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L’inno alla menzogna

L’arte come rivolta e verità suprema in Oscar Wilde

 

 

 

 

La decadenza della menzogna di Oscar Wilde, pubblicato, per la prima volta, nel 1889, è un saggio emblematico del pensiero dell’autore e dell’estetismo di fine Ottocento, un movimento che rivendicava la centralità dell’arte e della bellezza nella vita contro l’imperante utilitarismo e moralismo della società vittoriana. Wilde, figura iconica di questo movimento, utilizza questo saggio per presentare una difesa appassionata della finzione e della menzogna creativa come essenza stessa dell’arte e della cultura.
La forma dialogica, scelta non casualmente da Wilde, richiama l’antica tradizione platonica e ci introduce a una discussione vivace e stimolante tra Vivian e Cyril. Vivian, la voce principale e alter ego intellettuale di Wilde, espone una teoria estetica audace e paradossale, mentre Cyril funge da contrappunto scettico, un elemento essenziale per creare un dibattito in cui le idee si scontrano e si raffinano. La scelta di questa struttura permette a Wilde non solo di presentare i propri argomenti in modo teatrale, ma anche di coinvolgere il lettore in una riflessione attiva.
Wilde sostiene che la menzogna, lungi dall’essere un atto riprovevole, rappresenta l’apice dell’arte. In un mondo in cui la verità è spesso associata al banale e al convenzionale, l’artista, secondo Wilde, ha il dovere di creare mondi nuovi e visioni superiori della realtà attraverso l’invenzione e la finzione.
Questa difesa della menzogna va letta non come un elogio dell’inganno in senso etico, ma come una celebrazione del potere immaginativo dell’arte, capace di rivelare verità più profonde attraverso l’invenzione. L’arte, sostiene Vivian, deve elevarsi al di sopra della realtà e non limitarsi a imitarla in maniera pedissequa. Questa idea sfida direttamente le concezioni naturalistiche dell’epoca, che cercavano nell’arte uno specchio della realtà.

Wilde critica la tradizione platonica che vede l’arte come imitazione della natura, sottolineando come questa visione sia responsabile di una decadenza culturale. Al contrario, l’arte dovrebbe prendere le distanze dalla natura e proporre qualcosa di completamente nuovo e diverso, una creazione originale che trascende la banalità del mondo tangibile. Per Wilde, la realtà è limitata, imperfetta e grezza; l’arte, invece, è raffinata, ideale e trasformativa.
Questa critica alla mimesi anticipa in parte idee moderne sulla funzione dell’arte, che si distacca dall’essere solo un riflesso della realtà per diventare un’interpretazione o una costruzione indipendente. La modernità ha accolto molte di queste idee, influenzando movimenti artistici e letterari successivi, come il surrealismo e il modernismo, che esplorarono la dimensione del sogno, della finzione e del non convenzionale.
Uno degli aforismi più celebri di Wilde, “La vita imita l’arte molto più di quanto l’arte imiti la vita”, riassume una delle idee chiave del saggio. Secondo questa prospettiva, la realtà prende forma dai modelli artistici e non viceversa. Le mode, i comportamenti e persino le emozioni sono influenzati dall’arte, che agisce come un filtro attraverso il quale la società percepisce e costruisce la propria esperienza. Wilde anticipa così la concezione secondo cui i fenomeni culturali plasmano le nostre percezioni della realtà, un’idea che diventerà centrale nella filosofia e nella critica culturale del Novecento.
La decadenza della menzogna, quindi, non costituisce solo una difesa teorica dell’arte, ma anche una critica sottile e ironica alla società del tempo. Wilde mette in discussione il culto della scienza, del progresso e della verità empirica, sostenendo che una società ossessionata da questi valori rischia di diventare priva di fantasia e di bellezza. La provocazione non è fine a se stessa; piuttosto, serve a scardinare il conformismo intellettuale e a incoraggiare un ritorno all’apprezzamento dell’arte per il suo valore intrinseco.
Le riflessioni di Wilde sulla menzogna e sull’arte sono ancora oggi fonte di ispirazione per il dibattito sull’autonomia dell’arte. La sua difesa dell’immaginazione come strumento di verità superiore ha influenzato non solo la letteratura e l’arte visiva, ma anche la critica filosofica e la teoria della percezione. In un’epoca in cui le rappresentazioni digitali e i mondi virtuali stanno ridefinendo la nostra esperienza del reale, le idee di Wilde sulla finzione e sull’illusione appaiono particolarmente pertinenti.
La sua opera sfida le nozioni tradizionali di verità e realtà, e ci invita a considerare l’importanza di preservare lo spazio dell’immaginazione come un regno di libertà creativa e introspezione. La decadenza della menzogna ci ricorda che, nella sua forma più alta, l’arte è un mezzo attraverso il quale possiamo sfuggire alla tirannia della realtà per scoprire nuove prospettive e significati.

 

 

 

 

Giambattista Marino: il principe del Barocco

 

 

 

 

Il principe dei poeti del Seicento, il vero re del secolo, l’uomo che diede l’impronta all’intera stagione poetica barocca, nacque a Napoli il 14 ottobre 1569. Trascorse l’infanzia felice nella sua città, frequentando ambienti intellettuali e culturalmente molto stimolanti. Sin da ragazzino, amò così tanto le lettere che al momento di cominciare a pensare seriamente al futuro litigò col padre, che lo avrebbe voluto uomo di legge, se andò via da casa e visse spensieratamente la sua passione. Era al servizio di Matteo di Capua, principe di Conca, quando capì che la vita di corte sarebbe stata l’unica a potergli garantire tutto quello che voleva: successo, soldi e belle donne. Per ottenere ciò, non esitò ad usare mezzi non sempre legali: Frans_Pourbus_the_Younger_-_Portrait_of_Giovanni_Battista_Marinofu, infatti, incarcerato due volte, la prima, per aver sedotto una minorenne, costringendola all’aborto, e la seconda, per aver falsificato alcune bolle vescovili. Influenti protettori, comunque, gli garantirono sempre i salvacondotto per uscire di galera. Di corte in corte, a Torino, nel palazzo di Carlo Emanuele I di Savoia, per entrare nelle grazie del duca e cercare di stabilirvisi, vitto e alloggio spesati, scrisse un Ritratto del serenissimo Don Carlo Emanuello duca di Savoia, che gli valse la nomina a Cavaliere dei Santi Maurizio e Lazzaro, un’onorificenza importantissima la quale, però, fece morire d’invidia il poeta di corte Gaspare Murtola che addirittura tentò, senza riuscirci, di ammazzarlo. Marino, invece del coltello, per rispondere, usò la poesia, componendo la Murtoleide, una raccolta di sonetti dove lo combinò proprio male. Visse diversi anni dai Savoia, non sempre idillicamente, a causa della sua disinvoltura nel comporre versi, che spesso facevano infuriare i cortigiani e i suoi benefattori. La sua fama, intanto, cresceva giorno dopo giorno, così che, nel 1615, la Carla Bruni Sarkozy dell’epoca, ovvero Maria de’ Medici, non perché fosse modella e cantante, quanto piuttosto moglie del re di Francia Enrico IV, lo chiamò a palazzo come poeta di corte. A Parigi, il cavalier Marino se la spassò alla grande: col ricco stipendio di cortigiano versatogli dalla regina poté vivere come un nababbo, collezionando quadri, opere d’arte e la biancheria intima delle dame che passavano per la sua camera da letto. Scrisse molto in questo periodo, pubblicando quasi tutte le sue opere e una sontuosa edizione dell’Adone, il suo maggiore poema, tutto a spese del re Luigi XIII, il figlio di Maria. Qualche tempo dopo, però, le cose cominciarono a cambiare anche a Parigi. Decise, così, di tornare nella sua Napoli, dove fu accolto come un trionfatore, più di Fabio Cannavaro dopo la vittoria ai Mondiali di calcio del 2006. Turbato oltremodo dalle rotture di scatole dell’autorità ecclesiastica, riguardo la lussuria e le sconcezze contenute nell’Adone, morì all’ombra del Vesuvio il 25 Marzo 1625.

