa di completamente nuovo e diverso, una creazione originale che trascende la banalità del mondo tangibile. Per Wilde, la realtà è limitata, imperfetta e grezza; l’arte, invece, è raffinata, ideale e trasformativa.
Questa critica alla mimesi anticipa in parte idee moderne sulla funzione dell’arte, che si distacca dall’essere solo un riflesso della realtà per diventare un’interpretazione o una costruzione indipendente. La modernità ha accolto molte di queste idee, influenzando movimenti artistici e letterari successivi, come il surrealismo e il modernismo, che esplorarono la dimensione del sogno, della finzione e del non convenzionale.
Uno degli aforismi più celebri di Wilde, “La vita imita l’arte molto più di quanto l’arte imiti la vita”, riassume una delle idee chiave del saggio. Secondo questa prospettiva, la realtà prende forma dai modelli artistici e non viceversa. Le mode, i comportamenti e persino le emozioni sono influenzati dall’arte, che agisce come un filtro attraverso il quale la società percepisce e costruisce la propria esperienza. Wilde anticipa così la concezione secondo cui i fenomeni culturali plasmano le nostre percezioni della realtà, un’idea che diventerà centrale nella filosofia e nella critica culturale del Novecento.
La decadenza della menzogna, quindi, non costituisce solo una difesa teorica dell’arte, ma anche una critica sottile e ironica alla società del tempo. Wilde mette in discussione il culto della scienza, del progresso e della verità empirica, sostenendo che una società ossessionata da questi valori rischia di diventare priva di fantasia e di bellezza. La provocazione non è fine a se stessa; piuttosto, serve a scardinare il conformismo intellettuale e a incoraggiare un ritorno all’apprezzamento dell’arte per il suo valore intrinseco.
Le riflessioni di Wilde sulla menzogna e sull’arte sono ancora oggi fonte di ispirazione per il dibattito sull’autonomia dell’arte. La sua difesa dell’immaginazione come strumento di verità superiore ha influenzato non solo la letteratura e l’arte visiva, ma anche la critica filosofica e la teoria della percezione. In un’epoca in cui le rappresentazioni digitali e i mondi virtuali stanno ridefinendo la nostra esperienza del reale, le idee di Wilde sulla finzione e sull’illusione appaiono particolarmente pertinenti.
La sua opera sfida le nozioni tradizionali di verità e realtà, e ci invita a considerare l’importanza di preservare lo spazio dell’immaginazione come un regno di libertà creativa e introspezione. La decadenza della menzogna ci ricorda che, nella sua forma più alta, l’arte è un mezzo attraverso il quale possiamo sfuggire alla tirannia della realtà per scoprire nuove prospettive e significati.

 

 

 

 

Giambattista Marino: il principe del Barocco

 

 

 

 

Il principe dei poeti del Seicento, il vero re del secolo, l’uomo che diede l’impronta all’intera stagione poetica barocca, nacque a Napoli il 14 ottobre 1569. Trascorse l’infanzia felice nella sua città, frequentando ambienti intellettuali e culturalmente molto stimolanti. Sin da ragazzino, amò così tanto le lettere che al momento di cominciare a pensare seriamente al futuro litigò col padre, che lo avrebbe voluto uomo di legge, se andò via da casa e visse spensieratamente la sua passione. Era al servizio di Matteo di Capua, principe di Conca, quando capì che la vita di corte sarebbe stata l’unica a potergli garantire tutto quello che voleva: successo, soldi e belle donne. Per ottenere ciò, non esitò ad usare mezzi non sempre legali: Frans_Pourbus_the_Younger_-_Portrait_of_Giovanni_Battista_Marinofu, infatti, incarcerato due volte, la prima, per aver sedotto una minorenne, costringendola all’aborto, e la seconda, per aver falsificato alcune bolle vescovili. Influenti protettori, comunque, gli garantirono sempre i salvacondotto per uscire di galera. Di corte in corte, a Torino, nel palazzo di Carlo Emanuele I di Savoia, per entrare nelle grazie del duca e cercare di stabilirvisi, vitto e alloggio spesati, scrisse un Ritratto del serenissimo Don Carlo Emanuello duca di Savoia, che gli valse la nomina a Cavaliere dei Santi Maurizio e Lazzaro, un’onorificenza importantissima la quale, però, fece morire d’invidia il poeta di corte Gaspare Murtola che addirittura tentò, senza riuscirci, di ammazzarlo. Marino, invece del coltello, per rispondere, usò la poesia, componendo la Murtoleide, una raccolta di sonetti dove lo combinò proprio male. Visse diversi anni dai Savoia, non sempre idillicamente, a causa della sua disinvoltura nel comporre versi, che spesso facevano infuriare i cortigiani e i suoi benefattori. La sua fama, intanto, cresceva giorno dopo giorno, così che, nel 1615, la Carla Bruni Sarkozy dell’epoca, ovvero Maria de’ Medici, non perché fosse modella e cantante, quanto piuttosto moglie del re di Francia Enrico IV, lo chiamò a palazzo come poeta di corte. A Parigi, il cavalier Marino se la spassò alla grande: col ricco stipendio di cortigiano versatogli dalla regina poté vivere come un nababbo, collezionando quadri, opere d’arte e la biancheria intima delle dame che passavano per la sua camera da letto. Scrisse molto in questo periodo, pubblicando quasi tutte le sue opere e una sontuosa edizione dell’Adone, il suo maggiore poema, tutto a spese del re Luigi XIII, il figlio di Maria. Qualche tempo dopo, però, le cose cominciarono a cambiare anche a Parigi. Decise, così, di tornare nella sua Napoli, dove fu accolto come un trionfatore, più di Fabio Cannavaro dopo la vittoria ai Mondiali di calcio del 2006. Turbato oltremodo dalle rotture di scatole dell’autorità ecclesiastica, riguardo la lussuria e le sconcezze contenute nell’Adone, morì all’ombra del Vesuvio il 25 Marzo 1625.

