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La signora, l’amore e il trovatore

 La lirica provenzale e i trovatori

 

 

 

 

Le donne, sempre un po’ maltrattate dagli uomini durante tutto il corso della storia del mondo, potessero scegliere l’epoca e il luogo in cui vivere, deciderebbero certamente di abitare in Provenza, nella Francia meridionale, tra il XII e il XIII secolo. Proprio lì, infatti, nei castelli e nelle corti, ebbe origine e si sviluppò un genere letterario fondamentale,  imitatissimo in tutte le successive letterature, non soltanto in quella italiana: la poesia cortese. Chi furono, dunque, quegli uomini che restituirono alle donne, e con gli interessi, tutto quanto era stato loro costantemente negato? E quei poeti, che le cantarono come fossero la Madonna, Sant’Anna, Sant’Elisabetta, Marilyn Monroe, Sophia Loren e Greta Garbo messe insieme, che tipi erano? Nella lingua provenzale esisteva un verbo, trobar (mi raccomando, senza la m!) che in italiano si traduce comporre, trovare versi. Da questo verbo derivò la parola trovatore, il protagonista principale di questa inedita e meravigliosa stagione poetica. juglarI trovatori erano uomini di varia estrazione sociale, alcuni nobili o feudatari, altri legati alla vita di corte, altri cavalieri senza proprietà, nemmeno il cavallo, altri ancora giullari di grande cultura. Tutti, comunque, avevano studiato le regole della galanteria, erano educatissimi e conoscevano la poesia e la musica. Nel loro ambiente si diceva che un buon trovatore dovesse essere sempre ben informato sull’attualità regionale e nazionale, meglio del direttore del TG1 o di quello del Corriere della Sera; dovesse essere pettegolo e cianciare su tutto quanto succedesse nelle corti, più di Alfonso Signorini e di Roberto D’Agostino; saper suonare almeno due strumenti musicali, come Edoardo Bennato quando si presenta in Tv suonando, contemporaneamente, la chitarra, l’armonica e, con il piede, il tamburo; ma, principalmente, dovesse essere capace di improvvisare versi, a un signore, per adularlo, e a una gentildonna, per adorarla. Quando le signore e le dame si accorgevano che un trovatore stesse per avvicinarsi, sedevano comode, mettevano il cuore nello zucchero e lo ascoltavano cantare i suoi versi. Era proprio un piacere sentirsi dire cose di questo genere:

“Mia signora, voi siete la mia padrona e io, vostro servitore fedele, mi inginocchio dinanzi a voi. Mia signora, mia meraviglia, non posso più vivere senza mirarvi, occhi miei. Soltanto mirarvi, ché se osassi sfiorarvi (a vostro marito è concesso), il mio amore non sarebbe più puro e perfetto, ma falso. Siamo vicini, mia stella, ma il vostro splendore vi rende lontana, oltre il cielo. Cercherò, con i miei versi, di colmare questa distanza, scala per il paradiso. Rivolgete a me i vostri occhi, mia signora. Parlatemi, dolce soffio. Io rimarrò immobile ad ascoltarvi, anima mia, perché, se soltanto battessi le ciglia, le invidiose malelingue mi calunnierebbero, voi scostereste il vostro sguardo da me, mio sole, e io appassirei come un fiore, fino a marcire e morire!”.

Questi, dunque, erano i temi principali della poesia provenzale: l’esaltazione della donna-signora-padrona; l’amante-vassallo sempre pronto a servirla; L'AMORE CORTESEla sua abbagliante bellezza, che la poneva a una distanza incolmabile, e i tentativi del poeta di ridurla il più possibile con la sua lirica; il culto quasi religioso dell’amore, che ingentilisce e nobilita l’animo del poeta, purificandolo da ogni viltà e rudezza; le sofferenze, i tormenti, ma anche la gioia, generati in lui da questo amore impossibile e mai appagato; la costante minaccia delle parole dei maldicenti, che avrebbero potuto danneggiare l’amante agli occhi della sua signora e, questa, agli occhi del marito. Alcuni trovatori, però, avevano molto meno ossequio e parlavano alle loro amate secondo motivi che, circa 650 anni dopo, sarebbero stati ripresi da quattro loro colleghi che cantavano in napoletano: gli Squallor.

“Bella signorona mia, voi non sapete cosa vi combinerei! Venite qua che vi faccio sentire l’aria di Provenza nella buatta. Poi vi porto a sceppare le more dietro a un cespuglio, alla facciaccia di quel pecorone di vostro marito che sta a casa ad allisciarsi le corna. Se solo vi metto un dito addosso, altro che distanza, non mi stacco più, come fa il purpo quando si azzecca allo scoglio”, e così via…

I diversi toni con cui i trovatori si rivolgevano alle donne erano dovuti ai vari modi di trobar (sempre senza la m!): il trobar rich (ricco), tutto preziosismi e virtuosismi, fiori e uccellini, cinguettii e melodie, capelli d’angelo e porporina dorata; il trobar clus (chiuso), oscuro ed ermetico, quasi come la combinazione di una cassaforte, conosciuta soltanto da chi l’aveva scritta, e, infine, il trobar leu (facile), vivace e spigliato, chiaro da leggere e recitare e, poiché destinato alle donne un po’ leu, il più fruttuoso. Nonostante l’amore irraggiungibile, infatti, di tanto in tanto, qualche contentino si riusciva ad averlo! 1413475223_10648532_10202693807654584_309076384955801870_oNumerosi erano, poi, i tipi di componimenti, con i quali i trovatori cercavano di guadagnarsi la “guardata” dalla signora: la canzone, il più usato; l’alba, per descrivere brevemente il risveglio dei due amanti; la serenata, di notte, sotto al balcone della dama, mentre questa si estasiava e il poeta, dal piano terra, ci dava dentro a cantare e suonare; la ballata, destinata, appunto, a essere ballata (dovevano saper fare di tutto!); il gioco delle parti e la tenzone, con i quali i trovatori litigavano tra loro su questioni d’amore; il pianto, per i funerali e le circostanze tristi in genere (l’amore è anche dolore!).

Alcuni trovatori famosi

Guglielmo IX, duca d’Aquitania, fu il primo trovatore del quale è stata conservata l’opera. Amante della bella vita, partecipò alla Prima Crociata, dove fece figure, per così dire, marroni. Fu più volte scomunicato dalla Chiesa perché, per gli standard del tempo, si divertiva troppo. BER7Scrisse componimenti chiamati versi, molto sensuali e goderecci.
Bernard de Ventadorn (foto a sinistra), casanova ante litteram, esaltò la sua passione per molte donne, tra cui, la più nota, fu Eleonora d’Aquitania, sua protettrice e madre di Riccardo Cuor di Leone, re d’Inghilterra. Cacciato costantemente dai castelli, da mariti gelosi e feriti nell’onore, compose canzoni colme di notizie sulla sua vita e sui suoi guai, esprimendo, con linguaggio semplice, passioni molto intense. Era uno che andava al sodo!
Bertrand de Born, signore di un piccolo feudo in Dordogna, condottiero avido e senza troppi scrupoli, combatté contro suo fratello e contro diversi re dell’epoca. Finì i suoi giorni in convento, come un povero sconsolato. Scrisse soprattutto sirventesi, sulle virtù cavalleresche e sulle gesta d’armi. Dante lo avrebbe incontrato all’Inferno, nel Canto XXVIII, tra i seminatori di discordia. Vagava, anima perduta, reggendo la sua testa in mano, come una lanterna.
Arnaut Daniel fu uno di quei trovatori che ideavano combinazioni per casseforti. Redasse canzoni per sperimentarne forme metriche e linguistiche, piùttosto che lodare la sua donna. Un tecnico, insomma!
Raimbaut de Vaqueiras, primo tra i trovatori di una certa fama a soggiornare in Italia settentrionale, presso diversi signori locali, mostrò molta curiosità per le parlate italiane, tanto da inserirle in alcune sue poesie. In un contrasto, Donna, tant vos ai preiada (Donna, tanto vi ho pregata) lui parla in provenzale e la sua donna risponde in dialetto genovese.