Le opere

Marino pubblicò la sua prima raccolta poetica nel 1602, intitolandola Rime, e, poi, ampliandola, per un totale di circa 900 componimenti, dati alle stampe dodici anni dopo, col titolo La Lira. Vi sono inclusi sonetti di vari argomenti: amorosi, sacri, encomiastici, boscherecci, marittimi, lugubri ed eroici.

“Or che da te, mio bene,
Amor lunge mi tiene, il pensier vago
spesso innanzi mi pon l’amata imago.
E qual ape ingegnosa,
quindi un giglio talor, quinci una rosa
scegliendo a suo diletto,
rappresentar mi sole
ne le più belle forme il caro oggetto;
e spesso mostra al cor, ch’egro si dole,
la tua beltà nel Ciel, gli occhi nel Sole”.

(Nel medesimo suggetto, 11)

“È sogno o ver? Se sogno, ahi, chi depinge
viva la bella imagine ala mente?
Come fiamma sì lucida e sì ardente
gelid’ombra notturna esprime e finge?”

(Sogno, vv. 1 – 4)

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Con La Sampogna, crestomazia divisa in due parti, otto idilli favolosi e quattro pastorali, Marino si confrontò con i miti greci e i drammi pastorali. Ne viene fuori un paesaggio silvano e bucolico arricchito dal prezioso linguaggio poetico dell’Autore.

“Seguillo il pin robusto,
carco di duri e noderosi scogli,
che per cercar de la perduta figlia
a la feconda dea prestò le faci;
seco condusse la compagna quercia,
arbore a Giove cara, e de le ghiande
(cibo de’ primi eroi) madre ferace”.

(La Sampogna, Idilli favolosi, Orfeo, vv. 762 – 768)

La Galeria, invece, sempre nello stile meraviglioso ed emozionante del poeta, è una raccolta di componimenti dedicati alla descrizione di opere d’arte, pitture e sculture, reali o immaginarie. Cosa fu Marino se non un pittore di parole e concetti? La sua poesia si avvale delle pennellate del prezioso e del ricercato, del sublime e dell’immaginifico, del viaggio della mente (con o senza sostanze illegali!).

L’Adone

Adone, scampato ad una terribile tempesta, approda sull’isola di Cipro, dove la dea Venere ha il suo bel palazzo. Cupido scocca una freccia e fa innamorare la madre del principe che, svegliatosi, viene pure lui colpito da un dardo, ricambiando, così, l’amore di Venere. imagesAdone, tutto innamorato della bella Cipride, ascolta Cupido e Mercurio mentre gli raccontano storie d’amore e viene poi accompagnato nel Giardino del Piacere, diviso in cinque parti, ognuna corrispondente ad uno dei cinque sensi, e alla fontana di Apollo. Marte, avvertito da Gelosia che Venere ama qualcun altro, corre a Cipro. Adone, avvertito in tempo, scappa e viene trasformato in un pappagallo per aver rifiutato l’amore di Venere. Mercurio, però gli fa riprendere il suo vero aspetto e, dalla padella alla brace, viene sequestrato da una banda di ladroni. Tornato a Cipro, dopo aver vinto una gara di bellezza, è incoronato re dell’isola e si riavvinghia a Venere ma Marte, durante una battuta di caccia, lo fa uccidere da un cinghiale. Adone muore fra le braccia di Venere, che trasforma il suo cuore in un fiore rosso, l’anemone. Solenni giochi funebri sono allestiti per onorare il bel giovane. Quest’opera è tra le più lunghe di tutta la Letteratura Italiana: 5.033 ottave, per un totale di 40.264 versi, distribuiti in venti canti. L’Adone è un poema sostanzialmente antinarrativo perché l’esile trama è soltanto il ponteggio adottato dell’Autore per edificare il suo castello di metafore e concetti, che tanta parte avevano nella poetica della meraviglia barocca. Marino dovette dare fondo a tutta la sua potenza immaginifica per costruire un’opera nella quale non è difficile perdersi, appunto perché manca il filo di Arianna, rappresentato dalla narrazione lineare degli eventi. Esso è un poema per immagini, come una galleria d’arte, dove sono esposti i quadri più splendidi e differenti. Descrittività, mito, citazioni, altissima ritmicità metrica e lirica, ne sono componenti fondamentali.

