Giuseppe Parini è stato certamente stato il più frizzante degli illuministi milanesi, colui il quale sferzò, con la sua ironia, la classe nobiliare della Lombardia “austriaca” della seconda metà del ’700. Nella sua opera più celebre, Il Giorno, narra, in versi endecasillabi, la tipica giornata del “giovin signore”, l’esemplare esponente del patriziato milanese, dal risveglio a tarda mattina fino al rientro a casa a notte fonda. L’Autore funge da “precettor d’amabil rito”, com’egli stesso si definisce, sempre pronto a mostrare al suo signore i trucchi e i modi per riempire, con stuzzicanti e coinvolgenti avventure, i tanti momenti di noia. L’opera è un capolavoro insuperato di umorismo. Parini, d’altronde, conosceva bene gli ozi e le abitudini della nobiltà milanese, secondo quello stile di vita condensato nell’adagio “vizi privati e pubbliche virtù”, perché l’aveva frequentata a lungo, quando era stato precettore presso le aristocratiche famiglie dei Serbelloni e degli Imbonati. Emerge, quindi, un ritratto sì caricaturale, ma rispondente al vero. Tutto è teso alla presa in giro e alla messa alla berlina dei nobili e dei loro stravaganti modi di vivere. Finanche il linguaggio, il cui uso è così volutamente fine e ricercato, denso di metafore fascinose e richiami mitologici dal sapore barocco, in modo da risultare spesso comico, serve alla causa. La critica di Parini (immaginea destra) al mondo nobiliare non è stata, però, soltanto distruttiva. Non semplice disapprovazione o preconcetta avversione: egli sperava che i nobili la smettessero di vivere da parassiti e partecipassero attivamente alla vita sociale, che si impegnassero in politica e, forti della loro posizione e della loro ricchezza, contribuissero a migliorare la società. Il portato di queste riflessioni è più attuale che mai, oggi, che si sta facendo un gran parlare di caste e presunta negligenza dei politici.
Sono molto felice di pubblicare sul mio blog, a partire da oggi, gli scritti di Carmela Puntillo. Carmela si è laureata in Lettere all’Università degli Studi di Padova, ha partecipato a concorsi per diventare bibliotecaria e ha insegnato nelle scuole medie, sostenendo anche il concorso a cattedra per l’insegnamento di materie letterarie (classi A043 e A050). Ha collaborato con centri culturali come insegnante, preparando conferenze per il Centro Scaligero degli Studi Danteschi e della Cultura Internazionale di Verona, per la Cordata di Verona e per la Fondazione Toniolo, sempre della stessa città. È stata iscritta all’AMIS (Antiquae Musicae Italicae Studiosi) per 27 anni ed ha un diploma in musica. È membro da 23 anni al Centro Scaligero degli Studi Danteschi e della Cultura Internazionale di Verona e, da più di 10 anni, dell’Associazione Amici dei Musei e dei Monumenti di Vicenza.
LEZIONE DEL CENTRO SCALIGERO DEGLI STUDI DANTESCHI
CANTO IV DEL PARADISO: SPIEGAZIONE E COMMENTO
08/02/2021
Il canto ha un carattere prevalentemente dottrinale, secondo quanto avevano elaborato la cultura e la teologia del tempo, e si divide in due parti, costituite a loro volta da ulteriori suddivisioni: nella prima parte Beatrice dà spiegazioni a Dante sui due dubbi che gli legge nel pensiero (cioè quello sulla verità della dottrina di Platone, che nel Timeo affermava che la sede delle anime sono le stelle, e quello sul merito delle anime che hanno mancato ai voti per violenza subita); nella seconda parte Dante ringrazia Beatrice per i chiarimenti avuti, glorificando Dio, Verità Assoluta, da cui solo possiamo avere la spiegazione dei nostri dubbi, e formula una nuova domanda a cui Beatrice risponderà nel canto successivo…
Giacomo Leopardi e Lucio Dalla. Un poeta-filosofo e un cantautore. Cosa possono avere mai in comune? Lo scoprirete presto! Voglio, però, condurvici pian piano, cominciando da un elemento naturale, visibile, di notte, da qualche parte nel cielo: la luna. La luna ha eccitato la fantasia dei poeti sin dalla notte dei tempi. Gli antichi greci la deificarono, arrivando a conferirle una triplice personificazione: Proserpina, moglie di Ade e regina degli Inferi (simbolo della luna calante); Artemide, dea della caccia (simbolo della luna crescente), e Selene, la luna propriamente detta (la luna piena). Anche Dante Alighieri cedette al fascino di questa triplice personificazione e, nel canto X dell’Inferno, ai versi 79-81, mise in bocca a Farinata degli Uberti, fiero capo ghibellino, una profezia post eventum, scritta, cioè, quando gli eventi predetti erano già accaduti: “Ma non cinquanta volte fia raccesa/ la faccia de la donna che qui regge/ che tu saprai quanto quell’arte pesa”. Dante si riferiva proprio alla luna (Proserpina, la donna che qui regge, in una commistione tra mitologia classica, dottrina cristiana e astronomia medievale), e le cinquanta volte in cui si sarebbe “riaccesa” rappresentavano i cinquanta mesi mancanti alla sua condanna all’esilio. Più vicino a noi, come non citare i tenerissimi versi di uno dei miei migliori conterranei: il principe De Curtis, Totò, il quale, nella poesia “A cunsegna”, esplora il topos poetico della luna quale benevola protettrice degli innamorati: “’A sera quanno ‘o sole se nne trase/ e dà ‘a cunzegna a luna p’ ‘a nuttata/ lle dice dinto ‘a recchia: I’ vaco ‘a casa:/ t’arraccumanno tutt’ ‘e nnammurate”. La luna, quindi, è il trait d’union tra i due protagonisti di questo mio breve scritto.