Questa stupenda epoca di poeti e dame, di amore e devozione, di canto e passione, finì bruscamente quando papa Innocenzo III promise tutta la ricchezza della Linguadoca e della Provenza all’esercito che fosse riuscito a sottometterne i principi e ad annientare i catari e la loro eresia. Era il 1209. Fu un anno terribile, che pose fine alla cultura provenzale, alla sua poesia e alla sua cortesia. Di lì a poco, i decreti della Santa Inquisizione avrebbero proibito di cantare, e, persino, di parlarne, le canzoni dei trovatori.

 

 

La corte, la dama e il narratore

Il romanzo cortese e Chretien di Troyes

 

 

 

 

L’epica e le canzoni di gesta, che propagandavano rigidi esempi di condotta morale da seguire (per saperne di più: “Dio, il re e il cavaliere. L’epica e le chansons de geste”), lasciarono presto il posto, nelle preferenze degli ascoltatori e dei lettori medievali, al romanzo cortese. Questa inedita e più stuzzicante forma letteraria fu ispirata da nuovi ideali, un po’ più concreti e che, soprattutto, badavano al sodo: la cortesia, le buone maniere, la gentilezza, l’amore e, novità delle novità, la possibilità di invitare una donzella a fare una cavalcata al chiaro di luna, con auspicata, e spesso annessa, sosta dietro a un cespuglio. il-romanzo-corteseAl diavolo la fede, i santi, i martiri, gli eroi che parevano statue in una chiesa. Via la perfezione e la bontà assoluta dell’epica, insomma, e giù con la passione, con le belle dame, con il piacere dei sensi, con la frenesia di acquattarsi in compagnia di una damigella nel primo recesso disponibile, con le tresche e con i tradimenti. Ma non solo. Rispetto e deferenza, quasi sacrali, erano tributati alle donne, che diventarono, addirittura, vere e proprie padrone dei loro amanti, avendo, con le parole, devozione mai letta prima che, invece, nella vita quotidiana dell’epoca, continuava a non esistere affatto. Esse, almeno tra le pagine di questi romanzi, poterono uscire dalle stanze domestiche, dove erano confinate, e cominciare ad assaporare i piaceri della vita e dell’amore. I loro mariti, sempre sordi ai bisogni delle consorti, fossero re o dignitari, signori o poveracci, divennero cornuti, per colpa del galante damerino di turno. Perfino i cavalieri mutarono i loro comportamenti e le loro azioni. Seducenti e affascinanti, aitanti e impavidi, si rendevano protagonisti di strabilianti avventure e rischiosissime imprese, in lande magiche e fantastiche, spesso compiute per amore della dama che ne attendeva, trepidante di passione, il ritorno, o come pegno d’amore, o, ancora, per espiare peccatucci carnali, commessi tra le lenzuola di qualche aristocratica alcova.6385414 Differentemente dagli eroi dell’epica, essi avevano la concreta possibilità di decidere del proprio destino. Erano molto più “uomini”, con tutte le loro debolezze e, soprattutto, con la necessità di redimersi, che santi. Esempi, insomma, non proprio da imitare. Si cominciò con quei romanzi i cui contenuti erano tratti da storie vere o inventate, già conosciute nel mondo antico: il Roman d’Eneas, che scopiazzava l’Eneide di Virgilio; il Roman de Thèbes che somigliava troppo alla Tebaide di Stazio; il Roman de Troie, sulla famosa città del cavallo, e il Roman d’Alexandre, l’Alessandro di Macedonia. I più bei romanzi cortesi, tutti in lingua d’oil e, almeno fino al XIII secolo, in versi, non in prosa, furono composti alla corte di Maria di Champagne, nella Francia settentrionale, dove si gozzovigliava e beveva tutto il giorno, essendovi a disposizione, gratis, quel ben di dio con le bollicine (questa è una mia licenza letteraria. Lo Champagne, infatti, è stato “inventato” dall’abate benedettino Dom Pierre Pérignon intorno al 1680 e ha preso il nome dalla regione francese nella quale fu prodotto per la prima volta). poesia_cortese_comunale_nel_testo_04Questi favoleggiavano di re Artù, di Ginevra e Lancillotto, di Mago Merlino e Fata Morgana, di Tristano e Isotta, di Parsifal e di Ivano. Il romanzo, uno dei principali generi della narrativa in prosa, deriva il suo nome da romanz, adattamento, in francese antico, dell’avverbio latino romanice, che significa, alla romana. Sono più chiaro. Quei primi romanzi erano scritti in oitano, lingua derivante dal latino (la lingua romana). Analizziamo i titoli che ho elencato qualche rigo fa. Questi, in origine, sarebbero suonati pressappoco così: Eneas romanz, Enea alla romana (nella lingua romana) → Romanzo di Enea), Thèbes romanz, Tebe alla romana (nella lingua romana) → Romanzo di Tebe; Troie romanz, Troia alla romana – non è una specialità erotica capitolina! – (nella lingua romana) → Romanzo di Troia) e Alexandre romanz, Alessandro alla romana (in lingua romana) → Romanzo di Alessandro. La denominazione cortese, invece, trae origine dal fatto che questi romanzi erano scritti, letti e recitati a corte, erano romanzi di corte, proprio come quella della contessa Maria. Il significato moderno dell’aggettivo cortese consegue, piuttosto, dalla definizione d’insieme delle virtù positive dei protagonisti di questi romanzi. Una persona cortese, infatti, oggi, mostra i medesimi modi e comportamenti di molti dei quei famosi personaggi letterari.

Chretien di Troyes

Il più bravo romanziere che tutto il Medioevo ricordi fu Chretien di Troyes. Ospite graditissimo di Maria, istallatosi, in pianta stabile, alla corte di Champagne, scrisse diversi romanzi, che dilettarono la padrona di casa, anzi, di castello, le sue dame, le cortigiane, le cameriere e perfino le sguattere. Pare che queste, proverbialmente curiose, di nascosto, origliassero dietro la porta della sua stanza, mentre lui rileggeva le sue composizioni ad alta voce. Dilettiamoci un po’ anche noi, allora.

Chrétien_de_TroyesChretien de Troyes

Lancillotto o il cavaliere della carretta

Il perfido principe Malagant aveva rapito la regina Ginevra e alcuni abitanti del regno di re Artù. Per liberarli, un cavaliere si sarebbe dovuto battere con lui e vincere. Galvano e Lancillotto partirono immediatamente alla ricerca di Malagant, ma per strade diverse. Il primo, attraversò il terribile Ponte Sommerso e, per poco, non annegava. Lancillotto, invece, sulla sua carretta, varcò il pericoloso Ponte della Spada. IMG212Giunto nel palazzo dove Malagant teneva prigioniera Ginevra, per prima cosa, alla faccia di Artù e dei valori cortesi, approfittò della situazione con la compiacenza della regina. I gemiti della donna, però, lo fecero scoprire, catturare e rinchiudere in una torre. Per fortuna, una dama, invaghitasi di lui, lo liberò. Lancillotto poté affrontare Malagant, lo uccise e, molto allegramente, riprese così, insieme con Ginevra, a far crescere le comodità in testa ad Artù. Maria di Champagne in persona incoraggiò questo tradimento letterario, non riscontrato nelle versioni precedenti della storia di questo celeberrimo cavaliere. L’Autore, infatti, fu costretto a “mantenere la candela” a Lancillotto e Ginevra, proprio per compiacere la malizia della sua protettrice.