 

 

 

 

Le Ultime lettere di Jacopo Ortis e l’utilità della Letteratura

 

 

 

 

L’animo inquieto, le delusioni amorose, lo sconforto, la lontananza dagli affetti familiari, l’amore per la patria che non esisteva più. È tutto concentrato in questo romanzo epistolare di Ugo Foscolo. Sono lettere che Jacopo Ortis spedisce all’amico Lorenzo Alderani il quale, dopo la sua morte, le stampa, precedute da un’introduzione e seguite da una conclusione. Foscolo trasse l’ispirazione per scrivere quest’opera, non solo dalla sua esperienza e dalle passioni che lo consumavano, ma anche dal romanzo di Johann Wolfgang Goethe, I dolori del giovane Werther, scritto che aveva avuto un enorme successo in tutta Europa. Forse fu plagio, eppure, fu un plagio di altissimo livello.

foscoloUgo Foscolo

Il giovane Ortis in esilio, triste e disperato come non mai, si ritira sui Colli Euganei:

“Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure, e la nostra infamia.
(Lettera a Lorenzo Alderani dell’11 ottobre 1797, dai Colli Euganei)

Colà, incontra la famiglia del signor T., la figlia Teresa, e Odoardo, il suo promesso sposo. Si innamora di Teresa e quell’amore cresce di giorno in giorno, soprattutto quando scopre che lei non ama Odoardo ma lo sposerà per compiacere il padre, il quale ha combinato quelle 5682806-Mnozze per interesse. Poco dopo, Jacopo va a Padova, ma vi resiste solo due mesi. Ritorna, in fretta, da Teresa. Profittando dell’assenza di Odoardo, può starle vicino e riprendere le conversazioni con lei, sotto gli alberi di pino, al tramonto. Si rende definitivamente conto che sarebbe felice soltanto se la potesse sposare. Il destino, purtroppo, gli è avverso. I due giovani arrivano anche a scambiarsi un bacio. Ma non c’è niente da fare, non potrà esservi seguito. Jacopo si ammala e, al padre di Teresa che va a visitarlo, confessa il suo amore per la figlia. Ristabilitosi, scrive una lettera d’addio alla sua amata e parte. La sua disperazione raggiunge i livelli massimi ogniqualvolta, custodita nel taschino della giacca, stringe la sua immagine e la contempla. Giunto a Nizza, viene a sapere che Teresa si è sposata e decide, così, di farla finita: torna sui Colli Euganei per rivederla e lì, dopo aver scritto le ultime due lettere, una all’amico Lorenzo e l’altra a Teresa:

“Ma io moro incontaminato, e padrone di me stesso, e pieno di te, e certo del tuo pianto. Perdonami, Teresa, se mai – ah consolati, e vivi per la felicità de’ nostri miseri genitori; la tua morte farebbe maledire le mie ceneri. Che se taluno ardisse incolparti del mio infelice destino, confondilo con questo mio giuramento solenne ch’io pronunzio gittandomi nella notte della morte: Teresa è innocente. – Ora accogli l’anima mia
(Lettera a Teresa del 25 marzo 1799)

si pianta un coltello nel cuore.

“Teresa visse in tutti que’ giorni fra il lutto de’ suoi in un mortale silenzio. – La notte mi trascinai dietro al cadavere che da tre lavoratori fu sotterrato sul monte de’ pini”.
(Dalla conclusione di Lorenzo Alderani)

colliColli Euganei

Quand’ero all’Università, mi innamorai di una ragazza dai lunghi capelli neri. Si chiamava Melissa ed era bella, molto bella. Per poco più di un anno, soffrii molto il fatto di non poterla avere, poi, pian piano, me ne feci una ragione e la mia vita continuò. Il tempo, a volte, lenisce le pene d’amore più delle carezze di una madre! Jacopo Ortis, almeno, baciò Teresa. Io non riuscii ad avere da Melissa nemmeno un bacio. La mia disperazione era tale che, tra le tante cose poco sensate che in questi casi si fanno, comprai un’altra copia delle Ultime lettere di Jacopo Ortis, ne avevo già due da qualche parte nella mia biblioteca, e la rilessi tutta d’un fiato, un sabato pomeriggio di gennaio, proprio per trovare qualcuno con cui condividere la mia sofferenza. Immaginate il sollievo e la consolazione, quindi! La sera dopo, telefonai Melissa e la invitai a casa mia, soltanto per darle un fiore, una rosa rossa che avevo rubato dal giardino di un finanziere vicino casa mia (rischiando pure di andare in galera!), e per dirle grazie, perché l’essere innamorato di lei, mi aveva comunque inondato la vita di passione. Ebbi cura di sistemare la copia dell’Ortis in bella vista sopra il televisore, sperando che lei ne conoscesse il contenuto e provasse, per me, almeno un po’ di pietà. Quando arrivò, dopo i quindici minuti che impiegai per trovare il coraggio di riferirle quelle parole che ho riportato qualche rigo più sopra, si avvicinò al televisore, prese in mano il libro, si girò e mi chiese:
“Di che parla?”.
“Di me”, risposi.
“Come di te, che significa?”.
“Parla della fine che uno ha fatto per amore di una donna che si chiamava Melissa e aveva i capelli neri”.
“Non fare lo stupido”, mi interruppe. “Che fine ha fatto questo?”.
“Quando lei gli ha chiesto di cosa trattasse il libro, ha capito che forse sarebbe stato meglio cercarsi un’altra donna. Ma, siccome sapeva già che non sarebbe riuscito a trovarne nessuna che avesse potuto amare come amava lei, si è ucciso!”.
“Vieni qua, scemo!”.
Mi abbracciò, mentre io le carezzavo i lunghi capelli neri. Durò pochi secondi, ma fu bellissimo.

Grazie alla morte di Jacopo Ortis e a Ugo Foscolo che ne hascrisse la tristissima storia, riuscii ad avere un abbraccio da Melissa.

A volte la Letteratura è molto più utile di quanto possa sembrare!

 

 

I Canti di Giacomo Leopardi

 

 

 