Le opere

Marino pubblicò la sua prima raccolta poetica nel 1602, intitolandola Rime, e, poi, ampliandola, per un totale di circa 900 componimenti, dati alle stampe dodici anni dopo, col titolo La Lira. Vi sono inclusi sonetti di vari argomenti: amorosi, sacri, encomiastici, boscherecci, marittimi, lugubri ed eroici.

“Or che da te, mio bene,
Amor lunge mi tiene, il pensier vago
spesso innanzi mi pon l’amata imago.
E qual ape ingegnosa,
quindi un giglio talor, quinci una rosa
scegliendo a suo diletto,
rappresentar mi sole
ne le più belle forme il caro oggetto;
e spesso mostra al cor, ch’egro si dole,
la tua beltà nel Ciel, gli occhi nel Sole”.

(Nel medesimo suggetto, 11)

“È sogno o ver? Se sogno, ahi, chi depinge
viva la bella imagine ala mente?
Come fiamma sì lucida e sì ardente
gelid’ombra notturna esprime e finge?”

(Sogno, vv. 1 – 4)

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Con La Sampogna, crestomazia divisa in due parti, otto idilli favolosi e quattro pastorali, Marino si confrontò con i miti greci e i drammi pastorali. Ne viene fuori un paesaggio silvano e bucolico arricchito dal prezioso linguaggio poetico dell’Autore.

“Seguillo il pin robusto,
carco di duri e noderosi scogli,
che per cercar de la perduta figlia
a la feconda dea prestò le faci;
seco condusse la compagna quercia,
arbore a Giove cara, e de le ghiande
(cibo de’ primi eroi) madre ferace”.

(La Sampogna, Idilli favolosi, Orfeo, vv. 762 – 768)

La Galeria, invece, sempre nello stile meraviglioso ed emozionante del poeta, è una raccolta di componimenti dedicati alla descrizione di opere d’arte, pitture e sculture, reali o immaginarie. Cosa fu Marino se non un pittore di parole e concetti? La sua poesia si avvale delle pennellate del prezioso e del ricercato, del sublime e dell’immaginifico, del viaggio della mente (con o senza sostanze illegali!).