Nonostante tutto ciò, mi si potrebbe obiettare: “Cosa c’entra uno dei più grandi, se non il più grande poeta italiano con Lucio Dalla, un cantante, seppure famoso? Cosa possono avere in comune un uomo che, a 10 anni, aveva una cultura vasta quanto quella di un paio di centenari messi insieme con un personaggio che ha giusto terminato le scuole medie? Cosa c’entra, dunque, Giacomo Leopardi con Lucio Dalla? Posso assicurarvi che hanno molti punti in comune e cercherò, qui, di esporveli nel modo più breve ma più esauriente possibile. Il materialismo del pensiero marxista, dal punto di vista filosofico-letterario (ciò, in Italia, è avvenuto soprattutto grazie all’opera di Antonio Gramsci), ha avuto il merito di permettere ai critici di concentrarsi su problematiche, relative agli autori, non soltanto di poetica ma anche, e soprattutto, di vita reale, materiale. Ecco perché, allora, gli elementi biografici di un autore assumono una importanza fondamentale nel tentativo di ricostruire e motivare l’arte dello stesso. Detto questo, andiamo ad analizzare cosa successe nelle vite di questi due personaggi, Leopardi e Dalla, in quella fase delle loro vite dove, per usare una felice espressione, andò in scena, per entrambi, il “preludio del genio”. Giacomo Leopardi, il conte Giacomo Taldegardo Leopardi (immagine a destra), nacque a Recanati, il 28 giugno 1798. Era figlio di genitori molto particolari. Il padre Monaldo, nobile, intellettuale, era il responsabile del dissesto economico familiare. Un uomo che viveva con la testa tra le nuvole, o, meglio, tra i libri, e incapace ad amministrare i beni di famiglia, terreni, fattorie, campi. Fu scrittore anch’egli, eclissato, ovviamente, dalla fama del figlio. Fu lui ad istillare nel piccolo Giacomo l’amore per le lettere. Aveva una biblioteca prodigiosa, visitabile, ancora oggi, a Recanati. Era un brav’uomo, a modo suo affettuoso con i dieci figli, ma, ripeto, totalmente incapace nella gestione degli affari di famiglia. La madre, Adelaide dei marchesi Antici, fu l’amministratrice economica della casa, riuscendo anche ad assestare il patrimonio, a prezzo di grandi sacrifici. Una donna dura, che non mostrava affetto, arida, molto religiosa, ai limiti della superstizione. Una figura, quindi, tutt’altro che materna. Il rapporto di Leopardi con la madre è, ancora oggi, oggetto di studio. Vi è un solo luogo nella sua opera, nelle Operette morali, in cui il poeta identifica la cattiva Natura con la madre, ma è comunque troppo poco per ritenere che sia l’interpretazione preponderante del suo rapporto con donna Adelaide. Lucio Dalla nacque a Bologna, il 4 marzo 1943. Il padre, Giuseppe, era un commesso viaggiatore, poco impegnato nel suo lavoro, quanto piuttosto nelle sue passioni, la caccia e la pesca. Un bell’uomo, alto e prestante. Morì di tumore quando Lucio aveva solo 6 anni. Il dolore di quella perdita avrebbe accompagnato il cantante per tutta la vita, influenzandone anche la poetica. La madre, Iole, era una sarta, una donna energica e risoluta, che dovette farsi carico dell’educazione del figlio e della sua crescita, in una Italia che usciva devastata dalla guerra. Una figura fondamentale nella vita di Lucio. La balena bianca, come è stata spesso chiamata. Giacomo Leopardi trascorse l’infanzia e la prima giovinezza nel palazzo di famiglia a Recanati, più propriamente, nella biblioteca del palazzo, in lunghissime ore di studio. A quindici anni già conosceva il latino, il greco, l’ebraico, l’inglese e il francese. Componeva trattati di astronomia e di chimica. Era già un vero e proprio erudito. Aveva mostrato, quindi, a quell’età, le caratteristiche del genio letterario che lo avrebbero consacrato alla fama immortale. Lucio Dalla (immagine a sinistra) ebbe, in sua madre, il vero incentivo della sua carriera d’artista. La donna lo faceva esibire prima delle sfilate di moda che teneva d’estate, a Manfredonia, dove si recava per vendere i capi delle sue collezioni. A dieci anni, Lucio era un animale da palcoscenico. Ci sono delle bellissime fotografie nel libro di Angelo Riccardi, “Ti racconto Lucio Dalla” (2014), che lo ritraggono con gli abiti di scena. Fa tenerezza. Era davvero un bel bimbo, disinvolto, sicuro di sé. Gli insuccessi scolastici, l’abbandono della scuola al quinto ginnasio e l’amore per la musica, per quel clarinetto, che gli era stato regalato da un amico di famiglia, il forsennato studio dello strumento, da autodidatta, e l’arrivo a Roma, lo proiettarono nel mondo della musica, grazie anche alla protezione di Gino Paoli. Questi, infatti, gli aveva consigliato di affrancarsi da I Flippers e di intraprendere la carriera