Per anni, ho tenuto questa sublime raccolta poetica sul comodino accanto al mio letto, leggendone, ogni sera, qualche verso, prima di addormentarmi. tumblr_mibi5ajPwA1s2cwoio1_1280In copertina dell’edizione che posseggo, vi è raffigurato un particolare del quadro di Giuseppe Pietro Bagetti, Notturno con effetto di luna (immagine a destra), bellissimo. È stato il libro che in assoluto ho regalato di più, ovviamente, alle donne. Tutte quelle che, finora, sono state importanti per me, ne hanno una copia, con la mia dedica in prima pagina. Ad ogni modo, comunque, nulla di meglio degli stessi versi di Leopardi potrebbero dare spiegazione di se stessi, ma, se riportassi qui di seguito, verso dopo verso, tutti i componimenti inclusi nei Canti, commetterei un plagio maldestro, nonostante non debba diritti d’autore a nessuno. Il rimando al testo leopardiano, qui, è d’obbligo, altrimenti, qualsiasi mio sforzo sarebbe inutile. Quindi, consiglio vivamente, una volta terminata la lettura di questo articolo, di giacomo-leopardi-ragazzoaprire una qualsiasi edizione dei Canti, oppure, di digitare Canti in un qualsiasi motore di ricerca su internet, e leggere. Solo così, l’arte del grandissimo Giacomo Leopardi (immagine a sinistra) potrà far breccia nei cuori dei lettori. Ciò, tuttavia, non mi esenta dal compito di raccontarne i tempi della composizione, i temi e tutte quelle altre utili notizie che possano essere preparatorie alla lettura vera e propria. Bene, i testi poetici contenuti in questa cassaforte di preziosi preziosissimi furono composti dall’autore lungo quasi tutta la sua vita e pubblicati man mano, prima di finire nelle due principali edizioni dei Canti, del 1831 e del 1835. Il tramonto della luna e La ginestra, invece, furono aggiunti nella definitiva edizione postuma del 1845. Ora, se qualcuno mi chiedesse: “Di cosa parla l’Infinito?”. Io risponderei: “Questo idillio è una proiezione della mente dell’autore, una mente infinita, a beautiful mind, direbbero gli americani. Solo, sul colle dell’Infinito, non lontano da casa, a Recanati, al poeta non è possibile ammirare il panorama, a causa della siepe che da tanta parte de l’ultimo orizzonte il guardo esclude (vv. 2-3). E, allora, lui immagina, con la sua mente percorre l’infinità dello spazio e del tempo, l’eternità, e, per una volta felice, il naufragar gli è dolce in questo mare. “E il Bruto minore?”. “Questa canzone ha un significato molto profondo. Bruto, uno degli assassini di Cesare, è a Filippi, sul campo di battaglia, dove, insieme con Cassio, è stato sconfitto da Antonio. L’uomo, assassinando Cesare il dittatore, in cuor suo sa di aver agito per difendere la Repubblica e la libertà di Roma e, per questo, non è soltanto la sconfitta in battaglia a rattristarlo, quanto piuttosto il fatto che il suo gesto e il suo amore per la libertà non siano stati compresi. cetraCosì, si uccide, sicuro di non essere ricordato da nessuno”. “E’ vero che L’ultimo canto di Saffo tratta un tema simile al Bruto minore?”. “In un certo senso sì. La poetessa Saffo (immagine a destra) è innamorata di Faone, che la respinge, perché, nonostante sia molto colta e compita, non è bella. La Natura maligna ha fatto sì che gli uomini preferissero la bellezza del corpo alle virtù dell’intelletto e, nell’impossibilità di trovare un senso a queste cose, Saffo si uccide”. “Quali sono gli argomenti della canzone Alla Primavera o delle favole antiche?”. “Beh, il riferimento a questa stagione, simbolo della natura che ogni anno si rinnova, è inteso dal poeta in contrapposizione alla primavera della storia, vale a dire a quell’età originaria in cui gli uomini vivevano in armonia con la Natura avvertendone, grazie alla forte potenza immaginativa di cui erano dotati, aspetti nascosti e spirituali in ogni sua creatura. Purtroppo, però, a causa dell’evoluzione delle civiltà, essi hanno perso tutto ciò, conoscendo il vero delle cose, ovvero la tristezza e l’infelicità.” “Chi era Silvia e che cosa fece per meritarsi la splendida canzone a lei dedicata?”. “Silvia, in realtà, si chiamava Teresa Fattorini ed era figlia del cocchiere di casa Leopardi. Non è facile stabilire se il poeta ne fosse stato innamorato, tanto da dedicarle questa lirica. In essa, infatti, il rapporto tra i due giovani si risolve in un altro modo: dal balcone di casa sua, Giacomo sente Silvia cantare la speranza nel domani. Insieme, sognano l’avvenire, quell’avvenire che, giunto, vedrà la fanciulla morta nel fiore degli anni, così come tutte le speranze in essa riposte”. “E su La quiete dopo la tempesta?”. “I temi di questa canzone, il cui titolo è diventato anche un comune modo di dire, sono riconducibili ai concetti di piacere e dolore nel pensiero di Leopardi. Passata una tempesta, la vita riprende con una certa gioia, si riguadagnano le consuete attività. Questo piacere però, è effimero e momentaneo. E’ soltanto una piccola interruzione del dolore, rappresentato dalla tempesta. La vita continua, inesorabilmente dolorosa ed infelice, aspettando solo di aver fine con la morte”. “I contenuti de La quiete dopo la tempesta sono simili a quelli de Il sabato del villaggio?”. 365196-800x535-500x334“Sì. La felicità di poter avere l’indomani, una giornata di riposo, è presto annullata dal pensiero che, comunque, tutto tornerà com’è, passato quel giorno festivo. Il piacere dura un momento, non di più”. “La ginestra o il fiore del deserto è tra le ultime composizioni dell’autore: vi è concentrato il suo pensiero? Rappresenta, quindi, una sorta di testamento spirituale?”. “Decisamente  sì.  Fu  scritta  proprio con  questo intento. Da Torre del Greco, Leopardi poteva ammirare quotidianamente il Vesuvio, sulle cui pendici spoglie e riarse crescevano soltanto ginestre. Queste piante, nella simbologia leopardiana, rappresentano l’uomo: esse resistono alla furia del Vesuvio – Natura, ricrescono sulla lava pietrificata, nonostante le continue eruzioni. È contro la Natura crudele che gli uomini devono combattere, non contro loro stessi. Anzi, unendosi, essi possono affrontare insieme i dolori della propria condizione”. Credo che a questo punto l’interrogazione sia finita. Chissà che voto mi darebbe il mio professore di Letteratura Italiana Guido Arbizzoni, semmai leggesse questo articolo. Un altro 30 e lode? Forse. Magari, un giorno, glielo mando.

L’abbraccio del canto

Casella e la melodia del ricordo eterno

 

 

 

Casella, il musico fiorentino amico di Dante, appare nel Canto II del Purgatorio della Divina Commedia. La sua figura, avvolta da un’aura di dolcezza e nostalgia, incarna una delle più toccanti rappresentazioni dell’amicizia e dell’arte nella Commedia. Il sua comparizione è breve, ma carica di significato simbolico ed emotivo.
Dante e Casella si incontrano sulla spiaggia del Purgatorio, in un momento sospeso tra il ricordo della vita terrena e l’attesa della purificazione. Casella compare come un’anima gentile, capace di riportare a Dante un conforto antico attraverso la musica. Quando il sommo poeta lo riconosce, il tono del suo discorso si colora subito di affetto e malinconia. Le prime parole di Dante rivolte all’amico sono piene di calore e desiderio di risentire quella musica che un tempo gli aveva offerto tanto sollievo:

E io: “Se nuova legge non ti toglie
memoria o uso a l’amoroso canto
che mi solea quetar tutte mie doglie,
di ciò ti piaccia consolare alquanto
l’anima mia, che, con la sua persona
venendo qui, è affannata tanto!”.
(Purg. II, vv. 106-111)

In questi versi si percepisce il desiderio di Dante di trovare un momento di tregua dalle fatiche del viaggio, attraverso una consolazione che solo l’arte di Casella gli può offrire. La musica diventa qui un balsamo per l’anima affaticata, un ricordo dei tempi passati, quando l’amicizia e l’arte condividevano lo stesso respiro.