Cliges

L’imperatore di Costantinopoli aveva due figli: Alis e Alessandro. Quest’ultimo, più ambizioso del fratello, lasciò la sua terra per l’Inghilterra. Desiderava diventare cavaliere alla corte di re Artù. A Camelot si innamorò di Soredamor, damigella della regina Ginevra. I due, presto, si sposarono e, avuto un bimbo, Cliges, tornarono a Costantinopoli. Morti Alessandro e Soredamor, il giovane figlio servì lo zio, 9788420606194nuovo imperatore, e sua moglie, Fenice, una donna tutta sale, pepe e peperoncino. Non passò molto tempo che la sovrana si invaghì, ricambiata, del nipote. Grazie a un filtro magico, fatto bere al marito, che cadeva addormentato, credendo, invece, di stare sveglio a sollazzarsi con la bella consorte, questa se la spassava, tutte le notti appassionatamente, col suo amante, fino al giorno in cui i due spasimanti organizzarono una fuga d’amore. Qualcosa, sfortunatamente, non funzionò a dovere perché un servo scoprì tutto. Alis si precipitò all’inseguimento e, misero, morì durante la corsa (cornuto e mazziato!). Cliges e Fenice tornarono, così, a Costantinopoli, dove regnarono e si amarono felici e contenti. Da allora, però, gli imperatori che succedettero presero l’abitudine di controllare le proprie mogli, per non fare la fine di Alis, forse non mazziati, ma, certamente, cornuti.

Ivano o il cavaliere del leone

Ivano, per vendicare il torto subìto da un amico, aveva ucciso il signore di un feudo. La moglie del defunto, per il dispiacere, stava per togliersi la vita sennonché, una sua dama le consigliò di sposare proprio Ivano, ignorando che fosse stato lui ad ammazzarle il marito. YVainIl matrimonio fu presto celebrato, con un’unica clausola: il novello sposo non le sarebbe dovuto stare lontano dalla consorte per più di un anno. Appena terminato il banchetto di nozze, il compagno Galvano portò Ivano via con sé, in giro per giostre e tornei. Trascorse un anno e qualcosa di più. Durante uno di quei viaggi, il valoroso cavaliere salvò salvato la vita a un leone e, per mostrare la sua forza e il suo coraggio, se lo portava dietro, al guinzaglio, spaventando chiunque incontrasse. Tornato finalmente a casa, fu accusato di tradimento dalla moglie. Si inginocchiò e la implorò di perdonarlo. La donna, fatti due conti, lo riaccolse a braccia aperte. Sarebbe stato meglio, per lei, infatti, non perdere anche il secondo marito!

Parsifal o il racconto del Graal

Se questo romanzo fosse stato pubblicato in questi anni, in libreria, lo avremmo trovato sullo scaffale accanto al Codice Da Vinci e a tutti gli altri libri nei quali compare un oggetto misterioso, dal nome rimbombante: il Santo Graal. Nell’opera di Chretien, il Graal sembra essere una coppa o, comunque, un contenitore, non certo la progenie di Gesù Cristo, come ha forse esagerato Dan Brown. Parsifal, chiamato anche Parceval, era un giovanotto di buonissima famiglia. Perceval-ChretienLa madre, per evitargli la medesima sorte occorsa al padre e al fratello, morti in battaglia, lo aveva nascosto, fin da bambino, nella Guasta Foresta. Tra folti alberi e animali feroci, crebbe sì coraggioso, ma anche rozzo, ignorante e senza alcuna cortesia. Un giorno, un manipolo di cavalieri attraversò la foresta. Parsifal, che aveva sempre desiderato essere come loro, non si fece pregare troppo e li seguì, abbandonando sua madre. La povera donna morì di crepacuore. Non appena investito cavaliere alla corte di Artù, lasciò Camelot per il suo viaggio iniziatico, raggiungendo, dopo tante peripezie, il Castello del Graal. Qui viveva il Re Pescatore il quale, zoppo, trascorreva le sue giornate seduto, a pescare. Proprio in quel magico castello assistette a una strana processione, dove vide, per la prima volta, la famosa coppa, tutta d’oro lucentissimo e pietre preziose. Ma era stato soltanto un sogno, forse premonitore. Il giovane cavaliere, allora, partì immediatamente alla ricerca del sacro calice. Riuscì a trovarlo? Non lo sapremo mai. Chretien, purtroppo, morì prima di poter romanzare la risposta in versi a questa nostra domanda. 

 

 

 

 

Dio, il re e il cavaliere

L’epica medievale e le chansons de geste

 

di

Riccardo Piroddi

 

 

Mentre la Letteratura Italiana sonnecchiava ancora a letto, raggomitolata tra le coperte, quelle nelle altre due lingue più simili all’italiano, la francese e la spagnola, si erano già alzate, lavate, vestite e stavano facendo colazione con pane, burro, marmellata e un cappuccino bollente. I francesi e gli spagnoli, a partire dall’XI secolo, cominciarono a produrre opere letterarie di altissimo livello: in Spagna e Francia settentrionale, le cosiddette Chansons de geste (canzoni di gesta) e i romanzi cortesi; in Francia meridionale, invece, la splendida poesia, soprattutto amorosa, dei trovatori. Non che gli spagnoli e i francesi del nord fossero meno galanti con le donne, che gli piacesse di più fare la guerra o che portassero i pantaloni più lunghi dei provenzali, ma, condizioni storiche e linguistiche diverse tra queste regioni, causarono lo sviluppo di generi letterari diversi. carlomagnoNella Francia settentrionale, fin dal V secolo, c’erano stati i Franchi la cui presenza aveva prodotto effetti anche sul francese antico. A Sud, al contrario, le popolazioni locali avevano interagito poco con gli invasori e con la loro lingua. Accadde, quindi, che, col tempo, si formassero due lingue, sempre francesi, ma un po’ diverse tra loro: la lingua d’oil, o oitano, a nord, e la lingua d’oc, o occitano, a sud. Queste erano chiamate lingue del sì perché, se un cavaliere avesse chiesto a una principessa di Parigi di uscire con lui, lei gli avrebbe risposto oil, cioè sì. Se a chiederlo fosse stato un cavaliere di Montpellier alla dama vicina di castello, questa gli avrebbe risposto oc, cioè, sempre sì. Se glielo avessi chiesto io, tutt’e due mi avrebbero risposto no e basta, e, siccome non so come si dice “no e basta” in oitano e in occitano, lasciamo perdere e andiamo avanti. Per quanto riguarda la penisola Iberica, gli arabi che vi erano giunti agli inizi dell’VIII secolo, non avevano creati troppi stravolgimenti alla lingua degli abitanti di quelle terre, se non l’introduzione di parole nuove e qualche cambio di accento nella pronuncia di quelle in uso. Roba da poco, quindi.Song-of-Roland-778

Le chansons de geste, scritte in lingua d’oil in Francia settentrionale, erano poemi epici in versi, detti canzoni perché i giullari (che non erano soltanto rozzi comici, saltimbanchi o clown, come spesso sono raffigurati, ma dei veri e propri lettori Mp3 umani, istruiti e colti), girovagando per le piazze delle città e per i castelli, narravano, cantando, spesso accompagnati da un’orchestrina, viella, lira, flauto, tamburelli e campane, storie che impressionavano e appassionavano molto nobili e popolani. Dalla viva voce di un giullare si potevano ascoltare le avventure e le gesta di re, paladini, cavalieri e uomini coraggiosissimi; pericoli, disastri, fortune e sfortune; fughe, tradimenti e morti ammazzati; teste che saltavano dai colli e fiotti di sangue che schizzavano da tutte le parti; guerre e battaglie, combattute in casa e in trasferta, contro infedeli, feudatari rivali e nemici di ogni genere. Quando, poi, quegli stessi giullari, o i monaci, oppure altri volenterosi, cominciarono a mettere quei racconti cantati per iscritto, ordinandoli per argomenti (i cosiddetti cicli carolingio e bretone o arturiano) e personaggi, furono così gentili da permetterci, ancora oggi, di poterli leggere.