L’Adone

Adone, scampato ad una terribile tempesta, approda sull’isola di Cipro, dove la dea Venere ha il suo bel palazzo. Cupido scocca una freccia e fa innamorare la madre del principe che, svegliatosi, viene pure lui colpito da un dardo, ricambiando, così, l’amore di Venere. imagesAdone, tutto innamorato della bella Cipride, ascolta Cupido e Mercurio mentre gli raccontano storie d’amore e viene poi accompagnato nel Giardino del Piacere, diviso in cinque parti, ognuna corrispondente ad uno dei cinque sensi, e alla fontana di Apollo. Marte, avvertito da Gelosia che Venere ama qualcun altro, corre a Cipro. Adone, avvertito in tempo, scappa e viene trasformato in un pappagallo per aver rifiutato l’amore di Venere. Mercurio, però gli fa riprendere il suo vero aspetto e, dalla padella alla brace, viene sequestrato da una banda di ladroni. Tornato a Cipro, dopo aver vinto una gara di bellezza, è incoronato re dell’isola e si riavvinghia a Venere ma Marte, durante una battuta di caccia, lo fa uccidere da un cinghiale. Adone muore fra le braccia di Venere, che trasforma il suo cuore in un fiore rosso, l’anemone. Solenni giochi funebri sono allestiti per onorare il bel giovane. Quest’opera è tra le più lunghe di tutta la Letteratura Italiana: 5.033 ottave, per un totale di 40.264 versi, distribuiti in venti canti. L’Adone è un poema sostanzialmente antinarrativo perché l’esile trama è soltanto il ponteggio adottato dell’Autore per edificare il suo castello di metafore e concetti, che tanta parte avevano nella poetica della meraviglia barocca. Marino dovette dare fondo a tutta la sua potenza immaginifica per costruire un’opera nella quale non è difficile perdersi, appunto perché manca il filo di Arianna, rappresentato dalla narrazione lineare degli eventi. Esso è un poema per immagini, come una galleria d’arte, dove sono esposti i quadri più splendidi e differenti. Descrittività, mito, citazioni, altissima ritmicità metrica e lirica, ne sono componenti fondamentali.

 

 

 

 

Le Ultime lettere di Jacopo Ortis e l’utilità della Letteratura

 

 

 

 

L’animo inquieto, le delusioni amorose, lo sconforto, la lontananza dagli affetti familiari, l’amore per la patria che non esisteva più. È tutto concentrato in questo romanzo epistolare di Ugo Foscolo. Sono lettere che Jacopo Ortis spedisce all’amico Lorenzo Alderani il quale, dopo la sua morte, le stampa, precedute da un’introduzione e seguite da una conclusione. Foscolo trasse l’ispirazione per scrivere quest’opera, non solo dalla sua esperienza e dalle passioni che lo consumavano, ma anche dal romanzo di Johann Wolfgang Goethe, I dolori del giovane Werther, scritto che aveva avuto un enorme successo in tutta Europa. Forse fu plagio, eppure, fu un plagio di altissimo livello.

foscoloUgo Foscolo

Il giovane Ortis in esilio, triste e disperato come non mai, si ritira sui Colli Euganei:

“Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure, e la nostra infamia.
(Lettera a Lorenzo Alderani dell’11 ottobre 1797, dai Colli Euganei)

Colà, incontra la famiglia del signor T., la figlia Teresa, e Odoardo, il suo promesso sposo. Si innamora di Teresa e quell’amore cresce di giorno in giorno, soprattutto quando scopre che lei non ama Odoardo ma lo sposerà per compiacere il padre, il quale ha combinato quelle 5682806-Mnozze per interesse. Poco dopo, Jacopo va a Padova, ma vi resiste solo due mesi. Ritorna, in fretta, da Teresa. Profittando dell’assenza di Odoardo, può starle vicino e riprendere le conversazioni con lei, sotto gli alberi di pino, al tramonto. Si rende definitivamente conto che sarebbe felice soltanto se la potesse sposare. Il destino, purtroppo, gli è avverso. I due giovani arrivano anche a scambiarsi un bacio. Ma non c’è niente da fare, non potrà esservi seguito. Jacopo si ammala e, al padre di Teresa che va a visitarlo, confessa il suo amore per la figlia. Ristabilitosi, scrive una lettera d’addio alla sua amata e parte. La sua disperazione raggiunge i livelli massimi ogniqualvolta, custodita nel taschino della giacca, stringe la sua immagine e la contempla. Giunto a Nizza, viene a sapere che Teresa si è sposata e decide, così, di farla finita: torna sui Colli Euganei per rivederla e lì, dopo aver scritto le ultime due lettere, una all’amico Lorenzo e l’altra a Teresa:

“Ma io moro incontaminato, e padrone di me stesso, e pieno di te, e certo del tuo pianto. Perdonami, Teresa, se mai – ah consolati, e vivi per la felicità de’ nostri miseri genitori; la tua morte farebbe maledire le mie ceneri. Che se taluno ardisse incolparti del mio infelice destino, confondilo con questo mio giuramento solenne ch’io pronunzio gittandomi nella notte della morte: Teresa è innocente. – Ora accogli l’anima mia
(Lettera a Teresa del 25 marzo 1799)

si pianta un coltello nel cuore.