Casella, con la sua risposta affettuosa, non si sottrae alla richiesta dell’amico. Il canto che intona è una canzone, Amor che ne la mente mi ragiona, realmente composta da Dante e inclusa nel Convivio. La sua voce, sulla spiaggia del Purgatorio, sembra sospendere il tempo, creando un momento di perfetta armonia tra il mondo terreno e quello ultraterreno. La scena si carica di una bellezza malinconica, poiché i due amici, per un attimo, rivivono i giorni della vita passata.
Ma questa tregua dura solo un istante. Quando Casella inizia a cantare, tutte le anime presenti si fermano, incantate dalla dolcezza della melodia. Questo idillio viene bruscamente interrotto da Catone, che li richiama all’ordine, ricordando loro che non è tempo di indulgenza, ma di redenzione. Il suo ammonimento è severo:

Che è ciò, spiriti lenti?
Qual negligenza, quale stare è questo?
Correte al monte a spogliarvi lo scoglio
ch’esser non lascia a voi Dio manifesto.
(Purg. II, vv. 120-123)

Il richiamo di Catone segna la fine del momento di contemplazione e ci riporta alla realtà del cammino che Dante deve intraprendere. La figura di Casella, che per un attimo aveva riportato il poeta ai giorni della giovinezza, scompare tra le altre anime. Eppure, il ricordo di questo incontro resta potente, come un’eco lontana, un segno di quanto l’arte e l’amicizia possano elevare l’anima anche nei momenti più difficili.
Casella diventa così simbolo di una dolcezza che il Purgatorio stesso permette, pur nella sua tensione verso la purificazione. In lui, Dante riconosce il potere dell’arte di trasportare l’anima oltre il tempo e lo spazio, rendendola capace di avvicinarsi, almeno per un istante, a quell’armonia divina che solo alla fine del cammino potrà essere raggiunta.
In questa breve apparizione, Casella incarna l’elegia della memoria, dell’amicizia e dell’arte, capace di risvegliare in Dante l’umana nostalgia, ma anche di ricordargli che il cammino verso la salvezza non può arrestarsi per troppo tempo nella dolcezza del ricordo.

 

 

 

Antigone di Sofocle

Un inno alla resilienza dell’anima

 

 

 

Sotto l’immenso cielo greco, tra le ombre degli dèi e i sussurri del destino, si staglia una figura luminosa e tragica: Antigone. L’opera di Sofocle, un capolavoro intramontabile, è un’ode alla ribellione dell’anima umana contro l’ineluttabilità del fato e la durezza del potere.
Nella città di Tebe, luogo intriso di miti e tragedie, il coro delle anziane donne introduce alla vicenda. Il suono delle parole di Sofocle è come un canto antico, che riecheggia nei cuori con la forza di una tempesta lontana. Qui, la voce di Antigone, decisa a dare sepoltura al fratello Polinice, contro la legge del re Creonte, si leva come un grido di dolore e di sfida.
Tebe è una polis dilaniata dalla guerra civile tra i figli di Edipo, Eteocle e Polinice. Entrambi cadono in battaglia, lasciando Creonte, nuovo re della città, a prendere dure decisioni per ristabilire l’ordine. Il sovrano decreta che Eteocle, difensore della città, riceverà una sepoltura onorevole, mentre Polinice, considerato un traditore, verrà lasciato insepolto, in balia delle bestie e degli elementi.
Antigone, sorella dei due defunti, non può accettare questa ingiustizia. Guidata dall’amore fraterno e dalle leggi divine che impongono la sepoltura dei morti, decide di sfidare il decreto di Creonte. Di fronte alla sorella Ismene, che cerca di dissuaderla, la giovane rivela la sua incrollabile determinazione: seppellirà Polinice, anche a costo della vita. Questo atto di ribellione non è solo un gesto di pietà, ma una dichiarazione di guerra contro l’arbitrio del potere. Antigone viene catturata mentre compie il rito funebre per Polinice. Portata al cospetto di Creonte, difende fieramente le sue azioni, sostenendo che le leggi degli dèi siano superiori a quelle degli uomini. Creonte, irremovibile, vede nel gesto di Antigone un pericolo per l’ordine dello Stato e decide di punirla con la morte. Ismene, colpita dal coraggio della sorella, cerca di condividere la sua sorte, ma Antigone rifiuta la solidarietà tardiva. Il coro, composto dai cittadini tebani, presenta riflessioni profonde sulla natura del potere, della giustizia e della sorte. Il suo canto funge da eco delle tensioni interne ai personaggi principali e amplifica il dramma che si sta consumando. Attraverso le sue parole, Sofocle guida in una meditazione collettiva sulle conseguenze delle azioni umane e sull’inflessibilità del destino.
Emone, figlio di Creonte e promesso sposo di Antigone, tenta disperatamente di salvare la sua amata. In un acceso dialogo con il padre, cerca di farlo ragionare, evidenziando l’errore di giudizio e le ripercussioni del suo decreto. Ma Creonte, accecato dal suo stesso orgoglio, rifiuta di ascoltarlo. Emone, sconvolto, minaccia di suicidarsi se Antigone verrà uccisa. Tiresia, l’indovino cieco, avverte Creonte delle terribili conseguenze delle sue azioni. Il suo consiglio è di seppellire Polinice e liberare Antigone. Il re, inizialmente sordo a questi avvertimenti, è infine persuaso quando Tiresia predice che la maledizione degli dèi si abbatterà sulla sua casa. Tuttavia, il pentimento arriva troppo tardi. Quando Creonte decide di cedere, Antigone è già morta, suicidatasi nella prigione in cui era stata rinchiusa. Emone, disperato, si uccide accanto al corpo della sua amata. Euridice, moglie di Creonte e madre di Emone, sopraffatta dal dolore per la perdita del figlio, si toglie la vita maledicendo il marito. Creonte, distrutto e solo, comprende troppo tardi la follia della sua ostinazione. La tragedia si chiude con una nota di profonda amarezza, lasciando un monito sulla fragilità dell’esistenza umana e sull’ineluttabilità del destino.