La Chanson de Roland 

Il poema epico più famoso di tutti, la cui materia sarebbe stata ripresa anche in Italia da Matteo Maria Boiardo e da Ludovico Ariosto, è la Chanson de Roland. Questa canzone, appartenente al ciclo carolingio, fu composta, intorno al 1100, da un certo Turoldo. Conosciamo il suo nome perché, all’ultima pagina, lui stesso mise la firma, concludendo così: “La gesta scritta qui da Turoldo ha fine”. L’autore prese spunto da un fatto realmente accaduto: la battaglia di Roncisvalle, combattuta il 15 agosto del 778. Mort_de_RolandLa retroguardia dell’esercito di Carlo Magno, comandata dal paladino Rolando, fu attaccata e annientata dai baschi, alleati dei saraceni. Turoldo amplia questo episodio, raccontando una lunghissima storia. Re Carlo combatteva vittoriosamente i mori in Spagna. Soltanto la città di Saragozza gli resisteva e non gli si voleva arrendere in nessun modo. Il re saraceno Marsilio mandò i suoi ambasciatori da Carlo, giurandogli di volersi convertire al Cristianesimo e di diventare suo vassallo. Era solo un inganno. Rolando, più furbo di tutti, capì il trucco e suggerì al suo sovrano di ignorare le proposte del nemico, continuando, piuttosto, a combatterlo, fino alla presa definitiva di Saragozza. L’infame conte Gano, tanto invidioso di Rolando da non vedere l’ora di farlo fuori, si oppose e, con lui, la maggior parte del Consiglio di guerra. Su proposta di Rolando, quindi, proprio Gano fu inviato al campo dei mori per trattare, con il loro re, le pesantissime condizioni di resa imposte da Carlo. Mentre vi si dirigeva, pensò di tradire il suo re e, in un colpo solo, di eliminare anche Rolando. Il perfido conte propose a Marsilio di far finta di accettare quanto ordinato dal re cristiano. Così fu fatto. Carlo Magno e il suo esercito abbandonarono la città, lasciandosi alle spalle la sola retroguardia, capitanata da Rolando, con i Dodici Pari e 20.000 soldati. Quando il grosso delle truppe aveva già oltrepassato la gola di Roncisvalle, Marsilio tese l’agguato al valoroso paladino e ai suoi uomini. Rolando, nonostante la malaparata, si rifiutò di suonare l’olifante, il corno il cui suono avrebbe richiamato Carlo e il resto dell’esercito. Fece, pertanto, la fine del topo in trappola, morendo con le mani giunte sul petto, come un buon cristiano. Il re franco, comunque, tornò indietro in tempo per sbaragliare i mori, disperderli e inseguirli fino a che tutti si gettassero nel fiume Ebro, annegando. Tornato ad Aquisgrana, processò il lurido Gano, ordinando che fosse legato a quattro cavalli, due alle gambe e due alle braccia. Il traditore fu squartato. Rolando era stato vendicato. Molto tempo dopo, quando Carlo aveva più di duecento anni, una notte gli apparve in sogno l’Arcangelo Gabriele. chanson-roland-roncevauxQuesti gli annunziò l’immediata partenza per Infa, dove avrebbe dovuto aiutare il re Viviano a combattere altri mori. Così finì la storia. Turoldo, come è chiaro, aggiunse molti elementi fantasiosi alla realtà dei fatti. Questo perché egli doveva, non soltanto intrattenere chi lo ascoltasse, ma, soprattutto, mostrare loro esempi retti da seguire.  Gli eroi di queste canzoni di gesta erano un po’ come i personaggi della televisione di oggi: tutti volevano e, soprattutto, dovevano essere come loro. Le canzoni di gesta erano caratterizzate dalla presenza e dalla messa in onda di precisi valori: la lealtà verso il sovrano, la fede in Cristo, il senso dell’onore e l’eroismo in battaglia. Tutto racchiuso in un ineluttabile destino, scritto da sempre, che non lasciava ai protagonisti alcuna possibilità di azione personale: o erano e agivano in quel modo, oppure, avrebbero dovuto fare i bagagli e trasferirsi in qualche altro tipo di opera. O mangi ‘sta minestra, o ti butti dalla finestra, in sostanza! In un’epoca dominata esclusivamente dal Cristianesimo e dalla sua morale, questi erano i messaggi pubblicitari che le emittenti cartacee diffondevano via manoscritto: i re dovevano sembrare più o meno come Gesù; i paladini, sempre dodici, gli apostoli; non mancava mai il Giuda di turno; i morti in battaglia erano tutti martiri e quelli più importanti, santi; ogni combattimento diventava una vera e propria guerra santa; pentimenti finali e conversioni al Cristianesimo, l’epilogo necessario. Era come leggere il Vangelo e gli Atti degli Apostoli con i nomi dei protagonisti sostituiti. Altri poemi del ciclo carolingio sono la Chanson de Guillaume, dedicata alla saga di Guglielmo d’Orange e della sua famiglia, a salire e a scendere, cioè, prima e dopo di lui; il Renaut de Montauban; il Girart de Roussillon e il Pelérinage Charlemagne. Un posto particolare occupano le canzoni di Crociata, nelle si esaltavano le gesta dei cavalieri occidentali nelle guerre per liberare il Santo Sepolcro, a Gerusalemme: la Chanson d’Antioche e Le Chevalier au cygne (il Cavaliere del cigno), quel Goffredo di Buglione, comandante dell’esercito cristiano nella Prima Crociata. Di tutte queste, però, non vi racconto le trame altrimenti, se state leggendo di pomeriggio, fate notte, se, invece, è già sera, fate mattina.

Il Cantar de mio Cid

Giusto per rimanere nell’epica, c’è un altro poema, non in Francia, ma in Spagna, di cui vi voglio parlare: il Cantar de mio Cid. Vi sono narrate le imprese eroiche di Roderigo Diaz de Bivar, altrimenti detto El Cid Campeador, vissuto tra il 1043 e il 1099. La storia, o meglio, la canzone, prende avvio quando Roderigo fu accusato di aver sgraffignato una parte dei tributi che il re dei mori di Andalusia doveva ad Alfonso VI di León. Per questo, fu mandato in esilio. Lasciò la moglie Jimena e le figlie nel monastero di Cardeña, per paura che qualcuno potesse insidiarle, e, alla testa di molti altri cavalieri, si mise a far la guerra ai mori. Conquistò Valencia e cacciò il re di Siviglia, ottenendo, alla fine, il perdono del re. Per dimostrargli ulteriore gratitudine, il sovrano benedisse il matrimonio delle sue due figlie, Elvira e Sol, con i conti di Carrión.22 Questi due perdigiorno, però, ogniqualvolta c’era da andare a combattere se la prendevano con le mogli, frustandole e, poi, squagliandosela. Il Cid, stanco delle angherie subite dalle figlie, chiese giustizia a re Alfonso che inviò i suoi soldati ad ammazzare quei due mariti violenti. Le giovani si risposarono, una col figlio del re di Navarra, l’altra con quello del re d’Aragona, Tutti furono invitati ai due matrimoni e il povero Cid Campeador, eroe di tante battaglie, dovette chiedere un prestito in banca per pagare le ingentissime spese, perché, allora, le spese del banchetto nuziale e dei musici erano a carico del padre della sposa. Anche questo poema, tra i primissimi documenti della letteratura spagnola, celebrava quei valori comuni a tutta l’epica: la fede in Dio, la devozione al proprio re, la lotta agli infedeli, l’onore e l’eroismo. Due piccoli tip linguistici sull’appellativo di Roderigo Diaz: Cid deriva dalla parola araba sayyd, che vuol dire signore; Campeador, invece, è di provenienza latina, da campi doctor, maestro, o anche campione, sul campo di battaglia. Esempi di parole arabe e latine entrate in uso, ovviamente adattandosi, nella lingua spagnola, così come, casi lessicologici analoghi, sono presenti in tutte le lingue dei territori dominati, fino a qualche secolo prima, dall’aquila di Roma.