solista. Appare chiaro, quindi, come entrambi, sin dall’infanzia, manifestassero quelle qualità che, poi, avrebbero sublimato nelle proprie creazioni artistiche. Vi ho già detto della luna. La poetica di Leopardi e di Dalla è una poetica naturalistica, in cui con gli elementi della natura è costante. Sono riuscito a contare almeno cinquanta occasioni in cui, nelle canzoni di Dalla, compaia la luna. Di meno nelle poesie e prose di Leopardi. Questo dialogo dei due, però, si compie in modi differenti. Dalla vi dialoga come un innamorato che si rivolge al garante del suo amore per la natura. Nella poetica dalliana la luce della luna illumina l’esistenza notturna degli uomini, nella notte della vita, quando le cose non appaiono ben chiare e definite nei loro contorni. La luna di Dalla ha anche una funzione salvifica e apotropaica. Pensate ai versi di Caruso: “Ma quando vide la luna uscire da una nuvola/ gli sembrò più dolce anche la morte”. In Leopardi, invece, le invocazioni alla luna sono disperate richieste di aiuto contro una Natura che il poeta giudica essenzialmente maligna e dannosa per gli uomini. Sono grida infelici di una grande mente che si sforza di ricercare qualche positività in un sistema di elementi che lui giudica pernicioso per l’uomo. Questa concezione viene fuori, principalmente, nel Canto notturno di un pastore errante per l’Asia e in Alla luna, opere al cui dialogo con l’astro l’autore affida lo svelamento delle proprie concezioni filosofiche sulla natura, sulla vita e sulla condizione degli uomini. Un altro elemento che accomuna i due autori, è un concetto di derivazione classica: il binomio Eros-Thanatos, Amore e Morte. Esso sottintende al capolavoro di Dalla, Caruso, perché ha attraversato anche la sua vita. Lucio si è portato dietro, per sempre, il ricordo della tragica fine del padre e, altre volte nella vita, ha perso persone a lui care. Questi sentimenti sono presenti nella sua canzone più celebre. Il grande tenore Enrico Caruso, nell’ora della morte, è innamorato della fanciulla sorrentina, alla quale sta dando lezioni di canto. L’amore, Eros, nell’ora della Morte, Thanatos, la rende più dolce, in un binomio indissolubile. “Amore e morte”, invece, è il titolo di un canto di Leopardi, scritto all’epoca dello sfortunato amore per Fanny Targioni Tozzetti, per cui, certamente risente della delusione per la mancata corrispondenza amorosa. Anche per Leopardi, Amore e Morte rappresentano un binomio indissolubile: “Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte/ ingenerò la sorte”, recita il citato canto. Nella concezione leopardiana, tipicamente estremista, la morte non è soltanto un male a cui bisogna rassegnarsi, ma, vista in contrapposizione con il dolore, la malattia e le pene dell’esistenza, assume connotazioni positive, come una sorta di miglioramento rispetto allo stato abituale dell’uomo, una liberazione dai laceranti dolori dell’animo. La morte è un punto di arrivo, una soluzione finale, una meta verso cui tendere, un traguardo indolore e quieto, che rappresenta la fine di ogni tormento. Un ultimo, importante legame, che accomuna questi due personaggi straordinari: l’amore per Napoli. Quello di Lucio Dalla per Napoli, per Sorrento e per il Sud Italia, come è ormai noto, grazie anche alle recenti pubblicazioni di Raffaele Lauro (“Caruso The Song – Lucio Dalla e Sorrento”, 2015, “Lucio Dalla e San Martino Valle Caudina – Negli occhi e nel cuore”, 2016, e “Lucio Dalla e Sorrento Tour – Le tappe, le immagini e le testimonianze”, 2016), è stato un amore fatto di rapporti sinceri con le persone, di lunghe frequentazioni, di curiosità per gli aspetti della vita delle genti del Sud. Lucio era interessato alla vita del Sud. Aveva dei taccuini neri sui quali annotava sempre tutto. Era un curioso come il don Ferrante de I promessi sposi. Anche Leopardi amò Napoli, seppure di un amore bisbetico e insofferente, per un ambiente, soprattutto intellettuale, che considerava alquanto arruffato. Leopardi morì a Napoli, a 39 anni, più precisamente, a Villa delle Ginestre, a Torre del Greco, ospite del fidato amico Antonio Ranieri. A Napoli è, ancora oggi, la sua tomba. In quella villa aveva composto il suo testamento spirituale, quella La ginestra, che nel 2014, è stata protagonista della scena di chiusura del film di Mario Martone, Il giovane favoloso, dedicato proprio alla breve esistenza del poeta di Recanati. L’attore Elio Germano, che interpreta Leopardi, ne recita alcuni versi, mentre il Vesuvio, lo “sterminator Vesevo”, erutta. Pochi giorni prima di morire, a Torre, Leopardi aveva composto Il tramonto della Luna. Ancora una volta, la luna.