Creonte, incarnazione del rigore e dell’ordine, rappresenta il potere che si erge inflessibile contro il fluire delle emozioni e dei legami familiari. Egli è un re che cerca di dominare il caos con il ferro e con il fuoco, ma si trova di fronte alla forza inarrestabile della pietà filiale. Antigone, delicata e forte come una rosa selvatica, sfida il suo volere con la purezza di un ideale inviolabile.
Il dialogo tra i personaggi è come un tessuto finemente ricamato, ogni parola un filo che intreccia destino e volontà. Il coro, testimone e narratore, arricchisce la scena con riflessioni poetiche sulla natura degli dèi, della giustizia e della fragilità umana. La tragedia si dispiega con una bellezza dolorosa, dove ogni gesto e ogni silenzio sono carichi di significato.
Nel culmine della rappresentazione, è messa in scena la solitudine di Creonte, un uomo piegato dalla sua stessa rigidità, e la gloria funesta di Antigone, il cui sacrificio riecheggia eternamente nelle pieghe del tempo. Il loro scontro non ha vincitori, solo una profonda meditazione sulla condizione umana e sulla forza inarrestabile della verità interiore.

In Antigone, la legittimità della legge è uno dei temi centrali, che Sofocle sonda con profondità e complessità. Creonte rappresenta la legge dello Stato, che egli vede come indispensabile per mantenere l’ordine e la stabilità nella città di Tebe. La sua decisione di vietare la sepoltura di Polinice è basata su una visione di giustizia che privilegia la sicurezza e la coesione sociale rispetto ai diritti individuali e ai legami familiari.
Tuttavia, il tragediografo mette in discussione questa visione della legge attraverso il personaggio di Antigone. La sua ribellione non è solo un atto di disobbedienza civile, ma un’affermazione della superiorità delle leggi divine e morali rispetto a quelle umane. Antigone crede fermamente che esistano leggi eterne e immutabili che regolano la pietà e il rispetto per i morti, leggi che sono superiori a qualsiasi decreto umano. Questo contrasto tra la legge dello Stato e la legge divina crea una tensione drammatica che permea tutta l’opera, sollevando domande sulla vera natura della giustizia e sull’autorità morale delle leggi imposte dagli uomini.
Creonte è un sovrano che incarna l’autorità e il potere. La sua figura è complessa, delineando sia la necessità di un governo forte sia i pericoli di un’autorità eccessiva e inflessibile. La sua determinazione a punire Polinice e a far rispettare le sue leggi è motivata dal desiderio di affermare il controllo su una città appena uscita da una guerra civile. Creonte crede che la stabilità dello Stato dipenda dall’obbedienza assoluta alle leggi da lui promulgate. Tuttavia, la sua autorità si trasforma rapidamente in tirannia, quando si rifiuta di ascoltare le ragioni di Antigone e di suo figlio Emone. La sua incapacità di adattarsi e di riconoscere l’umanità delle persone che governa lo porta a una serie di decisioni tragiche e, infine, alla sua rovina personale.
Sofocle utilizza il personaggio di Creonte per indagare i limiti del potere e le conseguenze della sua assolutizzazione. Creonte rappresenta un monito contro l’arroganza e l’ostinazione di chi detiene l’autorità. Antigone è l’eroina tragica la cui ribellione è il fulcro della trama. La sua decisione di seppellire il fratello Polinice, nonostante il divieto di Creonte, è un atto di coraggio e di fede nei principi morali superiori. Antigone agisce in nome della pietà, dell’amore fraterno e del rispetto delle leggi divine, sfidando apertamente l’autorità del re.
La ribellione di Antigone è anche un atto di affermazione dell’identità femminile in un mondo dominato da leggi e valori patriarcali. La sua determinazione e la sua forza morale contrastano con la passività di Ismene e la durezza di Creonte, rendendo il suo personaggio un simbolo di resistenza e di integrità.
Sofocle dipinge Antigone come una figura tragica il cui destino è segnato dal suo stesso senso di giustizia e dalla sua fedeltà ai valori ancestrali. La sua ribellione è una sfida non solo al potere tirannico, ma anche alla concezione stessa di cosa significhi essere umano e rispettare gli altri.

Antigone è costruita su una serie di contrasti che arricchiscono il dramma e ne amplificano il significato.

  1. Legge umana vs. legge divina: il conflitto tra le leggi dello Stato, rappresentate da Creonte, e le leggi divine, sostenute da Antigone, è il nucleo della tragedia. Questo contrasto solleva domande fondamentali sulla natura della giustizia e della moralità.
  2. Autorità vs. ribellione: Creonte e Antigone impersonano, rispettivamente, l’autorità dello Stato e la ribellione morale. Il loro scontro è una riflessione sulla legittimità del potere e sui diritti dell’individuo di opporsi alle ingiustizie.
  3. Pubblico vs. privato: il conflitto tra doveri pubblici e obblighi privati è incarnato nella decisione di Antigone di dare sepoltura al fratello, un atto privato con conseguenze pubbliche devastanti.
  4. Uomo vs. donna: la dinamica di genere è un elemento significativo nel dramma. Antigone sfida i ruoli tradizionali delle donne nella società greca, mentre Creonte rappresenta il patriarcato che cerca di mantenere il controllo.
  5. Destino vs. libero arbitrio: il destino ineluttabile dei personaggi e le loro scelte personali si intrecciano continuamente. La tragedia esplora quanto i personaggi siano padroni del loro destino e quanto siano vittime delle circostanze.

Antigone di Sofocle è un viaggio attraverso i meandri dell’animo umano, un incontro con le forze invisibili che guidano i nostri passi. È un poema di ribellione e amore, di leggi infrante e destini segnati. In ogni verso, Sofocle ci ricorda che la vera tragedia non è nella caduta, ma nel non lottare per ciò che è giusto. In questo affresco di dolore e bellezza, Antigone ci invita a riflettere sulla nostra stessa natura, sui vincoli che ci legano e sulle forze che ci spingono oltre i limiti dell’esistenza. Un’opera che continua a risplendere, come una stella nell’oscurità, guidandoci con la sua luce immortale.