 

 

E le stelle restarono a guardare?

 

 

La letteratura in latino dall’età tardo-antica all’alto Medioevo

 

 

Mi è capitato, non ricordo dove e nemmeno chi sia stato l’ideatore di questa bellissima metafora, di aver letto che il Medioevo è stato sì una notte, ma piena di stelle. In effetti, dalla caduta dell’Impero Romano fino almeno agli inizi dell’XI secolo, l’Europa non conobbe un periodo felice. Sembrava come se gli abitanti del mondo allora conosciuto, con le loro paure, i loro affanni quotidiani, la loro fame e sete, le loro malattie e i loro pochissimi momenti di gioia, fossero quasi scomparsi, per riapparire dopo circa quattrocento anni. Ma, allora, cosa accadde, almeno in campo culturale, tra il VI ed il X secolo dell’era Cristiana? E chi furono le stelle che, seppure debolmente, illuminarono quella notte? 330px-GiorcesBardo42Modifichiamo giusto un pochino la metafora, rimanendo, però, sempre nell’ambito della luce, e diciamo che il mondo romano portò in dote al Medioevo degli ottimi oli per caricare lampade e rischiarare la notte. Al primo posto di questa particolare classifica si piazzò Publio Virgilio Marone (immagine a sinistra). L’autore dell’Eneide, delle Bucoliche e delle  Georgiche fu considerato grandissimo poeta, immagine di civiltà, maestro di stile e, soprattutto, profeta del Cristianesimo perché, nell’Ecloga IV, predisse la nascita di un puer, un fanciullo che avrebbe annunciato una nuova Età dell’Oro, nascita che fu scambiata per quella di Cristo (la fortuna dei malintesi!). o-OVIDIO-facebookAl secondo posto, Publio Ovidio Nasone, poeta e scrittore, le cui opere  furono  messe  al  bando  dall’imperatore  Augusto  in persona perché giudicate troppo spinte (vorrei fargli leggere i libri di Melissa P. e vedere come reagirebbe questo Augusto!). Ovidio (immagine a destra) scrisse un’Ars Amatoria, nella quale raccontò le raffinate passioni sessuali dei cortigiani di Augusto (non sapeva proprio dove andare a ficcarlo il suo nasone!); le Heroides, ventuno lettere infuocate spedite da eroine della mitologia ai loro amanti, e Le Metamorfosi, opera che trasferì al Medioevo una grande quantità di notizie su dèi, dee, mezzi dèi, mezze dee e poveri cristi. Al terzo posto, a pari merito, Quinto Orazio Flacco, autore di Satire sui più comuni vizi umani: l’ambizione, l’avidità di ricchezza e il desiderio di fare presto carriera, e Marco Anneo Lucano, il narratore della Farsaglia, con cui rese conto della guerra civile tra Cesare e Pompeo, schiettamente, in modo fedele alla storia, senza favolette e trucchetti degli dèi, da qualche altro autore fatti scendere dall’Olimpo, sulla Terra, per farsi gli affari degli uomini. Al quarto posto, Publio Papinio Stazio, che in 12 anni di lavoro scrisse i 12 libri della Tebaide, uno all’anno, illustrando la guerra tra Eteocle e Polinice, mitici figli di Edipo e Gioacasta, e re di Tebe ad intervalli di un anno ciascuno. ciceroneE infine, last but not least, come dicono gli inglesi, Publio Terenzio Afro, autore di commedie, tanto per ridere un po’. Piazzamenti d’onore spettarono, poi, a Marco Tullio Cicerone (immagine a sinistra), maestro insuperabile di retorica, di stile e di cazziatoni etici e morali a destra e a sinistra, e a Lucio Anneo  Seneca,  precettore  e  consigliere  di  Nerone  (con scarsissimi risultati, se si tengono a mente i macelli che combinò, poi, l’imperatore), autore di opere filosofiche, scientifiche e di tragedie teatrali, il cui pensiero fu considerato integralmente cristiano perché qualcuno mise in giro la voce che si scambiasse lettere addirittura con San Paolo. Ammazza! E, a proposito di santi, non si possono non citare Sant’Agostino, vescovo di Ippona, filosofo, martello degli eretici, padre e dottore della Chiesa, e San Girolamo, anch’gli padre (figlio e spirito santo, amen!) e dottore della Chiesa, scrittore e studioso della Bibbia così bravo che, per la prima volta nella storia, la tradusse tutta quanta in latino.

scriptorium

Sant’Agostino

Aurelio Agostino, in quasi quarant’anni di vita, da quando, cioè, smise di godersela come un balordo, fino a poco prima della morte, sopraggiunta nel 430 dopo Cristo, scrisse opere importantissime per l’avvenire del Cristianesimo e della Chiesa: agostinoLa vita felice (questa, forse, non troppo importante), I soliloqui, L’immortalità dell’anima, Il libero arbitrio, Le Confessioni, La dottrina Cristiana, Contro i Manichei, Contro i Donatisti, Contro Pelagio, La Città di  Dio  e le  Ritrattazioni,  giusto  se,  casomai,  avesse  tralasciato qualcosa o scritto qualche stupidaggine. Cercò di avvicinare la filosofia platonica e neoplatonica al Cristianesimo, si impegnò, in prima persona, con prediche, scritti e pure qualche spiata, contro gli eretici e contro le eresie, che stavano lacerando la Chiesa delle origini. Formulò dottrine universali sul peccato originale, sulla grazia divina, sulla predestinazione e sul libero arbitrio. Anche se in gioventù non fu proprio uno stinco di santo, la Chiesa ce lo fece lo stesso e lo festeggia ogni 28 agosto.

San Girolamo

Sofronio Eusebio Girolamo, al contrario di Gesù Cristo che vi nacque, a Betlemme, dove aveva fondato tre o quattro conventi, ci morì, nel 420. Parlava correntemente latino, greco ed ebraico, lingue che gli furono molto utili quando decise di tradurre la Bibbia in latino, intitolandola, poi, Vulgata, dall’espressione vulgata editio, vale a dire, edizione per il popolo. Fu una grande trovata editoriale che vendette tantissime copie, divenendo, in brevissimo tempo, un best seller per soli ricchi, però. biblia-vulgataUna copia manoscritta della Vulgata, infatti, specialmente se miniata e glossata da qualche commentatore alla moda, almeno fino all’invenzione della stampa, nel XV secolo, costava quasi mezzo feudo. Girolamo aveva un caratteraccio e litigava in continuazione con “chicche e sia”, fossero questi sprovveduti, dotti, santi o peccatori, ma, in fondo in fondo, voleva bene a tutti, soprattutto alla gente comune. Per questo, elaborò una versione del massimo Testo Sacro cristiano facile da capire, usando, non la lingua dei letterati, ma quella di chi non aveva mai aperto un libro. Tradusse l’Antico Testamento dall’ebraico e il Nuovo dal greco, anche se, diciamo la verità, fece un po’ il furbo perché, in alcuni punti, rivide e corresse antiche traduzioni. La Chiesa, comunque, glielo perdonò e decretò di festeggiarlo ogni 9 maggio. Con Agostino e Girolamo può dirsi chiusa la cosiddetta età tardo-antica. Il sole che aveva dato luce al mondo classico tramontò e scese la notte, ma, in cielo, cominciarono a sorgere le prime stelle: Boezio e Cassiodoro.