Julius Evola (1898-1974) è stato uno dei filosofi italiani più controversi del XX secolo, noto per le sue posizioni radicali e la sua visione del mondo che abbraccia il tradizionalismo e il misticismo. Pensatore poliedrico, le sue opere spaziano dalla filosofia alla metafisica, dalla critica culturale alla storia delle religioni. La sua eredità intellettuale continua a suscitare dibattiti sia in ambito accademico che politico. Giulio Cesare Andrea Evola, conosciuto come Julius, nacque a Roma, il 19 maggio 1898. Dopo aver frequentato il liceo classico, si iscrisse alla facoltà di Ingegneria, che abbandonò per dedicarsi alla pittura e alla letteratura. Durante la sua giovinezza, fu influenzato dai movimenti avanguardistici e dal dadaismo, prima di rivolgersi definitivamente alla filosofia e alla spiritualità. Il pensiero di Evola è caratterizzato da una forte critica della modernità e da un ritorno ai valori tradizionali e aristocratici. Si opponeva al materialismo, al razionalismo e al progressismo, che considerava responsabili della decadenza dell’Occidente. La sua filosofia si fonda su principi chiave, quali la tradizione, vista come antidoto alla disgregazione moderna e considerata un insieme di principi eterni e universali, trasmessi attraverso le civiltà antiche e le grandi religioni; il superamento dell’Io, influenzato dalle filosofie orientali e dall’esoterismo, sosteneva la necessità di superare l’ego individuale per raggiungere una dimensione spirituale superiore; gerarchia e ordine, una società ideale deve essere gerarchica e ordinata, guidata da un’élite spirituale e aristocratica, vedendo nell’epoca medievale un esempio di tale struttura contrapposta al livellamento democratico moderno; simbolismo e misticismo, cui attribuiva grande importanza come vie per comprendere la realtà trascendente.
Tra le sue opere principali, Rivolta contro il mondo moderno (1934), in cui delinea una critica radicale della civiltà moderna e propone un ritorno ai valori tradizionali; Metafisica del sesso (1958), dove esplora la dimensione spirituale della sessualità vista come un mezzo per raggiungere stati superiori di coscienza; Il cammino del cinabro (1963), un’autobiografia intellettuale in cui riflette sulla sua vita e sulle sue opere, offrendo una visione d’insieme del suo percorso filosofico; Cavalcare la tigre (1961), un manuale di sopravvivenza spirituale per l’individuo moderno, in cui consiglia come affrontare la crisi dei tempi a lui presenti senza compromessi con il decadimento. L’influenza di Evola si estende ben oltre il suo tempo, avendo avuto un impatto significativo su vari movimenti tradizionalisti, spirituali e politici. Tuttavia, la sua vicinanza a ideologie estremiste e il suo coinvolgimento con il fascismo hanno sollevato numerose controversie e critiche. Rimane comunque una figura polarizzante, il cui pensiero continua a essere studiato e reinterpretato. La sua critica alla modernità e il richiamo a valori trascendenti trovano ancora risonanza in certi ambienti intellettuali e spirituali, dimostrando la perenne attualità delle sue riflessioni.