 

 

 

Le tragedie di Alessandro Manzoni

 

 

 

 

Manzoni 4Alessandro Manzoni, universalmente noto per aver scritto i Promessi Sposi, è stato anche autore di tragedie, che hanno rivoluzionato la struttura classica di questo particolare genere teatrale. Il letterato milanese avrebbe fatto molto arrabbiare Aristotele, massima autorità del campo, se quest’ultimo avesse potuto leggere le sue due opere drammatiche, “Il conte di Carmagnola” (1820) e “Adelchi” (1822), perché, in esse, le unità di tempo, di luogo e d’azione, come teorizzate dal filosofo greco nella Poetica e sulle quali era strutturata la tragedia greca classica, non sono assolutamente prese in considerazione. Aristotele, infatti, sosteneva che la rappresentazione tragica dovesse svolgersi nello stesso luogo e, al massimo, in due giorni. L’esposizione degli antefatti e di altre eventuali chiarificazioni sarebbero state compito del coro che avrebbe, così, informato gli spettatori. Manzoni, in barba al Filosofo, impiega sette anni per far morire il conte di Carmagnola e tre per Adelchi; situa le azioni in campi coltivati e campi di battaglia, nel palazzo del Senato Veneto per la prima tragedia e nell’accampamento di Carlo Magno, nella reggia del re Desiderio e nel convento dove langue Ermangarda per la seconda. All’Autore, evidentemente, interessava dimostrare altro, non la sua bravura ad accordarsi ad un modello che aveva fatto scuola per più di 2000 anni, quanto dar voce a virtù, atteggiamenti e modi di fare, passioni pure e rovinose, azioni spregiudicate, drammi interiori e collettivi, da lui descritti in modo impareggiabile e profondo, spesso velando riferimenti all’Italia del suo tempo. In più, sempre contro la lezione di Aristotele, adoperò i cori per esprimere, in versi, le sue personali riflessioni e il suo punto di vista, tanto che questi potrebbero essere eliminati dal dramma, senza impedirne la comprensione dello sviluppo. Anche nelle antologie scolastiche, infatti, sono i cori, anziché le restanti parti delle tragedie, ad essere solitamente letti e studiati. Capita, non di rado, che gli studenti ne confondano i versi con poesie indipendenti, piuttosto che considerarli parti di opere composte, comunque, più per la lettura che per la rappresentazione a teatro.

Il conte di Carmagnola

Francesco Bussone è un contadino di Carmagnola che diventa soldato di ventura e mercenario al servizio del duca di Milano, Filippo Maria Visconti. Il_conte_di_Carmagnola_HayezLa sua abilità con le armi gli permette una brillante carriera, culminante con la nomina a conte e col matrimonio con la figlia del suo signore. L’invidia dei colleghi, la quale è sempre stata una malattia vecchia come il mondo, fa sì che questi riescano a convincere il duca a cacciarlo da Milano. Il conte di Carmagnola non si perde d’animo e va al servizio dei Veneziani, che stanno preparando la guerra ai milanesi. Valoroso in battaglia come al solito, sbaraglia le truppe meneghine a Maclodio ma non fa rincorrere, per fare prigionieri, i nemici che si erano ritirati e neppure avanza per sfruttare la vittoria. Tutto questo viene considerato un tradimento dal Senato Veneziano che, attiratolo con una scusa a Venezia, lo processa e condanna a morte. L’Autore intende dimostrare come un uomo dallo spirito nobile e generoso, giunto all’apice del successo personale e del potere, possa, poi, cadere in disgrazia, travolto dalla forza malvagia che governa il mondo, trovando, infine, conforto nella fede cristiana.

Adelchi

Ermengarda, moglie ripudiata da Carlo Magno, torna a Pavia dal padre Desiderio, re dei Longobardi. Questi, avendo invaso i territori del papato, ora alleato dei Franchi, e non avendo dato seguito all’ultimatum di Carlo, che gli intimava di ritirarsi, gli dichiara guerra. Ermengarda si reca dalla sorella badessa di un convento a Brescia. Qui, sapute delle nuove nozze del suo ancora amato Carlo, muore per il dispiacere. A questo punto, il famosissimo canto del coro, meglio noto come “La morte di Ermengarda“:

Sparsa le trecce morbide
sull’affannoso petto,
lenta le palme, e rorida
di morte il bianco aspetto,
giace la pia, col tremolo
sguardo cercando il ciel“.

(Adelchi, Atto IV, scena I, vv. 1 – 6)

Giuseppe Bezzuoli, Svenimento di Ermengarda, 1837 - Firenze, Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe

L’esercito franco, intanto, grazie alla spia di un traditore longobardo, riesce a valicare le Alpi, attraverso un passaggio non difeso, giungendo a Verona. Adelchi, il quale si era sempre opposto alla guerra, ma che niente aveva potuto contro il fermo volere del padre, viene ferito gravemente in battaglia ed è portato nella tenda di Carlo, dove si trova pure Desiderio, fatto prigioniero. Muore tra le braccia del padre.

Adelchi: “O Re de’ re tradito
da un tuo Fedel, dagli altri abbandonato!…
Vengo alla pace tua: l’anima stanca
accogli”.
Desiderio: “Ei t’ode: oh ciel! tu manchi! ed io…
In servitude a piangerti rimango“.

(Adelchi, Atto V, scena X, vv. 6-11)

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L’Adelchi è, innanzitutto, la tragedia della lotta dei personaggi contro i propri sentimenti. Bellissima la figura di Ermengarda, la quale, seppure ripudiata, vittima sacrificale della ragion di Stato, prova ancora forte e delicata passione per Carlo. Allo stesso modo, Adelchi, il quale, sottomesso alla volontà del padre, combatte, con valore, una guerra ingiusta e senza speranza di vittoria, trovandovi la morte. Chiaro è anche il contributo che Manzoni, con quest’opera, volle dare al risveglio degli italiani del Risorgimento. L’Adelchi, infatti, rappresenta il dramma di tre popoli: il longobardo in fuga, il franco vincitore, a prezzo, però, di grandi sacrifici, e l’italico, da sempre diviso, nell’illusione di poter riacquistare la libertà grazie agli stranieri i quali, invece, lo dominano ferocemente. L’indipendenza, secondo il futuro senatore del Regno d’Italia, sarebbe potuta essere conquistata soltanto se il popolo italiano si fosse unito e disposto a combattere qualunque invasore straniero.