“Teresa visse in tutti que’ giorni fra il lutto de’ suoi in un mortale silenzio. – La notte mi trascinai dietro al cadavere che da tre lavoratori fu sotterrato sul monte de’ pini”.
(Dalla conclusione di Lorenzo Alderani)

colliColli Euganei

Quand’ero all’Università, mi innamorai di una ragazza dai lunghi capelli neri. Si chiamava Melissa ed era bella, molto bella. Per poco più di un anno, soffrii molto il fatto di non poterla avere, poi, pian piano, me ne feci una ragione e la mia vita continuò. Il tempo, a volte, lenisce le pene d’amore più delle carezze di una madre! Jacopo Ortis, almeno, baciò Teresa. Io non riuscii ad avere da Melissa nemmeno un bacio. La mia disperazione era tale che, tra le tante cose poco sensate che in questi casi si fanno, comprai un’altra copia delle Ultime lettere di Jacopo Ortis, ne avevo già due da qualche parte nella mia biblioteca, e la rilessi tutta d’un fiato, un sabato pomeriggio di gennaio, proprio per trovare qualcuno con cui condividere la mia sofferenza. Immaginate il sollievo e la consolazione, quindi! La sera dopo, telefonai Melissa e la invitai a casa mia, soltanto per darle un fiore, una rosa rossa che avevo rubato dal giardino di un finanziere vicino casa mia (rischiando pure di andare in galera!), e per dirle grazie, perché l’essere innamorato di lei, mi aveva comunque inondato la vita di passione. Ebbi cura di sistemare la copia dell’Ortis in bella vista sopra il televisore, sperando che lei ne conoscesse il contenuto e provasse, per me, almeno un po’ di pietà. Quando arrivò, dopo i quindici minuti che impiegai per trovare il coraggio di riferirle quelle parole che ho riportato qualche rigo più sopra, si avvicinò al televisore, prese in mano il libro, si girò e mi chiese:
“Di che parla?”.
“Di me”, risposi.
“Come di te, che significa?”.
“Parla della fine che uno ha fatto per amore di una donna che si chiamava Melissa e aveva i capelli neri”.
“Non fare lo stupido”, mi interruppe. “Che fine ha fatto questo?”.
“Quando lei gli ha chiesto di cosa trattasse il libro, ha capito che forse sarebbe stato meglio cercarsi un’altra donna. Ma, siccome sapeva già che non sarebbe riuscito a trovarne nessuna che avesse potuto amare come amava lei, si è ucciso!”.
“Vieni qua, scemo!”.
Mi abbracciò, mentre io le carezzavo i lunghi capelli neri. Durò pochi secondi, ma fu bellissimo.

Grazie alla morte di Jacopo Ortis e a Ugo Foscolo che ne hascrisse la tristissima storia, riuscii ad avere un abbraccio da Melissa.

A volte la Letteratura è molto più utile di quanto possa sembrare!

 

 

I Canti di Giacomo Leopardi

 

 

 