Non di rado capita che, nella storia della letteratura, possano essere generati malintesi che eternano immagini e caratteristiche di personaggi storici non sempre rispondenti al vero. È il caso di papa Adriano V, al secolo Ottobono Fieschi, genovese, asceso al soglio di Pietro, settantenne, l’11 luglio del 1276 e morto dopo soltanto 39 giorni di pontificato. Molto poco, data l’estrema brevità del suo regno, ebbe occasione di compiere, riuscendo appena a convocare un concistoro segreto, nel quale sospese la costituzione apostolica Ubi periculum, contemplante le norme per l’elezione papale, riservandosi di riformarla successivamente, cosa che, però, non ebbe il tempo di fare. Nonostante non vi siano affatto conferme della sua presunta avarizia, Adriano V è stato vittima di due singolari equivoci letterari. È stato, infatti, collocato da Dante nella quinta cornice del Purgatorio, tra gli avari e i prodighi: “Spirto in cui pianger matura/ quel sanza ‘l quale a Dio tornar non pòssi,/ sosta un poco per me tua maggior cura./ Chi fosti e perché vòlti avete i dossi/ al sù, mi dì, e se vuo’ ch’io t’impetri/ cosa di là ond’io vivendo mossi”./ Ed elli a me: “Perché i nostri diretri/ rivolga il cielo a sé, saprai; ma prima/ scias quod ego fui successor Petri./ Intra Sïestri e Chiaveri s’adima/ una fiumana bella, e del suo nome/ lo titol del mio sangue fa sua cima./ Un mese e poco più prova’ io come/ pesa il gran manto a chi dal fango il guarda,/ che piuma sembran tutte l’altre some./ La mia conversïone, omè!, fu tarda; /ma, come fatto fui roman pastore,/ così scopersi la vita bugiarda./ Vidi che lì non s’acquetava il core,/ né più salir potiesi in quella vita;/ per che di questa in me s’accese amore./ Fino a quel punto misera e partita/ da Dio anima fui, del tutto avara;/ or, come vedi, qui ne son punita./ Quel ch’avarizia fa, qui si dichiara/ in purgazion de l’anime converse;/ e nulla pena il monte ha più amara./ Sì come l’occhio nostro non s’aderse/ in alto, fisso a le cose terrene,/ così giustizia qui a terra il merse./ Come avarizia spense a ciascun bene/ lo nostro amore, onde operar perdési,/ così giustizia qui stretti ne tene,/ ne’ piedi e ne le man legati e presi;/ e quanto fia piacer del giusto Sire, /tanto staremo immobili e distesi” (Pur. XIX, 91-126). In modo simile, Francesco Petrarca, nel suo Rerum Memorandum Libri (III, 95), asseconda il peccato del pontefice, salvo, poi, nella raccolta epistolare Rerum Familiarium Libri (IX, 25-28), rettificare il suo sbaglio. L’errore, in entrambe le “Corone fiorentine”, potrebbe aver avuto origine dalla lettura della Historia Pontificalis di Giovanni di Salisbury, scrittore inglese, vescovo di Chartres nella seconda metà del XII secolo, il quale attribuì a papa Adriano IV, il connazionale Nicholas Breakspear, grande avarizia, unita ad una smisurata sete di potere, vizi che, poi, sarebbero scomparsi proprio in seguito all’elezione papale, come risulta anche nei citati versi di Dante. Il duplice malinteso, quindi, sarebbe stato generato dalla sostanziale omonimia tra i due vicari di Cristo in terra.
Nel soave fluire dei versi danteschi, tra le righe vergate di un’opera eterna come la Divina Commedia, appare la figura di Pia de’ Tolomei, donna di nobile lignaggio e tragico destino. La sua storia si intreccia con le trame del Purgatorio, nel canto V, dove le anime dei morti di morte violenta si purificano prima di ascendere al cielo. Pia de’ Tolomei appare con grazia eterea, avvolta in un’aura di melanconia. Il suo spirito, sospeso tra ricordi terreni e speranze ultraterrene, evoca una tenerezza infinita e una dignità senza tempo. Dante, con il suo sguardo attento e pietoso, cattura l’essenza di questa donna che, pur nel dolore, conserva una bellezza immacolata e una forza d’animo rara.
“Deh, quando tu sarai tornato al mondo
e riposato de la lunga via”, seguitò ‘l terzo spirito al secondo, “ricorditi di me, che son la Pia;
Siena mi fé, disfecemi Maremma:
salsi colui che ‘nnanellata pria
disposando m’avea con la sua gemma”. (Purg., V, 130-136)
Con queste parole, Pia si presenta a Dante, rivelando in pochi versi la sua identità e la sua tragedia. Nata a Siena, è stata vittima di un tradimento crudele. Il suo destino è stato segnato dall’inganno e dalla violenza, ma nelle sue parole risuona una pacata accettazione, una serena consapevolezza della sua sorte. La figura di Pia de’ Tolomei è un simbolo di fedeltà, un’eco lontana di amori perduti e speranze infrante. La sua presenza nel Purgatorio è come un fiore delicato in un giardino di spine, un ricordo dolce e amaro che sopravvive ai secoli. La sua storia, sebbene intrisa di sofferenza, brilla di una luce pura e inviolata, un faro di umanità e compassione. In Pia de’ Tolomei Dante coglie l’essenza della fragilità umana e della resistenza dell’anima. La sua breve apparizione è sufficiente a imprimere un segno indelebile nel cuore del lettore, un monito sulla vanità delle ambizioni terrene e sulla nobiltà del perdono. Con la sua voce sommessa e il suo sguardo mesto Pia ci invita a riflettere sulla caducità della vita e sull’eternità dello spirito. E così, nel silenzio del Purgatorio, risuona ancora la voce di Pia, un canto di dolore e di speranza che si leva come un sussurro tra le stelle. La sua figura, scolpita nei versi immortali di Dante, continua a vivere, a parlare, a commuovere, testimone di una bellezza che trascende anche il tempo!