Boezio

Se c’è stato uno sfigato come pochi, nella storia della cultura occidentale, bene, questi è Boezio. Un uomo che conobbe il successo personale più grande ma anche, e soprattutto, la miseria più nera. Anicio Manlio Severino Boezio nacque a Roma, intorno al 480, da una illustrissima famiglia, la gens Anicia. Sin da subito, la sua vita fu una collezione di guai e disgrazie. Neppure fanciullo, passò il primo guaio: il padre morì e fu affidato a un tutore, Aurelio Simmaco, di cui, poi, sposò la figlia, Rusticana, il secondo guaio, perché era una donna che non stava mai zitta e parlava, parlava, parlava, parlava. Parlava e ancora parlava! Quando il re degli Ostrogoti, Teodorico, conquistò l’Italia e si stabilì, con tutta la corte, a Ravenna, vi chiamò molti nobili di Roma, tra cui Boezio. Lì, fece una carriera brillantissima: fu eletto console e, poi, Magister officiorum, la più alta carica dello Stato. BoethiusCon una buona raccomandazione (le cose, in Italia, funzionavano così già 1500 anni fa!), fece eleggere consoli anche i due figli, Flavio Simmaco e Flavio Boezio. Tutto questo successo, personale e familiare, però, fu anche la sua rovina (il Signore dà e il Signore prende!), perché si tirò addosso l’invidia dei colleghi. In seguito a una soffiata, piena di falsità, infamità e bugie, fu accusato di ordire trame contro Teodorico. Il re ci credette, lo fece rinchiudere in carcere a Pavia e decapitare, dopo che gli furono strappati pure gli occhi. Capito un po’? Nel corso della vita, il nostro sfortunato romano scrisse molte cose. Tuttavia, il progetto a cui si impegnò di più fu la traduzione di tutte le opere di Platone e Aristotele, per dimostrare al mondo che, sotto sotto, i due famosissimi filosofi avevano detto quasi le stesse cose. Purtroppo, però, causa disgrazie, riuscì a tradurre soltanto parte degli scritti di logica di Aristotele e l’Isagoge di Porfirio. E, pure in quest’ultimo caso, la combinò grossa: alcuni passi del trattatello di questo discepolo del filosofo neoplatonico Plotino, infatti, qualche secolo dopo, avrebbero dato origine alla famosissima Disputa sugli universali, nel corso della quale il fior fiore dei filosofi, dei professori e degli uomini di cultura del Basso Medioevo avrebbero litigato a male parole e a librate! L’opera che gli permise di diventare uno degli autori più letti di tutto il Medioevo, e non solo, fu il De consolatione Philosophiae (La consolazione della Filosofia), scritta durante i due anni in galera. Una donna un po’ anziana, la Filosofia, apparve all’autore nella sua fredda cella con le pareti fradice: “Ma, dico io,” rimuginò, “non mi si poteva parare davanti una bella attrice, tipo Sharon Stone?”. L’attempata signora, per consolarlo, perché era proprio giù di morale, gli rammentò che lui non fosse l’unico disgraziato a passare tutti quei guai. Anzi, gli disse: “Uno più è sapiente, più sono sventure e malesorti!”. Il poveretto, allora, le elencò tutti i suoi guai e dolori vari, commuovendola così tanto, da farla scoppiare a piangere. Quando smise, riuscì soltanto a rispondergli: “Mio caro, povero Boezio, la vera felicità non è contenuta nell’avere soldi, potere, dieci cameriere, un garage pieno di macchine fuoriserie e un fusto di birra il cui rubinetto spilla all’infinito! La vera felicità coincide con Dio, verso cui bisogna tendere, se si vuole essere veramente felici!”. “Ma questa ci è venuta o ce l’hanno mandata?”, borbottò, tra i denti, il miserabile. Poi, le chiese: “Scusate, signora. Come mai, allora, le cose buone vanno sempre ai cattivi e agli imbroglioni e le persone perbene come me rimangono con i manici delle scope in mano?”.  “Quelli non sono veri beni”, rispose, “e le disgrazie sono utili per la salvezza della tua anima.” “L’anima tua e della tua consolazione, Filosofì!”, pensò.

Cassiodoro

Una sorte decisamente migliore perché, almeno, morì nel suo letto, toccò a Cassiodoro. Flavio Magno Aurelio Cassiodoro Senatore (finalmente abbiamo finito col nome!) nacque a Squillace, in Calabria, nel 490. Il suo casato, prestigiosissimo e onoratissimo, era imparentato con quello di Boezio. Anche all’epoca, si faceva tutto in famiglia e, alla corte di Teodorico, lo sostituì come Magister officiorum. Cassiodoro fu più furbo del suo parente. Gesta_Theodorici_-_Flavius_Magnus_Aurelius_Cassiodorus_(c_485_-_c_580)Per accattivarsi le simpatie di re Teodorico, gli dedicò l’Historia Gothica (Storia dei Goti), dove ripeté tante volte che il sovrano ostrogoto era il migliore del mondo e che gli Ostrogoti erano i barbari meno barbari di tutti. Ritiratosi dalla vita politica con una buonissima pensione, raccolse tutti i documenti, elaborati durante i suoi uffici a corte, pubblicandoli in un libro, intitolato Variae, a causa dei vari argomenti che conteneva. Scrisse anche le Institutiones divinarum et saecularium litterarum (Istituzioni delle lettere sacre e profane), una dottissima introduzione allo studio delle Sacre Scritture e delle arti liberali, molto letta nei secoli successivi. Fondò pure un monastero, a Vivario, non lontano da casa e, all’età di 92 anni, invece di mettersi definitivamente a riposo, scrisse il trattato De orthographia (L’ortografia) per evitare che i monaci, mentre trascrivevano manoscritti e  codici antichi nello scriptorium del suo convento, copiassero una cosa per un’altra.

Isidoro di Siviglia

Spostiamoci un attimo in Spagna per conoscere un altro grand’uomo di questo periodo: Isidoro di Siviglia. downloadNato verso il 560, proveniva da una famiglia di bravissime persone: i tre fratelli, Leandro, Fulgenzio e Fiorentina, furono tutti beatificati e lui, fu fatto addirittura santo. Si dice anche che egli stesso convertì al Cristianesimo i Visigoti conquistatori della Spagna. Fu vescovo di Siviglia e scrisse opere di storia, di grammatica e anche un’enciclopedia. Nel suo capolavoro, le Etymologiae, in venti libri, riunì tutte le conoscenze del suo tempo, prendendo spunto dall’origine delle parole. A lui, infatti, si deve il motto secondo cui “nomina (e cognomina, aggiungo io) consequentia rerum sunt” (i nomi sono conseguenza delle cose), per cui, chi si chiama Rosa, dev’essere bella come il fiore, chi si chiama Serena, dev’essere calma e tranquilla, chi Orso, un po’ animalesco, chi per cognome ha Bassi, forse non sarà tanto alto, e chi Casini, o è un pasticcione o va con le donne di malaffare.