Per anni, ho tenuto questa sublime raccolta poetica sul comodino accanto al mio letto, leggendone, ogni sera, qualche verso, prima di addormentarmi. tumblr_mibi5ajPwA1s2cwoio1_1280In copertina dell’edizione che posseggo, vi è raffigurato un particolare del quadro di Giuseppe Pietro Bagetti, Notturno con effetto di luna (immagine a destra), bellissimo. È stato il libro che in assoluto ho regalato di più, ovviamente, alle donne. Tutte quelle che, finora, sono state importanti per me, ne hanno una copia, con la mia dedica in prima pagina. Ad ogni modo, comunque, nulla di meglio degli stessi versi di Leopardi potrebbero dare spiegazione di se stessi, ma, se riportassi qui di seguito, verso dopo verso, tutti i componimenti inclusi nei Canti, commetterei un plagio maldestro, nonostante non debba diritti d’autore a nessuno. Il rimando al testo leopardiano, qui, è d’obbligo, altrimenti, qualsiasi mio sforzo sarebbe inutile. Quindi, consiglio vivamente, una volta terminata la lettura di questo articolo, di giacomo-leopardi-ragazzoaprire una qualsiasi edizione dei Canti, oppure, di digitare Canti in un qualsiasi motore di ricerca su internet, e leggere. Solo così, l’arte del grandissimo Giacomo Leopardi (immagine a sinistra) potrà far breccia nei cuori dei lettori. Ciò, tuttavia, non mi esenta dal compito di raccontarne i tempi della composizione, i temi e tutte quelle altre utili notizie che possano essere preparatorie alla lettura vera e propria. Bene, i testi poetici contenuti in questa cassaforte di preziosi preziosissimi furono composti dall’autore lungo quasi tutta la sua vita e pubblicati man mano, prima di finire nelle due principali edizioni dei Canti, del 1831 e del 1835. Il tramonto della luna e La ginestra, invece, furono aggiunti nella definitiva edizione postuma del 1845. Ora, se qualcuno mi chiedesse: “Di cosa parla l’Infinito?”. Io risponderei: “Questo idillio è una proiezione della mente dell’autore, una mente infinita, a beautiful mind, direbbero gli americani. Solo, sul colle dell’Infinito, non lontano da casa, a Recanati, al poeta non è possibile ammirare il panorama, a causa della siepe che da tanta parte de l’ultimo orizzonte il guardo esclude (vv. 2-3). E, allora, lui immagina, con la sua mente percorre l’infinità dello spazio e del tempo, l’eternità, e, per una volta felice, il naufragar gli è dolce in questo mare. “E il Bruto minore?”. “Questa canzone ha un significato molto profondo. Bruto, uno degli assassini di Cesare, è a Filippi, sul campo di battaglia, dove, insieme con Cassio, è stato sconfitto da Antonio. L’uomo, assassinando Cesare il dittatore, in cuor suo sa di aver agito per difendere la Repubblica e la libertà di Roma e, per questo, non è soltanto la sconfitta in battaglia a rattristarlo, quanto piuttosto il fatto che il suo gesto e il suo amore per la libertà non siano stati compresi. cetraCosì, si uccide, sicuro di non essere ricordato da nessuno”. “E’ vero che L’ultimo canto di Saffo tratta un tema simile al Bruto minore?”. “In un certo senso sì. La poetessa Saffo (immagine a destra) è innamorata di Faone, che la respinge, perché, nonostante sia molto colta e compita, non è bella. La Natura maligna ha fatto sì che gli uomini preferissero la bellezza del corpo alle virtù dell’intelletto e, nell’impossibilità di trovare un senso a queste cose, Saffo si uccide”. “Quali sono gli argomenti della canzone Alla Primavera o delle favole antiche?”. “Beh, il riferimento a questa stagione, simbolo della natura che ogni anno si rinnova, è inteso dal poeta in contrapposizione alla primavera della storia, vale a dire a quell’età originaria in cui gli uomini vivevano in armonia con la Natura avvertendone, grazie alla forte potenza immaginativa di cui erano dotati, aspetti nascosti e spirituali in ogni sua creatura. Purtroppo, però, a causa dell’evoluzione delle civiltà, essi hanno perso tutto ciò, conoscendo il vero delle cose, ovvero la tristezza e l’infelicità.” “Chi era Silvia e che cosa fece per meritarsi la splendida canzone a lei dedicata?”. “Silvia, in realtà, si chiamava Teresa Fattorini ed era figlia del cocchiere di casa Leopardi. Non è facile stabilire se il poeta ne fosse stato innamorato, tanto da dedicarle questa lirica. In essa, infatti, il rapporto tra i due giovani si risolve in un altro modo: dal balcone di casa sua, Giacomo sente Silvia cantare la speranza nel domani. Insieme, sognano l’avvenire, quell’avvenire che, giunto, vedrà la fanciulla morta nel fiore degli anni, così come tutte le speranze in essa riposte”. “E su La quiete dopo la tempesta?”. “I temi di questa canzone, il cui titolo è diventato anche un comune modo di dire, sono riconducibili ai concetti di piacere e dolore nel pensiero di Leopardi. Passata una tempesta, la vita riprende con una certa gioia, si riguadagnano le consuete attività. Questo piacere però, è effimero e momentaneo. E’ soltanto una piccola interruzione del dolore, rappresentato dalla tempesta. La vita continua, inesorabilmente dolorosa ed infelice, aspettando solo di aver fine con la morte”. “I contenuti de La quiete dopo la tempesta sono simili a quelli de Il sabato del villaggio?”. 365196-800x535-500x334“Sì. La felicità di poter avere l’indomani, una giornata di riposo, è presto annullata dal pensiero che, comunque, tutto tornerà com’è, passato quel giorno festivo. Il piacere dura un momento, non di più”. “La ginestra o il fiore del deserto è tra le ultime composizioni dell’autore: vi è concentrato il suo pensiero? Rappresenta, quindi, una sorta di testamento spirituale?”. “Decisamente  sì.  Fu  scritta  proprio con  questo intento. Da Torre del Greco, Leopardi poteva ammirare quotidianamente il Vesuvio, sulle cui pendici spoglie e riarse crescevano soltanto ginestre. Queste piante, nella simbologia leopardiana, rappresentano l’uomo: esse resistono alla furia del Vesuvio – Natura, ricrescono sulla lava pietrificata, nonostante le continue eruzioni. È contro la Natura crudele che gli uomini devono combattere, non contro loro stessi. Anzi, unendosi, essi possono affrontare insieme i dolori della propria condizione”. Credo che a questo punto l’interrogazione sia finita. Chissà che voto mi darebbe il mio professore di Letteratura Italiana Guido Arbizzoni, semmai leggesse questo articolo. Un altro 30 e lode? Forse. Magari, un giorno, glielo mando.