Pio Fedi, “Pia de’ Tolomei e Nello della Pietra”, 1861 – Firenze, Palazzo Pitti
La Commedia dell’arte, fenomeno culturale nato in Italia nel XVI secolo, prese il nome dall’accezione medievale del termine arte, ovvero mestiere, perché, per i recitanti, il teatro costituiva un lavoro e non una passione a cui dedicarsi nel tempo libero. Unitisi in cooperative, la compagnie teatrali, attori e, per la prima volta sulle scene, attrici, portavano le loro rappresentazioni sia nei palazzi signorili che nelle piazze e nei mercati. Tra le più celebri compagnie, quelle di Ser Maphio, padovana, dei Gelosi, milanese, dei Confidenti, fiorentina, degli Accesi, dei Fedeli e degli Uniti, mantovane. Tra gli attori, invece, degni di essere ricordati, Francesco Andreini, Alberto Naselli, Pier Maria Cecchini e la moglie Orsola, Francesco Gabrielli, Flaminio Scala, Silvio Fiorillo, Virginia Rotari e Giovanni Pellesini. La vera novità della Commedia dell’Arte era nel fatto che gli artisti non interpretavano testi scritti od opere drammaturgiche vere e proprie, quanto piuttosto recitavano rifacendosi ad un canovaccio, cioè all’insieme, a grandissime linee, degli elementi di una trama. Salivano sul palcoscenico improvvisando, con grande bravura e abilità, le situazioni più varie e divertenti possibili, ma che avevano sempre gli stessi protagonisti, le maschere, personaggi facilmente riconoscibili dall’abbigliamento e da caratteri propri, ogni volta identici. Esse avevano le stesse fattezze di quelle con le quali molti dei bimbi della mia generazione, me compreso, si travestivano a Carnevale: Arlecchino, servo imbroglione e sempre alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti; Balanzone, chiacchierone e presuntuoso; Brighella, servitore furbissimo e macchinatore di truffe e inganni di tutti i tipi; Colombina, giovinetta intelligente e maliziosa; Pulcinella, gobbo, spaccone e bugiardo; Tartaglia, cieco e balbuziente; Pantalone, vecchiaccio che correva sempre dietro alle donne. Queste maschere rappresentavano spettacoli davvero comici, i quali, però, a causa del carattere di improvvisazione, non sono stati quasi mai trascritti, per cui, oggi è alquanto difficile ricostruire con precisione, né tanto meno poter rappresentare, un’opera della Commedia dell’arte. Accanto a questi attori, comunque, ci fu, tuttavia, chi, tra il XVI e XVII secolo, continuò a fare teatro alla vecchia maniera, vale a dire, seguendo i soliti generi, la commedia, la tragedia e i drammi, ma con linguaggi e significati diversi, rispetto alla tradizione precedente: Giovan Battista Guarini, Federico Della Valle e Carlo de’ Dottori.
Che la Natura fosse un grande libro, nelle cui pagine sono scritte tutte le cose riguardanti i viventi, fu chiaro già ai primi uomini. Essi, infatti, impararono dalla Natura a conservare sé stessi e da essa trassero le condizioni migliori e più opportune per la loro sopravvivenza. Vi fu un uomo, però, che su quel libro ne scrisse un altro, intitolandolo De planctu Naturae (Il pianto della Natura). Costui si chiamava Alano ed era originario di Lille, in Francia, ove nacque intorno al 1125. Fu così colto che i contemporanei lo chiamarono doctor universalis perché, quando lo ascoltavano, sembrava loro di sfogliare il romanzo con cui era stato costruito l’Universo mondo. L’opera di Alano, ad ogni modo, non è di piacevolissima lettura, specialmente per il lettore contemporaneo, perché risente del pessimismo schiettamente medievale nei confronti della condizione umana (mi sovvengono anche il De contemptu mundi, Il disprezzo del mondo, di Lotario di Segni, il futuro papa Innocenzo III, e la Elegia de diversitate fortunae, Elegia sull’avversità della fortuna, di Arrigo da Settimello, che pure si muovono in quel senso). Ciononostante, bisogna essere a lui grati per alcuni versi riportativi: “Omnis mundi creatura/ quasi liber et pictura/ nobis est in speculum/ nostrae vitae, nostrae mortis/ nostri status, nostrae sortis/ fidele signaculum” (Ogni creatura dell’universo, quasi fosse un libro o un dipinto, è per noi come uno specchio della nostra vita, della nostra morte, della nostra condizione, segno fedele della nostra sorte). Troppo spesso si confonde il sapere soltanto con quanto è scritto nei libri e ci si affanna ad apprendere quante più notizie possibili, quasi come se la conoscenza dipendesse esclusivamente dal numero delle date dei maggiori eventi storici che si riuscisse a mandare a memoria o da quanti nomi di personaggi famosi si conoscano. Il primo modo di apprendere il sapere è leggere il libro della Natura o, sarebbe meglio dirla con Alano, il libro delle creature della Natura. A ciò fa eco un altro pensatore, l’inglese Thomas Hobbes, il quale affermò, circa cinquecento anni dopo, nella prefazione del suo Leviatano, che la sapienza non si acquistasse leggendo i libri, ma leggendo gli uomini. Il problema cruciale per il genere umano, purtroppo, consiste nel fatto che molti non passino neppure un’ora né in biblioteca, né in campagna.