 

 

 

Il Canto XXVIII del Paradiso

 

di Carmela Puntillo

 

 

LEZIONE DEL CENTRO SCALIGERO DEGLI STUDI DANTESCHI

CANTO XXVIII DEL PARADISO: SPIEGAZIONE E COMMENTO

15/11/2021

 

 

Il canto è di quelli proverbialmente teologici piuttosto sopportati che ammirati dagli specialisti. È generalmente suddiviso in quattro parti: la prima comprende i versi 1-39 con la visione del pellegrino Dante nel Primo Mobile, in particolare dei nove cerchi concentrici di fuoco, dove sono raffigurate le nove schiere angeliche, ruotanti intorno al minuscolo ma luminosissimo punto che rappresenta la Divinità…

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Il Canto XXII del Paradiso

 

di Carmela Puntillo

 

 

LEZIONE DEL CENTRO SCALIGERO DEGLI STUDI DANTESCHI

CANTO XXII DEL PARADISO: SPIEGAZIONE E COMMENTO

27/09/2021

 

 

Il canto si divide in tre parti: nella prima Beatrice rassicura Dante, rimasto stordito dal grido dei Beati, sulla protezione di cui gode in Paradiso, dove regna l’ardore di carità; nella seconda il poeta vede l’anima di San Benedetto che gli parla della sua azione di propugnatore del cristianesimo, gli presenta altre anime del cielo di Saturno e condanna la corruzione del suo ordine; nella terza Dante ascende al Cielo delle Stelle fisse, invoca la costellazione dei Gemelli perché lo ispiri nella descrizione dell’ultima parte del suo viaggio e, vedendo dall’alto la terra ed i sette cieli percorsi, fa delle considerazioni sulla fragilità umana e l’inutilità della ferocia e della violenza che regnano nel mondo…

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Guido Cavalcanti

 

di

Riccardo Piroddi

 

 

 

Guido Guinizzelli è stato il teorico del Dolce Stil Novo, l’altro Guido, come lo chiamò Dante (Purg. XI, v. 97) ne ha rappresentato il maggiore esponente. Fiorentino, nacque più o meno nel 1260, dalla nobile famiglia Cavalcanti, mercanti molto ricchi. Notissime erano, a Firenze, quasi fossero un punto cardinale, le terre e le case dei Cavalcanti, situate non lontane dalla Chiesa di Santa Maria in Campidoglio, nei pressi del Mercato Vecchio. Da giovane, era stato mandato dal padre a studiare la filosofia da Brunetto Latini e proprio lì aveva conosciuto il futuro sommo poeta, divenendone amico fraterno. imageGuelfo bianco convinto, per dare il buon esempio, cercando, in tal modo, di calmare un po’ le tormentatissime acque in città, aveva sposato Bice degli Uberti, figlia del famoso Farinata, il segretario comunale del PGF, Partito Ghibellino Fiorentino. Tutto questo, comunque, era servito a poco o niente. La tensione, a Firenze, era sempre altissima, tanto che quando non si riuscivano ad eliminare gli avversati in casa, si mandavano i sicari a raggiungerli in trasferta. Durante un pellegrinaggio al santuario di Santiago di Compostela, infatti, nei pressi di Tolosa, Guido prese una coltellata alla schiena, inflittagli da un assassino mandato da Corso Donati, il capo dei guelfi neri. Si salvò per miracolo! Incurante dei numerosi pericoli e della sua incolumità fisica, si fece eleggere al Consiglio Generale. Solo pochi anni dopo, però, ne fu escluso, quando Giano della Bella, un aristocratico passato a sinistra, fece approvare la riforma degli “Ordinamenti di Giustizia”, vietando, ai nobili non iscritti ai sindacati, l’accesso alle cariche pubbliche. Il 24 giugno del 1300, dopo aver preso parte ad una mega rissa in cui guelfi bianchi e neri se le erano suonate di santissima ragione, fino a quando non erano rimaste in piedi che due-tre persone, essendo lui un capo fazione, fu punito con l’esilio a Sarzana, oggi ridente centro in provincia di La Spezia, ma, nel XIII secolo, zona paludosa e insalubre. Fu proprio l’amico Dante, divenuto, nel frattempo, Priore, a firmare, con le lacrime agli occhi, la sua condanna. In poche settimane, a causa dei miasmi mortiferi esalati dagli acquitrini sarzanesi, Guido contrasse la malaria. Tornò a Firenze giusto in tempo per morire, nelle case dei Cavalcanti, il 29 agosto. Fiero nel carattere e altero nell’aspetto, è il più “tragico” dei poeti stilnovisti. L’amore, spesso, gli provocava sbigottimento, lasciandolo dubbioso, destrutto e desfatto:

L’anima mia vilment’è sbigotita
de la battaglia ch’ell’ave dal core
che s’ella sente pur un poco Amore:
più presso a lui che non sòle, ella more.

(L’anima mia vilment’è sbigotita, vv. 1-4)

Forte e nova mia disaventura
m’ha desfatto nel core
ogni dolce penser, ch’i’ avea, d’amore.

(Forte e nova mia disavventura, vv. 1-3)

Allo steso modo, la sua donna pare non essere così celeste e luminosa come quelle esaltate dagli altri poeti, tanto che il suo valore è difficilmente conoscibile dall’uomo. Se Guido fosse stato un trovatore avrebbe accompagnato le sue canzoni con una musica malinconica e angosciosa:

Se Mercé fosse amica a’ miei desiri,
e l’movimento suo fosse dal core
di questa bella donna e’l su’ valore
mostrasse la vertute a’ mie’ martiri.

(Se Mercé fosse amica a’ miei disiri, vv. 1-4)

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La canzone Donna me prega, per ch’eo voglio dire, i cui versi sono di difficile comprensione perché volutamente astrusi, è lo specimen della sua poesia. In essa, filosofia, metafisica, psicologia, tristezza, guai, lamenti e spiriti,  introdotti nella sua lirica per spiegare il funzionamento dei sensi e dei sentimenti dell’uomo, mostrano la donna non come una guida che renda l’anima perfetta, quanto come creatura la cui bellezza costringa a meditare, ad almanaccare, a scervellarsi, ad elucubrare e a rimuginarvi. Però, rimuginandovi troppo a lungo, il povero Guido correva il rischio di andare fuori di testa.

Donna me prega, – per ch’eo voglio dire
d’un accidente – che sovente – è fero
ed è sì altero – ch’è chiamato amore:
sì chi lo nega – possa ’l ver sentire!
Ed a presente – conoscente – chero,
perch’io no spero – ch’om di basso core
a tal ragione porti canoscenza:
ché senza – natural dimostramento
non ho talento – di voler provare
là dove posa, e chi lo fa creare,
e qual sia sua vertute e sua potenza,
l’essenza – poi e ciascun suo movimento,
e ’l piacimento – che ’l fa dire amare,
e s’omo per veder lo pò mostrare.

(Donna me prega, – per ch’eo voglio dire, vv. 1-14)

Tra le sue composizioni più famose, infine, è la ballata Perch’i’non spero di tornar giammai. Il poeta, fuori dalla Toscana, chiese a questa sua ballatetta di raggiungere l’amata per dirle, tra pianti, sospiri e accidenti:

Questa vostra servente
viene per star con vui,
partita da colui
che fu servo d’Amore.

(Perch’i’ non spero di tornar giammai, vv. 33-36)

 

 

L’eco senza tempo di Casella

Un canto dantesco di amicizia e di bellezza

 

 

 

Tra i frammenti d’oro dell’eternità che si riverberano nel mondo dei fenomeni, vive un uomo la cui anima sapeva danzare sulle corde dell’amore e della poesia. Il suo nome era Casella, un musicista virtuoso, un cantore di versi sublimi, un artista la cui voce incantava i cuori e sollevava gli spiriti. Il dolce Casella, così Dante lo ricordava, colui che nelle note trovava il modo di parlare all’anima, colui che aveva il potere di trasformare le parole in melodie celestiali.
Nella Divina Commedia Dante ci dona un incontro struggente con Casella, un momento intriso di affetto e nostalgia. Nel canto II del Purgatorio, Dante, appena giunto sulle spiagge dell’isola del Purgatorio, incontra il suo caro amico. È un incontro tanto atteso, un riconoscimento immediato tra anime affini, tra chi condivideva non solo l’amicizia, ma anche l’amore per la bellezza e la verità.

Io vidi una di lor trarresi avante
per abbracciarmi, con sì grande affetto,
che mosse me a far lo somigliante.

Ohi ombre vane, fuor che ne l’aspetto!
tre volte dietro a lei le mani avvinsi,
e tante mi tornai con esse al petto.

Di maraviglia, credo, mi dipinsi;
per che l’ombra sorrise e si ritrasse,
e io, seguendo lei, oltre mi pinsi.