 

 

La notte e i notturni nella letteratura e nella musica

 

 

di Carmela Puntillo

 

 

La notte è uno dei temi più ricorrenti nella letteratura e nella musica: ne hanno subito il fascino sia la prosa che la poesia (che hanno dato parole ai suoi paesaggi interiori), sia le composizioni di musicisti rinomati dall’Ottocento ai giorni nostri. Questi autori hanno descritto gli aspetti, le caratteristiche che le sono proprie ed i sentimenti che essa suscita…

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Rustico Filippi e la poesia comica (da morire dal ridere)

 

di

Riccardo Piroddi

 

 

Rustico Filippi visse a Firenze tra il 1230 e la fine del secolo. Come i compagni poeti, gli stilnovisti, scrisse qualche poesia per celebrare la sua donna. Ebbe, tuttavia, maggiore fama di diffamatore del gentil sesso, sempre con intenti comici, però. Quando prendeva di mira qualcuno e gli dedicava i suoi versi, chi li ascoltava andava per terra dal ridere, dimenandosi come un indemoniato, tranne, ovviamente, gli interessati.carta_della_catena_showing_pa__br_hi Si diceva che durante i consigli comunali, a Firenze, l’opposizione inserisse qualche suo verso nell’ordine del giorno, in modo che i consiglieri di maggioranza abbandonassero la sala consiliare per andare a ridere nei corridoi attigui e, mancando il numero legale, non si approvassero i provvedimenti sgraditi alla minoranza. Per i vicoli e le strade della città, per il Lungarno o per i sestieri cittadini, ragazze magre e brutte, donne che non si potevano guardare manco a farsi pagare, rutti e scoregge, gente vanagloriosa e ingenua, uomini che pensavano solo a dove poterlo infilare, pernacchie e sberleffi, venivano catturati nelle sue rime. Quando il sonetto era confezionato non ce n’era per nessuno. Sentite un po’ qualche verso:

Ovunque vai, conteco porti il cesso
oi buggeressa vecchia puzzolente,
che quale – unque persona ti sta presso
si tura il naso e fugge inmantenente.

(Ovunque vai, con teco porti il cesso, vv. 1-4)

A confronto con questa vecchia, una discarica abusiva sarebbe un laboratorio per la distillazione di profumi.

Oi dolce mio marito Aldobrandino,
rimanda ormai il farso suo a Pilletto,
ch’egli è tanto cortese fante e fino
che creder non déi ciò che te n’è detto. […]

Nel nostro letto già mai non si spoglia.
Tu non dovéi gridare, anzi tacere:
ch’a me non fece cosa ond’io mi doglia.

(Oi dolce mio marito Aldobrandino, vv. 1-4 e 12-14)

Il buon Aldobrandino farebbe bene a controllare più spesso la bella e giovane mogliettina.

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Ne la stia mi par esser col leone,
quando a Lutier son presso ad un migliaio,
ch’e’ pute più che ‘nfermo uom di pregione
o che nessun carname o che carnaio […]                                       
ed escegli di sopra un tal sudore,
che par veleno ed olio mescolato:
la rogna compie, s’ha mancanza fiore.

(Ne la stia mi par essere col leone, vv. 1-4 e 12-14)

Quasi certamente, a casa di Lutier devono aver staccato l’acqua corrente da qualche mese.

Se tu sia lieto di madonna Tana,
Azzuccio, dimmi s’io vertà ti dico;
e se tu no la veggi ancor puttana,
non ci guardar parente ned amico:
ch’io metto la sentenza in tua man piana,
e di neiente no la contradico,
perch’io son certo la darai certana;
non ne darei de l’altra parte un fico
.

(Se tu sia lieto di madonna Tana, vv. 1-8)

Azzuccio, chiedi alla tua donna che perlomeno si faccia pagare!

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I cittadini “celebrati” nelle sue poesie erano facilmente riconoscibili da chi ne leggeva o ne udiva le “gesta” e si incazzavano così tanto che l’autore, di sicuro, avrà avuto, da questi, più di un “paliatone”. Il realismo poetico di Rustico è straordinario. I suoi sonetti, seppure sub specie della comicità, sono l’effettiva rappresentazione di una società in cui dilagavano corruzione, vizi carnali e scarsissima, se non inesistente, igiene personale.

 

 

 

L’inquieto abbraccio della malinconia

Cesare Pavese, 27 agosto 1950

 

 

 

 

Poeta dei silenzi e delle ombre, si staglia nel panorama letterario italiano come un faro solitario in una notte nebbiosa. La sua esistenza, come una lunga passeggiata su un sentiero di sassi bagnati dalla pioggia, è un intreccio di malinconia e bellezza, un viaggio intimo nei recessi più nascosti dell’anima.
Con la sua figura alta e sottile, Pavese sembra quasi un albero esile piegato dal vento, radicato in una terra fertile ma spesso inospitale, quella delle Langhe piemontesi, che ha visto nascere e crescere i suoi tormenti e le sue speranze. I suoi occhi, due pozzi profondi, raccontano storie di solitudini condivise solo con le pagine ingiallite dei suoi diari, dove ogni parola è un’eco del suo dolore, il sussurro di un cuore che batte in cerca di un senso.
La sua penna, intrisa di inchiostro nero come la notte, ha tracciato percorsi di vite spezzate, di amori mancati e di sogni infranti. Nei suoi romanzi, la campagna piemontese diventa un luogo dell’anima, dove il tempo sembra sospeso, dove il passato e il presente si fondono in un abbraccio fatale. E, in questo paesaggio interiore, Pavese ha cercato risposte alle sue domande più intime e quel conforto che la vita non sempre è stata in grado di offrirgli.
Ma è nei suoi versi che la malinconia si manifesta con tutta la sua forza, un canto sommesso e struggente, come un violino che suona in una stanza vuota. La sua poesia è un riflesso della sua anima inquieta, un continuo ritorno alle origini, alle radici che lo hanno sempre tenuto ancorato a una realtà troppo spesso amara. Non ha mai smesso di cercare il filo conduttore che potesse dare un significato alle sue giornate spese a scrivere, a leggere, a osservare il mondo con quello sguardo che pareva sempre un po’ più distante, un po’ più perso.
E così, Pavese rimane un uomo che ha amato la vita ma che è stato troppo spesso deluso da essa, un poeta che ha saputo dare voce ai suoi silenzi, trasformandoli in parole immortali. Il suo suicidio, in una camera d’albergo a Torino, è l’ultimo atto di una vita vissuta in punta di piedi, sempre sul bordo del precipizio, dove la malinconia si trasforma in una compagna silenziosa, un’amica fedele che lo ha accompagnato fino all’ultimo respiro.
Cesare Pavese ci ha lasciato con un testamento poetico che non smette di risuonare, una melodia dolce e dolorosa che ci ricorda la fragilità dell’esistenza umana e la bellezza struggente che si nasconde nei meandri più oscuri della nostra anima.