Il trattato Del Sublime dello Pseudo Longino (ignoto filologo dei primi decenni del 1° sec. d.C.), testo che naviga tra le acque profonde dell’estetica e della retorica, si erge come un faro per chi cerca di comprendere cosa realmente sollevi l’arte e il pensiero umano dall’ordinario al trascendente. Quest’opera, avvolta nel mistero della sua attribuzione, si dispiega come un antico rotolo, rivelando segreti sulla sublime arte della grande scrittura e dell’oratoria. Il sublime di Longino non è confinato alle mere tecniche retoriche; è piuttosto un grido che risuona nella vastità del cuore umano, un invito a elevarsi sopra la piattezza della quotidianità. L’Autore esplora con ardore come il genio dell’uomo possa toccare il cielo, non solo tramite la grandezza del pensiero, ma anche con la potenza e l’impeto dell’espressione. Attraverso esempi che spaziano da Omero a Platone, da Cicerone a Demostene, Longino illustra come il sublime possa scuotere l’anima, provocare stupore e ammirazione e lasciare un’impronta indelebile nella memoria dell’ascoltatore o del lettore. La grandezza, sostiene, risiede nella capacità di evocare il vasto e l’infinito, di far sì che chi ascolta si senta di fronte a qualcosa di significativamente maggiore di sé stesso.
Il trattato stesso è un esempio altissimo di questa teoria: è un tessuto di prosa filosofica e critica letteraria, intessuto di elevati pensieri che sfidano il tempo. La sua lingua, pur essendo un classico, non si arrende all’oblio, pulsando di una vita che ispira ancora chi scrive e chi parla con aspirazioni elevate. Il trattato Del Sublime, quindi, è un inno alla grandezza umana, un manuale per coloro che aspirano a lasciare un segno indelebile nel mondo attraverso il potere della parola. È un’opera che non solo insegna, ma che tocca le corde dell’anima, invitando ogni lettore a superare i confini del pensabile e a raggiungere l’eterno.
Dodici secoli più tardi, Dante Alighieri avrebbe espresso un simile concetto nel canto XV dell’Inferno, allorquando, incontrando l’anima del suo amato maestro di retorica, Brunetto Latini, pronunciò queste parole:
ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora, la cara e buona imagine paterna di voi quando nel mondo ad ora ad ora m’insegnavate come l’uom s’etterna.
(vv. 82-85).
Nel profondo vortice di un mare furioso, dove l’ira di Nettuno si scaglia con rabbia sulle indifese navi, nasce l’incanto di “La Tempesta”, sublime creazione shakespeariana, che gioca tra i fili dell’arte magica e della profonda umanità. Quest’opera, ultima gemma nata dalla penna del Bardo, è, in realtà, un viaggio che trasporta l’anima oltre i confini del reale, in un’isola dove ogni sasso e ogni granello di sabbia consegnano mistero. Il dramma si apre con una tempesta evocata dal mago Prospero, il quale, con il suo potente libro di incantesimi, scatena i venti e le onde per far naufragare una nave vicino alla sua isola. Questo naufragio non è solo un caso di cieca vendetta, ma una mossa calcolata per riportare nella sua vita coloro che lo avevano tradito, compreso suo fratello Antonio, che gli aveva usurpato il ducato di Milano. Sull’isola, Prospero vive con sua figlia Miranda, cresciuta lontana dalla civiltà e ignara delle vicende che hanno portato all’esilio suo e del padre. Insieme a loro, vi è Calibano, un essere deforme e brutale, figlio della strega Sycorax, precedentemente signora dell’isola. Calibano serve Prospero, sebbene con rancore e malcontento, sognando di liberarsi dal suo controllo. Prospero usa il suo spirito servo, Ariel, per controllare gli eventi sulla nave naufragata e guidare i sopravvissuti sull’isola. Tra questi vi sono Ferdinando, il figlio del re di Napoli, e altri nobili come Gonzalo, il gentile consigliere che aveva aiutato Prospero e Miranda a fuggire anni prima. Mentre Ferdinando si separa dagli altri superstiti, incontra Miranda e i due si innamorano rapidamente, un’unione che Prospero desidera segretamente, ma che mette alla prova con ostacoli e impacci. Nel frattempo, Calibano si allea con Stefano, il servo del re, e Trinculo, il buffone, in un comico ma fallimentare tentativo di rovesciare Prospero. Questi complotti secondari si intrecciano con la magia e le illusioni create da Prospero per redimere i suoi nemici, il quale, però, dopo aver orchestrato una serie di rivelazioni e pentimenti, decide di perdonare i suoi avversari, rivelando l’umanità e la saggezza acquisita durante gli anni di esilio. Restituisce Ferdinando a suo padre e rinuncia alla sua magia, manifestando il suo desiderio di lasciarsi alle spalle le manipolazioni e i trucchi per tornare alla vita normale a Milano.