Soavemente disse ch’io posasse;
allor conobbi chi era, e pregai
che, per parlarmi, un poco s’arrestasse.

Rispuosemi: “Così com’io t’amai
nel mortal corpo, così t’amo sciolta:
però m’arresto; ma tu perché vai?”.

“Casella mio, per tornar altra volta
là dov’io son, fo io questo vïaggio”,
diss’io; “ma a te com’è tanta ora tolta?”.

Ed elli a me: “Nessun m’è fatto oltraggio,
se quei che leva quando e cui li piace,
più volte m’ ha negato esto passaggio;

ché di giusto voler lo suo si face:
veramente da tre mesi elli ha tolto
chi ha voluto intrar, con tutta pace.

Ond’io, ch’era ora a la marina vòlto
dove l’acqua di Tevero s’insala,
benignamente fu’ da lui ricolto.

A quella foce ha elli or dritta l’ala,
però che sempre quivi si ricoglie
qual verso Acheronte non si cala”.

(Purg., II, vv. 76-105)

Casella appare a Dante come un’anima gentile, in attesa di purificazione, eppure già avvolta da un’aura di serenità e dolcezza. Dante, col cuore traboccante di emozione, lo prega di cantare ancora una volta una delle sue melodie, quelle stesse melodie che una volta risuonavano nelle strade di Firenze, portando conforto e gioia. Casella, con la sua voce soave, intona un canto che sembra fatto di pura luce, una melodia che trasforma quel luogo di attesa in un anticipo di paradiso.
La canzone che Casella canta è “Amor che ne la mente mi ragiona”, un inno all’amore e alla bellezza, un’ode che risuona come un eco eterno nei cuori di chi ascolta. In quel momento, le anime che popolano le rive del Purgatorio si fermano, rapite dalla bellezza del canto, dimenticando per un attimo le loro pene e il loro cammino. È un istante di pura armonia, un riflesso dell’amore divino che permea ogni cosa.
L’incontro con Casella non è solo un momento di commozione per Dante, ma anche un simbolo di speranza e di redenzione. Casella, con la sua musica, rappresenta la possibilità di trovare la bellezza e la pace anche nel viaggio dell’anima verso la purificazione. È un richiamo alla potenza dell’arte, alla capacità della musica di elevare lo spirito e di avvicinare l’uomo al divino.
Così, Casella vive ancora nei versi di Dante, come un’ombra luminosa che continua a cantare, portando con sé il profumo di un’amicizia eterna e il dolce suono di una melodia che sfida il tempo e lo spazio. E in ogni nota, in ogni parola cantata, risuona l’eco di un’anima che ha trovato nella musica la strada per l’eternità.

 

 

 

Il gelo del tradimento

Bocca degli Abati nella Commedia di Dante

 

 

 

Nelle pieghe oscure della storia fiorentina, tra intrighi e tradimenti, visse Bocca degli Abati, un uomo il cui nome è marchiato dall’infamia della sua stessa azione. Nato in una nobile famiglia ghibellina, si trovò nel crocevia delle lotte tra guelfi e ghibellini, un periodo in cui la fedeltà era moneta rara e l’opportunismo un’arte raffinata.
Era il 4 settembre del 1260 e le nuvole nere della battaglia di Montaperti si addensavano minacciose sopra le colline toscane. In quella funesta giornata, Bocca compì un atto che avrebbe scolpito il suo nome nella memoria collettiva quale sinonimo di traditore. Durante lo scontro decisivo, quando le sorti della guerra sembravano pendere a favore dei guelfi fiorentini, fu proprio lui a compiere l’atto che avrebbe cambiato il corso degli eventi. Alzò la sua mano, non per difendere, ma per tradire. Con un solo colpo recise quella di Jacopo de’ Pazzi, che teneva alto lo stendardo fiorentino, seminando il caos tra le file dei suoi compatrioti. Fu un atto di perfidia che consegnò la vittoria ai ghibellini senesi e segnò indelebilmente il destino di Firenze.
Dante Alighieri non poté ignorare tale atto di viltà e tradimento. Nella Divina Commedia, Bocca degli Abati trova la sua giusta collocazione nel nono cerchio dell’Inferno, tra i traditori della patria. Nel canto XXXII, immerso nel ghiaccio eterno della Antenora, Bocca è avvolto da un freddo tanto penetrante quanto il disgusto che le sue azioni ispirano. Dante, colmo di indignazione, lo riconosce e lo condanna con parole taglienti come lame di ghiaccio:

Io avea già i capelli in mano avvolti,
e tratti glien’avea più d’una ciocca,
latrando lui con li occhi in giù raccolti,
quando un altro gridò: “Che hai tu, Bocca?
non ti basta sonar con le mascelle,
se tu non latri? qual diavol ti tocca?”.
“Omai”, diss’io, “non vo’ che più favelle,
malvagio traditor; ch’a la tua onta
io porterò di te vere novelle”.

(Inf., XXXII, vv. 103-111)

Bocca, inchiodato nel suo freddo castigo, con la sola testa che viene fuori dalla superficie ghiacciata del lago Cocito, incarna la perenne condanna del traditore, privo di redenzione, immobile nell’eternità del suo peccato.
Bocca degli Abati, nella sua crudele semplicità, diventa simbolo del tradimento più vile, una figura che la storia e la letteratura non possono dimenticare. Il ghiaccio che lo avvolge è metafora del suo cuore gelido, incapace di fedeltà e di onore. Il suo ritratto, immerso nell’eterna condanna dantesca, ci ammonisce sui pericoli della slealtà e ci ricorda che le azioni compiute nella vita terrena riverberano nell’eternità.
E così, attraverso le parole di Dante, Bocca degli Abati diventa monito e memoria, una raffigurazione poetica di tradimento che attraversa i secoli, ricordandoci che l’onore e la fedeltà sono virtù che non possono essere tradite senza conseguenze.

 

 

 

Giacomo delle stelle

1798 – 29 giugno – 2024

 

 

 

Giacomo Leopardi, il melanconico cantore delle stelle, nacque sotto un cielo che pareva già tingersi di tristitia infinita. Figlio di nobiltà decadente, trovò rifugio non nelle pur fastose sale del palazzo di famiglia, ma nelle scure biblioteche, dove i libri divennero i suoi veri compagni. Con il suo volto pallido e gli occhi colmi di antica sapienza, si aggirava tra le ombre del pensiero, cercando di svelare i segreti della vita e dell’universo.
La sua filosofia si è levata come un grido soffocato contro l’indifferenza dell’esistenza. Vedeva la natura non come una madre benevola, ma come una matrigna crudele, sorda ai dolori e alle gioie degli uomini. In questa sua visione disillusa, l’uomo era solo, abbandonato a sé stesso, destinato a scontrarsi con l’inevitabile sofferenza.


Eppure, in mezzo a questo buio sconforto, trovava una sorta di sublime bellezza. Nella consapevolezza della propria fragilità, Leopardi vedeva l’essenza stessa dell’essere umano: un eroe solitario, capace di affrontare l’infinito nulla con dignità stoica. La sua poesia è divenuta un inno alla caducità della vita, un lamento dolce e struggente per tutto ciò che è destinato a svanire.
Leopardi, con la sua penna intrisa di malinconia, tracciava versi che erano come stelle cadenti, brevi e brillanti, destinate a spegnersi nel vasto firmamento dell’eternità. Ma la sua voce risuona ancora oggi, un’eco lontana che ci ricorda la nostra vulnerabilità e, al contempo, la nostra straordinaria capacità di trovare bellezza nel dolore.
Così, Giacomo Leopardi rimane per sempre il poeta delle illusioni perdute, un filosofo dell’esistenza che ci invita a guardare dentro noi stessi, a riconoscere la nostra solitudine, ma anche a celebrare la nostra irriducibile umanità.