L’abbraccio del canto

Casella e la melodia del ricordo eterno

 

 

 

Casella, il musico fiorentino amico di Dante, appare nel Canto II del Purgatorio della Divina Commedia. La sua figura, avvolta da un’aura di dolcezza e nostalgia, incarna una delle più toccanti rappresentazioni dell’amicizia e dell’arte nella Commedia. Il sua comparizione è breve, ma carica di significato simbolico ed emotivo.
Dante e Casella si incontrano sulla spiaggia del Purgatorio, in un momento sospeso tra il ricordo della vita terrena e l’attesa della purificazione. Casella compare come un’anima gentile, capace di riportare a Dante un conforto antico attraverso la musica. Quando il sommo poeta lo riconosce, il tono del suo discorso si colora subito di affetto e malinconia. Le prime parole di Dante rivolte all’amico sono piene di calore e desiderio di risentire quella musica che un tempo gli aveva offerto tanto sollievo:

E io: “Se nuova legge non ti toglie
memoria o uso a l’amoroso canto
che mi solea quetar tutte mie doglie,
di ciò ti piaccia consolare alquanto
l’anima mia, che, con la sua persona
venendo qui, è affannata tanto!”.
(Purg. II, vv. 106-111)

In questi versi si percepisce il desiderio di Dante di trovare un momento di tregua dalle fatiche del viaggio, attraverso una consolazione che solo l’arte di Casella gli può offrire. La musica diventa qui un balsamo per l’anima affaticata, un ricordo dei tempi passati, quando l’amicizia e l’arte condividevano lo stesso respiro.

Casella, con la sua risposta affettuosa, non si sottrae alla richiesta dell’amico. Il canto che intona è una canzone, Amor che ne la mente mi ragiona, realmente composta da Dante e inclusa nel Convivio. La sua voce, sulla spiaggia del Purgatorio, sembra sospendere il tempo, creando un momento di perfetta armonia tra il mondo terreno e quello ultraterreno. La scena si carica di una bellezza malinconica, poiché i due amici, per un attimo, rivivono i giorni della vita passata.
Ma questa tregua dura solo un istante. Quando Casella inizia a cantare, tutte le anime presenti si fermano, incantate dalla dolcezza della melodia. Questo idillio viene bruscamente interrotto da Catone, che li richiama all’ordine, ricordando loro che non è tempo di indulgenza, ma di redenzione. Il suo ammonimento è severo:

Che è ciò, spiriti lenti?
Qual negligenza, quale stare è questo?
Correte al monte a spogliarvi lo scoglio
ch’esser non lascia a voi Dio manifesto.
(Purg. II, vv. 120-123)

Il richiamo di Catone segna la fine del momento di contemplazione e ci riporta alla realtà del cammino che Dante deve intraprendere. La figura di Casella, che per un attimo aveva riportato il poeta ai giorni della giovinezza, scompare tra le altre anime. Eppure, il ricordo di questo incontro resta potente, come un’eco lontana, un segno di quanto l’arte e l’amicizia possano elevare l’anima anche nei momenti più difficili.
Casella diventa così simbolo di una dolcezza che il Purgatorio stesso permette, pur nella sua tensione verso la purificazione. In lui, Dante riconosce il potere dell’arte di trasportare l’anima oltre il tempo e lo spazio, rendendola capace di avvicinarsi, almeno per un istante, a quell’armonia divina che solo alla fine del cammino potrà essere raggiunta.
In questa breve apparizione, Casella incarna l’elegia della memoria, dell’amicizia e dell’arte, capace di risvegliare in Dante l’umana nostalgia, ma anche di ricordargli che il cammino verso la salvezza non può arrestarsi per troppo tempo nella dolcezza del ricordo.