“La Tempesta”, William Hamilton (1790 c.a.)
La tempesta che dà il titolo all’opera è l’inizio di una catena di riconciliazioni, un tumulto delle onde che rispecchia il trambusto dei cuori, portando i naufraghi verso una riva di perdono e rinascita. Antonio, Alonso e i loro complici affrontano il naufragio dei loro piani e delle loro anime, ritrovandosi faccia a faccia con i propri demoni, in un confronto che scuote le fondamenta del loro essere. Calibano, mostro e vittima, è la voce dell’isola stessa, selvaggio e indomito, figlio di una strega e di un diavolo, evoca un’empatia torbida e profonda, un richiamo alla libertà che rifiuta catene, anche quando queste sono forgiate dalle stelle. Ariel, spirito etereo e fedele servitore di Prospero, danza tra l’aria e il fuoco, un soffio di vento che compie i desideri del suo padrone con una grazia che sfiora la tristezza, la malinconia di chi sogna una libertà ancora lontana. Shakespeare tesse una trama dove magia e realtà si intrecciano inestricabilmente, lasciando che il soprannaturale e l’umano si influenzino a vicenda, in un balletto di cause ed effetti. “La Tempesta” è un’opera di straordinaria profondità psicologica, che esplora temi di potere, controllo, libertà e il difficile percorso verso il perdono. In questo testo, Shakespeare sembra quasi dialogare con se stesso, riflettendo sul potere dell’arte e del teatro di evocare tempeste e di placarle, di creare mondi e di dissolverli, proprio come Prospero con la sua bacchetta magica. Alla fine, quando il mago rinuncia ai suoi poteri, assistiamo forse al commiato del drammaturgo dall’arte che tanto ha amato e plasmato. “La Tempesta” è, quindi, più di una semplice rappresentazione teatrale; è un inno al potere salvifico della narrazione, un richiamo poetico che risuona attraverso i secoli, sussurrando che anche nei nostri giorni turbolenti, il teatro e la letteratura possiedono la magica capacità di trasformare la più oscura tempesta dell’anima in una calma, luminosa alba. L’opera si conclude con una celebrazione del potere riconciliatore del perdono e dell’amore. Nell’ultima scena, la figura di Prospero emerge in tutta la sua complessità umana e magica. Egli si rivolge direttamente al pubblico, in un rompere della quarta parete che è tanto un atto di magia quanto uno di umiltà. Con un discorso che sovrappone speranza e malinconia, Prospero chiede di essere liberato dal peso dei suoi poteri magici e dall’isolamento dell’isola attraverso l’applauso del pubblico, un gesto che simboleggia il perdono e l’accettazione collettiva. “La Tempesta”, in questo epilogo, si rivela non solo come un’opera di intrattenimento ma anche come un profondo esame della natura umana e del suo potenziale di cambiamento e rinnovamento. Shakespeare, con maestria ineguagliabile, collega i temi del potere e della giustizia con quelli della redenzione e del riscatto personale. Il drammaturgo esplora come il potere possa essere usato sia per dominare che per liberare, e come alla fine, il più grande atto di potere possa essere il perdono. In quest’opera, il teatro stesso diventa uno strumento di magia e di guarigione. Shakespeare usa il palcoscenico per creare un luogo dove le tempeste dell’anima possono essere quietate e i legami spezzati possono essere rinnovati. L’arte del teatro è mostrata come un mezzo per esplorare e alla fine pacificare i conflitti interni e esterni, offrendo al pubblico non solo una fuga dalla realtà, ma anche una via per comprendere meglio se stessi e il mondo. “La Tempesta” si conclude, quindi, con un inno alla possibilità di trasformazione e di rinnovamento che risiede in ognuno di noi. L’appello finale di Prospero per un applauso che lo liberi diventa un simbolo potente della capacità dell’arte di connettere, curare ed elevare lo spirito umano. In questo modo, l’opera di Shakespeare rimane un testamento luminoso della sua capacità di fondere temi profondi con un intrattenimento vivace e coinvolgente, unendo il pubblico in una riflessione comune su potere, giustizia e la redenzione umana attraverso l’immortale arte del teatro.